L’adesione dell’Unione Europea alla CEDU, una svolta ancora possibile
L’ordinamento giuridico, inteso come insieme di norme da cui scaturiscono diritti e doveri, è organizzato gerarchicamente secondo un sistema aperto all’ingresso di fonti normative esterne derivanti dall’appartenenza dello Stato ad una Comunità Internazionale suddivisa, a sua volta, in diverse organizzazioni. Ogni Stato, proprio come qualsiasi individuo, intrattiene relazioni con altri paesi e alcune di esse assumono rilevanza giuridica producendo un diritto di rango gerarchicamente superiore a quello dei singoli Stati.
Da questa sorta di “contatto sociale” tra diverse Nazioni deriva il cosiddetto “diritto internazionale consuetudinario” a seguito della prassi consolidata nel tempo (diuturnitas) e della convinzione della sua forza vincolante (opinio iuris ac necessitatis) ad opera di popoli anche molto diversi e distanti tra loro. In proposito, l’art. 10 Cost. riconosce al diritto internazionale consuetudinario il medesimo valore delle norme costituzionali, con la conseguenza che una legge dello Stato o un ordine dell’ Autorità ad esso contrario dovrà ritenersi in contrasto con la Costituzione.
Maggiormente problematico è il diritto che scaturisce dall’appartenenza dello Stato ad Organizzazioni Internazionali sulla base di accordi denominati “Trattati” o “Convenzioni”. In questi casi alla norma contenuta nel Trattato o nella Convenzione deve essere conferita volontaria esecuzione ad opera dello Stato che intende aderirvi attraverso un apposito ordine ( detto “ordine di esecuzione”) espresso con legge ordinaria. Necessario è, quindi, un percorso di “adattamento” della regola pattizia al diritto statale in virtù del rispetto del principio di sovranità nazionale (art. 1 Cost.). Discussa è stata nel tempo la valenza delle fonti giuridiche di adattamento. Non vi è, infatti, come per il diritto internazionale consuetudinario, una norma costituzionale che espressamente le disciplini. Per risolvere i problemi legati al loro coordinamento si tiene conto, allora, della natura dell’organizzazione di riferimento e delle materie su cui il trattato andrà ad incidere. Questi criteri sono stati utilizzati per risolvere le problematiche legate al valore delle fonti normative derivanti dall’appartenenza dello Stato italiano a due particolari ed importantissime organizzazioni internazionali: il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea.
Quanto al Consiglio d’Europa, va subito ricordato che tutti gli Stati che ad esso aderiscono sono divenuti parti contraenti della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Quest’ultima fu solennemente firmata a Roma nel 1950 e si inserisce in un più ampio contesto di iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana ovunque l’individuo si trovi e, dunque, anche nei confronti del proprio Stato di appartenenza. La Convenzione contiene un catalogo di diritti umani assai più dettagliato di quello che normalmente le Costituzioni prevedono. Gli organi statali devono, perciò, astenersi dal compiere atti qualificabili come gross violations e vigilare affinché tali illeciti non siano commessi da propri cittadini o istituzioni. Alla materia della tutela internazionale dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni: la violazione delle norme della CEDU non può farsi valere finché esistono nell’ordinamento dello Stato offensore rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per offrire all’individuo una congrua riparazione[1].
