L’agente provocatore e i reati contro la Pubblica Amministrazione
L’agente provocatore rappresenta una particolare declinazione dell’agente sotto copertura, la cui disciplina generale è dettata dall’art. 9 l. 146/2006, recentemente novellato ad opera della l. 3/2019 che vi ha inserito alcuni reati contro la pubblica amministrazione.
Benché spesso le due figure vengano citate come sinonimi, a rigore si impone una distinzione, che dà luogo a differenze sul piano pratico. Infatti, l’agente provocatore si identifica più specificamente nel soggetto che, indagando sotto falsa identità, induce altri alla commissione di un delitto o ne compie direttamente uno, allo scopo di assicurare il colpevole alla giustizia.
A mente del citato art. 9, sono agenti sotto copertura gli appartenenti alla forza pubblica (mai privati) che, nel corso di specifiche operazioni di polizia, da soli o avvalendosi di ausiliari o interposte persone, pongono in essere condotte finalizzate ad acquisire elementi di prova, individuare o catturare i responsabili di delitti, controllare gli sviluppi delle attività criminose.
La norma funge da scriminante speciale, giacché individua le condotte tipiche che ufficiali o agenti, in esecuzione di ordini di servizio, possono porre in essere nell’ambito di attività in incognito, senza essere puniti perché mossi dal fine di perseguire il crimine.
Detta scriminante è informata al principio di non contraddizione, per cui non può essere punito un comportamento che l’ordinamento, nello stesso tempo, prevede come lecito o addirittura impone. Condivide la medesima ratio la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere, di cui all’art. 51 c.p., di applicazione residuale rispetto all’art. 9 e spesso invocata per escludere la punibilità dell’agente provocatore.
Analizzando le condotte espressamente elencate nell’art. 9. cit., che si riferiscono a un novero eterogeneo di delitti, si comprende come l’attività di indagine sotto copertura sia concretamente condizionata dal tipo di reato che si intende perseguire.
Pertanto, per i delitti che riguardano gli stupefacenti, specialmente se configuranti reati-contratto, l’agente assumerà più tipicamente le vesti del falsus emptor, ossia del finto acquirente che procede all’acquisto simulato di sostanze droganti o psicotrope. Tale condotta non prevede necessariamente l’uso della provocazione, ben potendo l’agente limitarsi ad acquistare senza istigare alla commissione di reati.
Per i delitti associativi o relativi a prostituzione e pedopornografia, invece, chi opera in incognito si comporterà come infiltrato negli ambienti criminosi, limitandosi a osservare le attività dei sospettati, o concorrendo materialmente in reati ideati da altri, per non svelare la propria vera identità. Ancora, l’art. 9 cit. prevede e scrimina condotte, poste in essere nell’ambito dell’infiltrazione, che si differenziano dalla finta compravendita e dalla provocazione, come ad esempio il caso, di cui al c.2, dell’utilizzo di documenti, identità o indicazioni di copertura, che normalmente integrerebbero reati di falso. Anche in tali ipotesi, dunque, l’attività dell’agente segreto non è caratterizzata dalla provocazione.
Così compendiate le differenze tra i tipi di operazione sotto copertura, la questione principale che suscita l’agente provocatore propriamente detto riguarda la sua non punibilità sulla scorta dei principi generali dell’ordinamento, ancor prima che sulla base della disciplina speciale più volte citata.
Qualora l’agente provocatore ponga in essere una condotta istigatrice, questa non è punibile, ai sensi dell’art. 115 c. 3 c.p., ove l’istigazione venga accolta ma il reato non sia poi commesso. Nella diversa ipotesi in cui il reato sia effettivamente concluso, sembrerebbe integrarsi il concorso morale ex art. 110 c.p.. Ciò nondimeno, al pari della simulazione in ambito civilistico, qui si osserverebbe una divergenza tra volontà apparente e volontà reale. Pertanto, parte della dottrina ha ritenuto non punibile il fatto commesso dal provocatore per mancanza di tipicità, non sussistendo il fatto tipico del reato di volta in volta in esame. Ad esempio, non potrebbe dirsi perfezionato l’acquisto di stupefacente perché manca la volontà di perfezionare proprio quel tipo di contratto.
Tale impostazione si presta alla critica che, in realtà, l’attività degli infiltrati è orientata proprio alla commissione del reato, semmai poi “bloccato” nella fase del tentativo, per impedire la realizzazione di conseguenze ulteriori.
