L’adunanza plenaria sulla rinuncia abdicativa: crolla l’ultimo baluardo contro l’espropriazioni indirette
Sommario: 1. La ricostruzione dell’istituto – 2. Osservazioni critiche dell’Ad. Plen. – 3. Sulle cd. espropriazioni indirette – 4. La decisione dell’adunanza plenaria – 5. Conclusioni
Con sentenza n.2 del 20 gennaio 2020, l’Adunanza Plenaria pone fine all’annoso dibattito circa la configurabilità della rinuncia abdicativa del diritto di proprietà in favore della P.A. Il supremo consesso amministrativo, infatti, esclude la possibilità di qualificare la domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno per equivalente quale presupposto per il trasferimento del diritto di proprietà in capo alla autorità pubblica.
L’istituto della rinuncia abdicativa è assurto per molto tempo a ordinario rimedio contro le occupazioni poste in essere dalla p.a., in violazione delle norme che regolano il procedimento di espropriazione. Attraverso di essa si è cercato di contemperare l’interesse all’acquisizione dei fondi per la costruzione di opere pubbliche o di pubblica utilità con quello privato, assicurandogli l’integrale risarcimento dei danni in luogo del mero indennizzo.
1. La ricostruzione dell’istituto
Sin dai primi anni ’80, infatti, la giurisprudenza ha fatto ricorso a siffatto istituto a fronte dell’occupazione illegittima di fondi, perché protratta oltre il termine di efficacia del relativo provvedimento senza che fosse intervenuto un valido decreto di esproprio; successivamente è stato esteso alle ipotesi di assenza, ab origine o per successivo annullamento, della dichiarazione di pubblica utilità. Si riteneva, infatti, che la domanda volta al risarcimento del danno per equivalente determinasse la perdita della proprietà in capo al privato. La stessa sostanziandosi in un’abdicazione alla tutela reale, si qualificava come comportamento incompatibile con la pretesa alla restituzione del bene e a un diritto sullo stesso. L’azione fondava, pertanto, una rinuncia meramente abdicativa, negozio unilaterale, non recettizio, inidoneo ad interferire nella sfera giuridica altrui. In ragione della prerogativa della p.a. di scegliere se o meno acquistare il diritto, infatti, il trasferimento non era automatico. Lo stesso si effettuava in virtù dell’inerzia serbata dalla autorità occupante, dal quale si desumeva la volontà acquisitiva. Il congegno era complesso ma altresì funzionale ad assicurare l’esigenza del privato quando per irreversibile trasformazione del suolo non avesse avuto più interesse a conseguire il bene, e quella pubblica, alla stabile acquisizione del fondo senza incorrere in un illecito.
2. Osservazioni critiche dell’Ad. Plen.
Per vero, proprio la complessità dell’istituto, che consta di un duplice atto e fa ricorso alla teoria degli atti impliciti, ha fondato molteplici dubbi in ordine all’effettivo funzionamento della rinunzia abdicativa. analoghe perplessità emergono in seno alla sentenza dell’adunanza plenaria chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di siffatto istituto.
Invero, sotto il primo profilo si è rimarcata l’incompatibilità del trasferimento del diritto di proprietà in capo alla p.a. con l’art 827 c.c. La norma stabilisce che i beni che non sono di proprietà di alcuno, cd. vacanti, spettano al patrimonio dello Stato. Al trasferimento del diritto di proprietà in capo alla p.a. a seguito di rinuncia abdicativa, non traslativa, del privato osta pertanto l’acquisto automatico del bene al patrimonio dello stato, come previsto dalla summenzionata disposizione civilistica.