Riguardo alla valenza delle norme della Convenzione, va segnalato che la Corte Costituzionale, già dalle storiche sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha riconosciuto ad esse il rango di “parametro costituzionale interposto” (c.d. norma interposta) ex art. 117 Cost. Con queste sentenze è stato anche chiarito il valore di tutte le norme contenute in trattati e introdotte nell’ordinamento italiano mediante l’ordine di esecuzione. Alla luce delle precisazioni ivi espresse, risulta che esse debbano intendersi subordinate alla Costituzione, ma sovraordinate alle leggi ordinarie (anche successive). Il giudice comune (dello Stato), secondo la Corte Costituzionale, deve attenersi alla normativa internazionale come quella contenuta all’interno della CEDU alla luce dell’interpretazione che ad essa viene data dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (organo giurisdizionale interno al Consiglio d’Europa), ma non può disapplicare la norma interna incompatibile con la CEDU, spettando esclusivamente alla Corte Costituzionale il controllo accentrato su tale incompatibilità (Corte Cost. 311/2009). Il giudice dello Stato membro deve, in altre parole, rimettere alla Corte Costituzionale il controllo sulla compatibilità della legge interna con la normativa convenzionale, sollevando a tal fine questione di legittimità costituzionale dinanzi ad essa (Corte Cost. 113/2011). In sintesi “il nuovo testo dell’art. 117 Cost. se, da una parte, rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza della Corte Costituzionale, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione di leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale” (Corte Cost. 348/2007). Il giudice comune non può, invece, ritenere discrezionalmente che una norma interna contrasti con il diritto internazionale attribuendo ad esso diretta prevalenza sul diritto statale che si applica incondizionatamente nei confini territoriali dello Stato medesimo. Egli, allora, per accertare se vi sia contrasto fra le norme nazionali e le norme della CEDU, deve tenere conto di queste ultime nel significato loro attribuito dalla Corte EDU e, comunque, prima di poter sollevare questione di legittimità costituzionale, deve cercare di interpretare la normativa nazionale in modo conforme alla CEDU qualora detta interpretazione sia possibile perché evidente in base al dato letterale oppure perché vi è già una prassi sufficientemente consolidata nel “diritto vivente”.
La Corte Costituzionale riserva, dunque, a sé la possibilità – oltre che di controllare la rispondenza delle norme CEDU alla Costituzione – anche di valutare il prodotto dell’interpretazione della Corte europea. Il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere, infatti, di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema nazionale dei diritti fondamentali (Corte Cost. 317/2009 e 245/2011). Richiedendo tale “quid plus in termini di tutela”, la Corte Costituzionale si apre, perciò, a un confronto aperto con la giurisprudenza comunitaria e internazionale, confermando la disponibilità a superare lo stesso principio di sovranità della Costituzione politica quando ciò valga ad ampliare il catalogo dei diritti della persona (Corte EDU, Agrati e Corte Cost. 257/2011). Si tratta qui di “controlimiti” ad operatività più ampia rispetto a quelli operativi nei confronti del diritto comunitario, rispetto al quale vengono in rilievo non tutte le norme della Costituzione (come, per l’appunto, avviene in relazione alla CEDU), bensì soltanto i “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” ed i “diritti inviolabili dell’uomo”.
Diversamente dal Consiglio d’Europa, l’Unione Europea trova fondamento nei trattati istitutivi della prima Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951 (CECA) e della Comunità Economica Europea del 1957 (CEE poi denominata CE, Comunità Europea), nei successivi trattati di modifica come l’Atto Unico Europeo del 1987, il Trattato di Maastricht del 1993, il Trattato di Amsterdam del 1999 e il Trattato di Nizza del 2003, nonché nel Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009 che ha determinato l’estinzione della “Comunità Europea” e la costituzione di un unico soggetto denominato “Unione Europea”. Il Trattato si divide in due parti: il Trattato sull’Unione Europea (TUE) contenente i princìpi fondamentali e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) relativo alle fondamentali procedure e politiche comunitarie. Le fonti del diritto comunitario sono, perciò, costituite, sul piano “primario”, dai Trattati, dai principi generali del diritto dell’UE, dai Protocolli e dagli Allegati (come il Protocollo addizionale al Trattato di Maastricht contenente l’obbligo per gli Stati membri di rispettare il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e PIL e del 60% nel rapporto tra debito complesso e PIL[2]), dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6 par. 1 TFUE). Nell’ambito del diritto comunitario “derivato” si collocano, invece, regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri, ai sensi dell’art. 288 TFUE (in conformità alle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona). Al di là di pareri e raccomandazioni, atti non vincolanti, i regolamenti hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. Le decisioni, invece, non hanno portata generale, ma, come i regolamenti, sono obbligatorie in tutti i loro elementi. Le direttive, infine, si differenziano dai regolamenti in quanto vincolano lo Stato membro destinatario in ordine al risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Esse, pertanto, non sono di regola dotate di immediata applicazione nel diritto interno, richiedendo la mediazione della legge statale di attuazione. È opportuno segnalare, in ogni caso, che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha elaborato una categoria di direttive, dette self executing, che, in quanto contenenti “precetti compiuti e non condizionati”, impositivi, cioè, di obblighi di contenuto determinato ai singoli Stati, trovano immediata applicazione. Si è parlato, in merito, di “efficacia verticale” delle stesse che determina la non applicabilità del diritto nazionale con esse confliggente, nei soli rapporti tra cittadini ed organizzazioni pubbliche, mentre in quelli tra privati (“efficacia orizzontale”) per esigenze di certezza del diritto, torna ad essere operativa la regola della necessaria attuazione[3].