Per altri, il fatto sarebbe invece non punibile per insussistenza del dolo, essendo l’agente mosso da scopi di giustizia. In realtà, detta opinione non considera che questo scopo è solo ulteriore rispetto a quello tipico del reato, con il quale il soggetto agisce. E, anzi, lo scopo ulteriore resta un semplice motivo, valutabile al più come circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62 c.p..
La dottrina prevalente ritiene che le condotte poste in essere dai provocatori siano giustificate in base all’art. 51 c. 1 c.p., ai sensi del quale l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica espressa (quale l’art. 55 c.p.p.), o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità.
In senso critico si è affermato che questa impostazione non chiarisce perché all’intero fatto non si applichi l’art. 119 c. 2 c.p., che estenderebbe la non punibilità anche al provocato. Pregio di tale opinione è, invece, il porre in evidenza l’esigenza di una espressa previsione normativa che legittimi l’attività sotto copertura.
Ed infatti, i presupposti di liceità che le disposizioni di parte speciale individuano sono: il rispetto della legalità, ossia la previa esistenza di una legge o di un ordine legittimo che autorizzi l’attività stessa; il nesso tra l’autorizzazione e la speciale qualifica soggettiva degli agenti, appartenenti alla forza pubblica; il collegamento tra autorizzazione e progetto investigativo; nonché il nesso tra attività in incognito e obiettivo funzionale. Solo in presenza di tutti questi elementi la condotta dell’agente provocatore può essere scriminata.
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha aggiunto che, per essere giustificata, la condotta del provocatore deve limitarsi a un intervento marginale e indiretto, volto prevalentemente ad attività di controllo, osservazione e contenimento dell’altrui azione illecita. Ove sia posta in essere una vera e propria istigazione o comunque la condotta esplichi efficacia determinante nella realizzazione di delitti, sarà punibile ai sensi dell’art. 110 c.p..
Come si è visto, pertanto, il testo dell’art. 9 cit., che costituisce oggi lo statuto dell’attività in incognito, dimostra come il legislatore abbia voluto tenere distinte le due figure di agente sotto copertura e agente provocatore.
La riconducibilità di una condotta nell’una o nell’altra ipotesi rileva sul piano pratico, atteso che si riflette sull’eventuale riconoscimento di responsabilità penale in capo al provocatore e sull’utilizzabilità delle prove raccolte in violazione dei limiti previsti dalla legge per operazioni sotto copertura. Quanto al primo problema, si è già detto che l’agente non è punibile se supera il c.d. “test sostanziale di incitazione”, ossia se si attiene ad attività di controllo, osservazione e contenimento del crimine. Al contrario, andrà sottoposto a sanzione ove istighi il soggetto provocato a commettere un reato, o ponga in essere condotte diverse da quelle elencate nell’art. 9.
Relativamente all’utilizzabilità delle prove, se la condotta dell’agente non si limita a scoprire attività criminosa già in essere, nei confronti un soggetto già sottoposto a indagine, bensì si sostanzia in una provocazione, sussiste violazione dell’art. 6 CEDU (relativo al diritto all’equo processo) e, pertanto, gli elementi di prova appresi non possono essere utilizzati. In particolare, il principio dell’equo processo è violato, secondo la CEDU, quando la polizia giudiziaria avvicina il soggetto prima che nei suoi confronti emergano oggettivi sospetti di coinvolgimento nell’attività criminale ed esercita una vera e propria pressione psicologica idonea a determinare a delinquere il provocato.
Tanto chiarito al fine di un inquadramento generale della disciplina dell’agente provocatore, occorre soffermarsi sulla applicabilità dello stesso nell’ambito dei reati contro la pubblica amministrazione.
Come si anticipava in apertura, l’art. 9 l. 146/2006 è stato di recente modificato dall’art. 1 c. 8 l. n. 3/2019, che ha aggiunto una serie di reati contro la P.A. tra quelli perseguibili con l’utilizzo di operazioni in incognito.
Ebbene, anche dopo la riforma, la disposizione conserva la distinzione tra attività sotto copertura e agente provocatore. Il legislatore, infatti, pur avendo introdotto la novità dell’utilizzo dell’agente sotto copertura nell’ambito di detti reati, ne contiene l’utilizzo nel disvelamento di attività criminose già in atto. Pertanto, risulterebbe punibile il soggetto che, agendo da vero e proprio provocatore, inserisca la sua condotta nel concatenarsi causale dell’evento delittuoso.
Di conseguenza, per quanto riguarda le ipotesi corruttive, la dazione o promessa di beni o altra utilità risulta scriminata nella misura in cui si riferisce all’”esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri”, ovvero sia sollecitata o richiesta da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Da tale specificazione normativa si comprende come l’agente sia, in realtà, un mero provocato e non un provocatore. Lo stesso può dirsi in relazione al traffico di influenze illecite.