Inoltre si rimarca l’assenza dei presupposti per la configurazione di un atto implicito, da cui poter desumere una volontà dismissiva o acquisitiva. Infatti, la domanda per il risarcimento del danno, sebbene per equivalente, non è univocamente significativa di una rinuncia al bene, soprattutto se si considera che è una strategia difensiva tendenzialmente suggerita dall’avvocato- perciò, peraltro, incompatibile con il carattere personalissimo di un atto abdicativo del diritto-. Analoga considerazione può farsi in riferimento al silenzio serbato dalla p.a. La rinuncia abdicativa, infatti, oltre a fondare un vero e proprio onere per la p.a. di pronunciarsi sulla restituzione del bene per escludere l’acquisto della proprietà, prescinde completamente dalla sussistenza di un atto da cui poter desumere inequivocabilmente una sua volontà acquisitiva. Secondo consolidata giurisprudenza per potersi parlare di provvedimento implicito è necessario, oltre alla competenza dell’autorità procedente, la sussistenza di una manifestazione espressa di volontà e di un nesso di consequenzialità tra i provvedimenti, tale per cui dell’atto a monte deve ritenersi conseguenza necessaria la volontà contenuta nell’atto implicito. Solo a queste condizioni, infatti, è possibile, derogare all’obbligo di provvedimento espresso o di motivazione cui è tenuta la p.a. in ogni procedimento amministrativo.
L’esigenza di univocità risulta ancor più evidente se si tiene conto che a rilevare sono atti traslativi o costitutivi di diritti reali, per i quali la legge prevede un rigido schema formale. Lo stesso si spiega in ragione della necessità di sollecitare le parti a una ponderata valutazione dei costi dell’operazione, economicamente rilevante, e di assicurare la certezza dei traffici. La forma, infatti, in quanto prodromica alla trascrizione, assurge a strumento fondamentale per la risoluzione di conflitti tra più aventi causa. Come osservato da risalente dottrina, infatti, il carattere implicito e informale del trasferimento mediante domanda risarcitoria e silenzio serbato dalla p.a. sarebbe incompatibile con la generale disciplina dettata in materia di trasferimento di diritti reali.
3. Sulle cd. espropriazioni indirette
Ai fini della decisione, pregnanti, tuttavia, sono le argomentazioni fondate sulla illegittimità di qualsiasi forma, anche larvata, di espropriazione indiretta. Con siffatta espressione si intende l’appropriazione di fondi da parte dalla p.a. non sorrette da un legittimo procedimento espropriativo. Tendenzialmente con essa si è fatto riferimento alla cd. occupazione appropriativa – fatta dall’autorità espropriante, in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, valida ma divenuta inefficace, che , a seguito della irreversibile trasformazione del suolo, fonda l’acquisto della proprietà in capo alla mano pubblica-. La nozione è stata successivamente estesa a tutte quelle forme di acquisizione di suoli privati ad opera della pubblica amministrazione non sorrette dalle garanzie previste nella Costituzione e in fonti sovranazionali. Si fa riferimento, specificamente, alla riserva di legge nella individuazione delle ragioni di interesse generale, del soggetto autorizzato e dei procedimenti necessari per l’espropriazione, corollario del generale principio di legalità. Così intesa la espropriazione indiretta, elaborata in via pretoria per consentire l’acquisto di beni destinati all’interesse generale, non poteva non avere la censura della corte EDU.
Presupposto il carattere inviolabile del diritto di proprietà, da cui si “può essere privato se non per causa di pubblica utilità” ( art 1 protocollo addizionale) e fermo restando l’autonomia degli stati in ordine alla disciplina della espropriazione, la Corte, precisato che la scelta di sacrificare il diritto individuale di proprietà debba essere ragionevole e proporzionata, ha richiesto che la stessa dovesse attualizzarsi attraverso procedimenti sufficientemente chiari ed accessibili, che consentissero di prevedere le sorti del proprio bene.
In ragione delle plurime condanne rivolte allo stato italiano è stato previsto, ex art. 42 bis TU espropriazione, un procedimento semplificato che consente, a seguito dell’utilizzazione, sine titulo, di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, di acquisirlo quando attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico lo richiedano. Le caratteristiche dell’istituto hanno consentito di superare il vaglio della corte costituzionale. A tal fine, rileva in primis l’ efficacia non retroattiva del provvedimento – idonea ad escludere qualsiasi funzione sanante di un illecito che rimane tale-; il ristoro integrale del danno patito in pendenza dell’occupazione e a seguito dell’espropriazione- comprensiva anche del danno non patrimoniale e del lucro cessante- ; infine, la valutazione di rinnovate ed attuali esigenze pubbliche all’acquisizione del bene- in sostituzione della dichiarazione di pubblica utilità, guarentigia e fondamento del sacrificio del privato-.