Per quanto concerne l’interpretazione del diritto comunitario, essa è riservata, in base a quanto sancito dall’art. 267 TFUE, alla Corte di Giustizia con sede in Lussemburgo che viene investita della questione attraverso un “rinvio c.d. pregiudiziale” da parte del giudice nazionale investito del sindacato giurisdizionale di merito. Attraverso questa procedura, si agevola un dialogo tra le autorità giurisdizionali nazionali e la Corte di Giustizia e si garantisce un adeguamento continuo ed automatico del diritto interno a quello comunitario.
Quanto alla valenza del diritto comunitario e al suo rapporto con le fonti normative interne va precisato che solo in tempi recenti la Corte Costituzionale ha riconosciuto la superiorità del diritto comunitario su quello interno. Inizialmente, infatti, facendo leva sul principio della separazione delle competenze piuttosto che su quello di gerarchia, i due ordinamenti furono considerati autonomi e distinti (c.d. teoria dualista) e si pervenne alla conclusione della prevalenza della norma italiana successiva sulla norma comunitaria precedente, secondo il principio della successione delle leggi nel tempo (Corte Cost. 14/1964, Costa/ENEL). La Corte di Giustizia, invece, ha da sempre sostenuto la concezione c.d. monista, alla stregua della quale l’ordinamento comunitario risulta integrato in quello nazionale, affermando, di conseguenza, il principio della primazia o primauté del diritto comunitario sul diritto nazionale. In virtù di tale integrazione il giudice nazionale deve dare compiuta attuazione al diritto dell’U.E., disapplicando le norme interne, sia anteriori che successive a quelle comunitarie, con le stesse confliggenti (CGCE, 9 marzo 1978, Simmenthal, C-106/77). L’adesione da parte della Corte Costituzionale alla tesi della disapplicazione, fondata sul chiaro presupposto della superiorità gerarchica del diritto comunitario, si è finalmente avuta con uno storico intervento (Corte Cost. 170/1984, Granital): la norma nazionale (anche posteriore) confliggente con quella comunitaria risulta inapplicabile al rapporto controverso e, di conseguenza, la norma comunitaria, munita di effetto diretto, va applicata dal giudice immediatamente in luogo di quella interna. La tesi della disapplicazione trovava fondamento, nell’interpretazione del giudice costituzionale nell’art. 11 Cost. nella parte in cui la disposizione prevede che l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri ordinamenti, a limitare la propria sovranità a favore di un organismo in grado di assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni (come appunto l’Unione Europea che attraverso la limitazione della sovranità degli Stati membri in materie particolarmente delicate come originariamente quelle legate alla produzione del carbone e dell’acciaio, origine dei due conflitti bellici, mira a garantire la pace all’interno dei suoi confini).
La necessità del sindacato di legittimità costituzionale, tuttavia, persiste in alcune ipotesi: si tratta dei casi in cui la normativa comunitaria non risulti direttamente applicabile nell’ordinamento interno perché richiedente l’adozione da parte dello Stato membro di una serie di misure di adattamento ovvero in cui la norma comunitaria si ponga in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana. In quest’ultimo caso la Corte potrebbe essere adita per verificare il vizio di legittimità della legge di ratifica ed esecuzione del Trattato, con riferimento alla parte in cui consente l’ingresso nel nostro ordinamento della normativa comunitaria (Corte Cost. 232/1989, Fragd). La stessa Corte Costituzionale, inoltre, pur definendo le norme comunitarie quali cogenti e sovraordinate alle leggi dell’ordinamento nazionale, si attribuisce il compito di vagliare e dichiarare l’illegittimità di norma interna confliggente con una norma comunitaria non direttamente applicabile, ma soltanto dopo aver verificato l’impossibilità di disapplicarla o di adottare un’interpretazione conforme (Corte Cost. 28/2010; più recentemente, cfr. Corte Cost. 75/2012).