Con riferimento alla concussione, si deve osservare che anche in questo caso (e a maggior ragione, per la natura del reato) l’agente sia in realtà vittima della violenza o della minaccia proveniente dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Perciò non si configurerebbe, in tal caso, una vera e propria attività di provocazione, ma semplicemente una generica attività sotto copertura.
Inoltre il legislatore, nell’introdurre l’induzione indebita a dare o promettere, non cita il c. 2 dell’art. 319 c.p., che sanziona la condotta del privato. In caso contrario, infatti, l’agente sotto copertura dovrebbe abusare della sua qualità o dei suoi poteri per indurre taluno a dare o promettere: ma ciò implicherebbe una coazione psicologica e, dunque, una provocazione che dà causa a un reato e che, in quanto tale, va sanzionata.
Infine, la riforma del ddl Bonafede ha inserito nell’art. 9 il traffico illecito di rifiuti, la turbata libertà degli incanti e la turbata libertà di procedimento di scelta del contraente. Con particolare riferimento a queste ultimi due delitti, si deve rilevare come in essi l’agente sotto copertura non può essere soggetto attivo, poiché la struttura dell’illecito presuppone la realizzazione di condotte che inducono il soggetto pubblico cui sono rivolte a commettere reati, mediante, ad esempio, doni o promesse. In tal caso l’attività dell’agente in incognito si sostanzierebbe in una istigazione e, pertanto, dovrebbe essere sanzionata.
Un’altra questione che si è sollevata in merito all’inserimento dei reati in esame nel novero dei delitti elencati dall’art. 9 riguarda la presunta indeterminatezza dell’espressione “attività prodromiche e strumentali” per i reati contro la P.A. (riprendendo un’espressione già presente nell’art. 97 D.P.R. 309/1990, poi confluita nell’art. 9 in relazione ai reati in materia di stupefacenti). Si è osservato che tale espressione aprirebbe la via a uno sconfinamento delle operazioni sotto copertura, permettendo la giustificazione anche di condotte puramente provocatrici.
Al contrario, può opinarsi che l’espressione utilizzata dal legislatore sia stata legittimata dal fatto che le attività investigative non possono essere tassativamente ricomprese in un elenco rigidamente tipizzato e previsto ex ante. E, in ogni caso, non vi è alcun pericolo di sconfinamento nella provocazione ove si osservi che devono comunque sussistere i requisiti di stretta strumentalità tra le attività prodromiche e quelle strettamente tipizzate.
Se le attività tipizzate sono funzionali ad acquisire elementi di prova rispetto ad attività criminose già in atto, anche quelle prodromiche o strumentali saranno finalisticamente orientate al compimento di tali attività, e risulteranno scriminate solo entro tali limiti.
Sarà poi il giudice a dover valutare, caso per caso, se le singole attività strumentali siano sfociate in provocazioni punibili. Ne discende che se la condotta oggetto di contestazione rientra tra quelle espressamente previste, è scriminata ipso iure; se, invece, è atipica, occorrerà verificare se può essere ricondotta nel novero delle attività prodromiche o strumentali. E ancora, se l’attività concretamente posta in essere si risolverà nell’incitamento o induzione alla commissione di un reato da parte dell’indagato, si dovrà concludere per la punizione del provocatore e per l’inutilizzabilità della prova acquisita, posto che all’agente non è consentito commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili e da quelle strettamente ad esse connesse.
In conclusione, tenendo a mente i principi enunciati in relazione all’agente provocatore, nonché quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità e CEDU, si deve ritenere che questa tecnica investigativa, seppur non astrattamente inconcepibile in relazione ai reati citati, posto che la disciplina internazionale ne prevede espressamente l’utilizzo, non possa trovare cittadinanza nel nostro ordinamento. Ciò non solo perché in Italia l’utilizzo dell’attività in parola è stato calibrato su reati intimamente molto diversi e successivamente adattato ai reati contro la PA, ma anche perché si rischierebbe di utilizzare lo strumento penale con una logica preventiva di polizia. Da ciò conseguirebbero il rischio di creare artificialmente un delitto che altrimenti non sarebbe stato commesso e, ancor prima, il pericolo di violare il fondamentale principio di materialità, per cui cogitationis poenam nemo patitur.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Avv. Ilaria Romano
Avvocato del Foro di Lecce. Specializzata con menzione in diritto penale. Docente a contratto di Diritto Processuale Penale presso la SSPL "V. Aymone" di Lecce.
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