Analoghi requisiti invece, a parere del Consiglio di Stato, non appaiono soddisfatti dalla cd. rinuncia abdicativa. La stessa difetta di base legale e prescinde da qualsiasi ponderazione degli interessi coinvolti o di alternative percorribili, essendo rimessa alla esclusiva iniziativa del privato, “come se fosse titolare di una sorta di diritto potestativo a imporre il trasferimento della proprietà.”
4. La decisione dell’adunanza plenaria
Distaccandosi dall’orientamento espresso nel 2016 dal medesimo consesso, l’Adunanza Plenaria ritiene che l’art. 42-bis abbia definito in maniera esaustiva la disciplina della fattispecie acquisitiva, con una normativa autosufficiente, peraltro l’unica ritenuta conforme al diritto europeo e alla Costituzione. Una rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, infatti, impone alla p.a. di procedere all’acquisizione del fondo privato in via eccezionale tramite il procedimento semplificato di espropriazione, in luogo di quello ordinario , o attraverso attività negoziali, di diritto privato, anche a natura transattiva.
5. Conclusioni
La decisione si pone in linea con l’orientamento volto a riconoscere il carattere individuale del diritto di proprietà, sollecitato dalla Cedu e dai trattati europei. Naturale è la progressiva abdicazione dalla sua funzione sociale espressamente riconosciuta dalla Costituzione, ex art 42. Sebbene interpretata restrittivamente o quanto meno inidonea a fondare un potere di godimento del bene se non nei limiti dell’interesse generale, la norma fa espressamente salve le limitazioni al diritto di proprietà in quanto funzionali all’interesse pubblico, a cui pertanto è data prevalenza, salvo indennizzo, in caso di esproprio. Sebbene l’art. 1 protocollo addizionale della cedu espressamente preveda la possibilità che il cittadino sia privato della sua proprietà per causa di utilità pubblica, la diversa prospettiva in cui si muovono i due ordinamenti risulta evidente. Emblematiche sono le diverse posizioni espresse dalla corte costituzionale e dalla corte EDU in tema di quantum dell’indennizzo da versare al privato in caso di espropriazione del bene. La prima tende a riconoscere il diritto di un serio ristoro, la seconda l’integrale risarcimento del danno subito. Per quanto pregevole l’intento di assicurare una tutela piena ed effettiva al privato cittadino, sacrificato nelle sue istanze individualistiche, non può non tenersi conto dei riflessi che la qualificazione della proprietà come diritto fondamentale, rispetto alla quale l’interesse pubblico si pone in condizione di pariteticità o addirittura subalternità, potrebbe a livello pratico determinare. Infatti, attese le ripercussioni economiche sul bilancio delle autorità pubbliche a seguito dell’espropriazione – l’indennizzo da corrispondere, infatti, ex art 2 della legge finanziaria del 2008, coincide con il valore venale del bene, comprensivo anche degli interessi compensativi e di una quota a titolo di danno non patrimoniale, nel caso di espropriazione ex art 42bis – e i vincoli di bilancio che sulle stesse autorità impongono i trattati comunitari, è evidente come la valorizzazione della funzione individualistica della proprietà porti con sé il rischio di compromettere la stessa funzione sociale dello Stato.
Sent. n. 2 del gennaio 2020 Ad. Plen.
Sent. n.2 del 09 febbraio 2016 Ad. Plen.
Sent. corte Edu del 29 marzo 2006 Scordino vs Italia
Manuale di diritto privato di F.Gazzoni Napoli, Edizioni scientifiche Italiane, 2015
Manuale di diritto amministrativo, R. Garofoli, 2017
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