A seguito della Riforma del titolo V della parte II della Costituzione operata dalla l. cost. 3/2001, la copertura costituzionale al fenomeno dell’integrazione comunitaria è fornita non più, o non tanto, dall’art. 11 Cost., ma dall’art. 117 Cost., il cui primo comma, nel delimitare l’esercizio della potestà legislativa statale e regionale, fa adesso espresso riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Come in precedenza anticipato, tuttavia, il primato del diritto comunitario incontra un limite nel solo rispetto dei cd. “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Ne consegue che, di norma, alle norme comunitarie dovrà essere riconosciuto un valore superiore ai precetti costituzionali ad eccezione di quelli considerati fondamentali in quanto imprescindibili per la sopravvivenza dell’assetto democratico della Repubblica (teoria dei controlimiti).
Con il nuovo Trattato di Lisbona, l’Unione Europea (art. 6 TUE) ha ridefinito il sistema di protezione dei diritti, riconoscendo i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000 (la Carta di Nizza). L’Unione, inoltre, sempre in forza dell’art. 6 TUE, si impegna ad aderire alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, con la precisazione, però, che l’adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei Trattati. Si stabilisce, infine, che i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Per la parte di competenza del Consiglio d’Europa, l’adesione dell’UE alla CEDU è resa possibile dall’entrata in vigore del Protocollo XIV (1 giugno 2010) che ha emendato l’art. 59 CEDU. Da questi riferimenti risulta essere affermato un chiaro obbligo di adesione che è imposto agli Stati membri delle due organizzazioni, nonostante non siano apparentemente previste sanzioni o limiti temporali alla sua attuazione.
Il Consiglio di Stato, supremo organo di giustizia amministrativa, ha fornito, allora, una lettura innovativa del vincolo derivante dalle norme della CEDU, in aperto contrasto rispetto all’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale nelle menzionate sentenze 348/2007 e 349/2007, affermando l’elevazione della CEDU al rango attribuito all’ordinamento dell’Unione Europea nel nostro sistema costituzionale, a seguito delle innovazioni apportate ai Trattati comunitari dall’accordo di Lisbona (Cons. di St. 1220/2010 e T.A.R. Lazio 11984/2010). Si giunge, quindi, ad affermare la possibile disapplicazione, da parte del giudice nazionale, delle norme nazionali, statali o regionali, che evidenziano un contrasto con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione. I giudici amministrativi hanno, in sostanza, anticipatamente “comunitarizzato” la CEDU, come se l’adesione dell’Unione europea a detta Convenzione fosse già avvenuta. Il diritto CEDU è stato equiparato, nel regime formale, a quello dell’UE e cioè a norme che hanno prioritaria applicazione rispetto a quelle nazionali incompatibili, nei termini di quanto ricordato.
Una delle più recenti sentenze della Consulta (Corte Cost. 80/2011) ha, invece, ribadito quanto statuito con le sentenze del 2007, escludendo che la normativa CEDU sia direttamente applicabile dai giudici comuni e nega che le innovazioni recate dal Trattato di Lisbona abbiano comportato una diversa collocazione della CEDU nel sistema delle fonti. A tali conclusioni la Corte giunge muovendo dalla premessa che l’art. 11 della Costituzione è applicabile solo all’ordinamento dell’Unione e non anche a quello della CEDU. In particolare, si spiega che l’art. 11 Cost. non sarebbe direttamente riferibile alla CEDU neppure facendo leva sull’art. 6 par. 3 TUE, che qualifica i diritti fondamentali della CEDU come principi generali del diritto dell’Unione. Tale disposizione, infatti, si limita a confermare una forma di protezione tale per cui i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri vengono in gioco non in sé e per sé, ma soltanto in quanto principi generali del diritto dell’Unione, con riferimento alle sole fattispecie in cui venga in rilievo l’interpretazione o l’applicazione di tale diritto. Del resto, l’art. 6 par.1 co. 2 TUE chiarisce che le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei Trattati e che tali disposizioni trovano applicazione, pertanto, alle sole fattispecie già disciplinate dal diritto dell’Unione. Sempre secondo la Corte italiana, infine, non potrebbe trarsi alcun argomento in contrario dall’adesione della UE alla CEDU, prevista dall’art. 6 par. 2, TUE, per l’ovvia ragione che tale adesione non si è ancora perfezionata. Su queste basi interpretative, dunque, si è risolta in Italia in senso negativo la questione della diretta applicabilità della CEDU da parte del giudice interno nelle controversie sottoposte alla sua giurisdizione[4].
Il quadro normativo e giurisprudenziale così come presentato espone la tutela sovranazionale dei diritti umani ad un grave vulnus nella misura in cui il diritto dell’Unione Europea è dotato di diretta applicazione e di strumenti come il rinvio pregiudiziale tramite cui è ben possibile investire immediatamente la Corte di Giustizia avente sede a Lussemburgo di una questione legata alla sua corretta applicazione, a differenza della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la cui attuazione dipende, come dimostrato, soprattutto dalla Corte Costituzionale a seguito del giudizio di costituzionalità in relazione all’art. 117 Cost.
Qualora, invece, gli Stati membri portino a compimento la procedura descritta dall’art. 6 TUE, il dialogo tra le Corti giurisdizionali sarebbe sicuramente favorito e sarebbe anche ipotizzabile una disapplicazione immediata della normativa interna in contrasto con i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU da considerare solo in quel momento parte integrante del diritto primario dell’Unione Europea. Il principale argomento a favore dell’adesione riguarda, perciò, il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali, anche perché gli atti di diritto derivato delle istituzioni comunitarie verrebbero direttamente scrutinati dalla Corte EDU senza la necessità di misure nazionali di attuazione[5]. L’Unione, dal canto suo, potrà interagire in maniera sempre più diretta con la Corte EDU e con il Consiglio d’Europa difendendo in prima persona le norme del diritto comunitario eventualmente “messe in discussione” dalla Corte EDU perché ritenute in contrasto con i diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione. Sarebbe, inoltre, ammissibile anche un rinvio pregiudiziale in suo favore analogamente a quanto già previsto dall’art. 267 TFUE ove si evidenzi un conflitto tra ordinamenti su questioni che coinvolgono diritti fondamentali della persona e la dignità umana: alla stessa Unione potrà riconoscersi un volto costituzionale che sembra ad oggi obiettivamente carente.
Sotto altra prospettiva, l’attuazione del progetto potrà promuovere un’evoluzione dello stesso concetto di Unione Europea in senso federale e, dunque, più vicino a quel modello di “Stati Uniti d’Europa” maturato nel XIX secolo e fondato sull’idea di Europa come vero e proprio Stato sovranazionale dotato di una sua propria anche se limitata sovranità.
Al fine di preparare uno strumento giuridico richiesto per l’adesione, il Comitato dei Ministri ha presentato una prima bozza di Accordo di Adesione, una bozza di regola di procedura e una bozza di rapporto esplicativo, documenti sui quali, tuttavia, non si era consolidato un ampio consenso. La bozza di Accordo (47+1(2013)008), comprensiva di 12 articoli, riguardava sia gli aspetti sostanziali della futura adesione dell’UE alla CEDU sia gli aspetti di carattere più tecnico-amministrativo. Essa, in particolare, prevedeva l’adesione dell’UE non solamente alla CEDU, ma anche al I e al VI Protocollo Opzionale, con la possibilità in futuro di aderire anche ad altri protocolli; l’istituzione di una procedura interna che permetta alla Corte di Lussemburgo di esprimersi (con procedura accelerata) su questioni di cui essa non ha avuto conoscenza prima che queste siano oggetto di una pronuncia da parte della CEDU; il meccanismo del cosiddetto “secondo convenuto” (co-respondent), per ovviare al rischio che la Corte di Strasburgo entri nel merito della ripartizione di competenze tra Unione Europea e Stati membri; il contributo dell’UE agli organi della CEDU, tra cui la partecipazione alle sessioni di voto dell’Assemblea parlamentare del Comitato Europeo di una delegazione del Parlamento europeo (18 membri) nell’ambito della procedura di elezione del giudice di espressione dell’UE e la partecipazione dell’UE alle attività del Comitato dei Ministri; il contributo dell’UE ai costi di funzionamento della Corte.
La Corte di Giustizia Europea nella celebre opinione C/2-13[6] ha espresso una valutazione negativa sul progetto in esame a causa dell’ influenza, a suo dire “eccessiva” che la Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo avrebbe sull’ordinamento dell’UE. In particolare, secondo i giudici comunitari, il completamento del processo di adesione esporrebbe le norme dell’ordinamento dell’UE ad una sorta di “sindacato esterno”, che si porrebbe, però, in contrasto con l’art. 344 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Vi sarebbe, inoltre, un implicito ampliamento delle competenze dell’Unione in materie non ad essa espressamente riservate dai Trattati istitutivi in base al principio di competenza ex. art. 5 TUE. Su queste nuove competenze non potrebbe essere assicurato il primato del diritto dell’Unione Europea secondo il criterio del “più alto livello di tutela possibile” assicurato dal diritto comunitario. La Corte di Giustizia ha, quindi, affermato che in nessun caso gli Stati membri possono applicare uno standard di tutela dei diritti fondamentali diverso da quello assicurato dall’Unione Europea alla luce delle limitazioni imposte dall’art. 53 della Carta di Nizza e confermate dalla copiosa giurisprudenza formatasi sul tema.
Il parere della CGUE evidenzia una chiara impostazione: se per uno Stato è possibile attribuire ad un organo giudiziario come la CEDU la competenza a statuire in termini vincolanti circa l’inosservanza di una norma, per l’UE ciò non è apparentemente ammissibile non potendo l’Unione Europea considerarsi alla stregua di uno Stato. Il parere, in sostanza, sembra contrapporre alla volontà degli Stati e delle istituzioni “politiche” dell’Unione le esigenze “supercostituzionali” dell’UE (le sue “caratteristiche specifiche”, su cui v. diffusamente i §§ 156-177 del parere), di cui supremo e unico interprete non può che essere la CGUE. Al cuore della struttura costituzionale dell’UE stanno i diritti fondamentali enunciati nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, la cui tutela però – abbastanza paradossalmente – non può giovarsi della garanzia esterna data da un giudice internazionale (in questo caso la CEDU), ma deve appoggiarsi unicamente su procedure interne[7].
Le obiezioni mosse dalla Corte di Giustizia Europea non sembrano, tuttavia, insuperabili. Sul piano delle competenze, vi è forte convergenza tra Unione Europea e Consiglio d’Europa su alcuni aspetti della tutela dei diritti fondamentali. In questo senso, la stessa Unione Europea ha sempre incoraggiato i suoi membri ad aderire alla Convenzione EDU e a rispettarne le pronunce. A livello pratico, poi, vige il principio della cosiddetta “doppia fedeltà”, secondo il quale un atto conforme agli obblighi derivanti dal diritto comunitario, si considera allo stesso modo conforme rispetto a quanto previsto dalla Convenzione EDU[8].
In buona sostanza, i problemi di ordine gerarchico sarebbero risolti alla luce del forte legame che si evince soprattutto dalla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia sugli aspetti sostanziali della tutela dei diritti fondamentali. Le difficoltà di carattere strettamente procedurale potrebbero risolversi, invece, con una modifica dell’art. 344 TFUE diretta a consentire espressamente il sindacato esterno da parte della CEDU sulle norme e sugli atti dell’Unione Europea salvaguardando le prerogative della Corte di Giustizia Europea. Diversamente argomentando, anche senza procedere a revisione dei Trattati, buona parte delle critiche annoverate dalla Corte di Giustizia sarebbero comunque superabili attraverso un mero rimaneggiamento del progetto di accordo: la suddetta Corte dovrebbe accettare di sacrificare le sue più rigide posizioni, permettendo così ai negoziatori di addivenire ad una soluzione di compromesso[9]. Il progetto di adesione potrebbe essere, infatti, rilanciato ove le indicazioni formulate dalla Corte di Giustizia Europea venissero rispettate dai singoli Stati aderenti, ma per fare ciò è necessario rafforzare il dialogo tra gli Stati Membri e la Corte medesima per concordare le migliori soluzioni. Il problema legato all’attuazione dell’art. 6 TUE, in questa prospettiva, sarebbe di natura soltanto politica ed è su questo campo che si può ancora trovare una strada attraverso la riapertura dei negoziati tra i soggetti coinvolti in questa sorta di trattativa.
Deve escludersi, ad ogni modo, qualsiasi discrezionalità in ordine all’attuazione di quanto previsto dall’art. 6 TUE nella misura in cui, come la più autorevole dottrina osserva, la norma sembra aver imposto in tal senso un’obbligazione sia di mezzi che di risultati[10] censurabile mediate ricorso in carenza nei confronti delle istituzioni o di inadempimento nei confronti degli Sati membri[11]. Gli Stati membri hanno, dunque, la responsabilità giuridica e politica di proseguire il loro cammino nell’attuazione di questo ambizioso progetto che, come dimostrato, al di là dei vantaggi di ordine pratico, ha una chiara valenza sul piano simbolico e culturale perché consente di rafforzare l’immagine di un’Europa democratica, concreta e attiva sul piano della tutela dei diritti fondamentali della persona umana.
[1] CONFORTI B. Diritto Internazionale IX Edizione, 2013, Napoli, pp. 210-214.
[2] CAPUNZO R. Argomenti di Diritto Pubblico dell’Economia, Seconda Edizione, 2010, Milano, p. 120.
[3] STROZZI G.- MASTROIANNI R., Diritto dell’ Unione Europea, Parte Istituzionale, Sesta Edizione, Torino, 2013 pp. 199-202.
[4] GALLI R. Nuovo Corso di Diritto Amministrativo, Sesta Edizione, Tomo Primo, 2016, Vicenza, pp. 40-46.
[5] Commissione Europea, Memorandum relativo all’adesione delle Comunità Europee alla Convenzione sulla Salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, COM (79) 210, su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT.
[6] Parere della Corte di Giustizia dell’Unione europea 2/13, 18 dicembre 2014, su http://curia.europa.eu/juris.
[7] DE STEFANI P. , Luxemburgo locuto, causa finita? La Corte di giustizia dell’UE dice no al progetto di accordo per l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti umani. 2015, su www.unipd-centrodirittiumani.it.
[8] TUMMIELLO F., L’adesione dell’Unione Europea al sistema della CEDU, quali prospettive?, 2018, www.iusinitinere.it.
[9] MASIERO A. F., L’adesione dell’Unione Europea alla CEDU. Profili penali , 2018, su www.penalecontemporaneo.it.
[10] ANRÒ I., L’adesione dell’Unione europea alla CEDU. L’evoluzione dei sistemi di tutela dei diritti fondamentali in Europa, Milano, 2015, p. 386.
[11] JACQUE J., The accession of the European Union to the European Convention on Human Rights and Fundamental Freedoms, in Common Market Law Review, 2011, pp. 995 e ss.
PEERS, The CJUE and the EU’s accession to the ECHR: a clear and present danger to human rights protection, 2014, in www.eulawanalysis.blogspot.it .
GIANELLI A., L’adesione dell’UE alla CEDU secondo il Trattato di Lisbona, in Diritto dell’Unione europea, 2009, p. 685. L’autore, in particolare, indica come istituzione responsabile per l’inadempimento il Consiglio in quanto soggetto “portavoce” degli Stati membri.
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Alessandro Baker
Laureato presso l'Università di Napoli Federico II con 110/110 e lode, praticante avvocato ed ex-tirocinante di giustizia ex. art. 73 D.L. 69/2013 nonché collaboratore presso la cattedra di Diritto Pubblico dell'Economia dell' Università Federico II.
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