L’aggravante dell’esposizione dei beni alla pubblica fede nell’ipotesi di furto al supermercato

L’aggravante dell’esposizione dei beni alla pubblica fede nell’ipotesi di furto al supermercato

L’art. 624 c.p. punisce la condotta di chi “s’impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri”; la pena è aumentata qualora ricorrano una o più circostanze aggravanti ad effetto speciale tra quelle previste dall’art. 625, comma 1 c.p.

In particolare, l’art. 625, comma 1 n. 7) c.p. sanziona con maggiore severità il furto avente ad oggetto “cose esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede”.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, agli effetti della legge penale, la “pubblica fede” deve essere intesa come “il senso di affidamento verso la proprietà altrui nel quale confida colui che debba lasciare un bene incustodito[1].

La ratio di tale aggravante va pertanto individuata nell’intenzione del legislatore di assicurare una maggiore tutela alle cose mobili che vengono lasciate prive di una custodia continua e diretta da parte del proprietario e che, per tale ragione, possono essere più facilmente sottratte.

L’applicazione dell’art. 625 n. 7) c.p. è discussa soprattutto nell’ipotesi di furto di merce esposta sui banchi di vendita di un supermercato.

Sul punto, la Corte di Cassazione è sostanzialmente concorde nel ritenere necessaria, ai fini dell’esclusione dell’aggravante, la presenza di una custodia continua e diretta sul bene, non essendo sufficiente a tal fine la vigilanza praticata dagli addetti, trattandosi di un’attività generica e svolta in modo occasionale[2].

Tuttavia, non è sempre facile stabilire quando la presenza di un sistema di sorveglianza possa essere considerata idonea ad escludere l’esposizione dei beni alla pubblica fede.

Tale problema si pone, ad esempio, in caso di sottrazione di merce dotata della c.d. placca antitaccheggio, questione sulla quale si sono sviluppati due orientamenti giurisprudenziali nettamente contrastanti.

Secondo l’orientamento tradizionale, la presenza della placca antitaccheggio non è sufficiente ad escludere l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, trattandosi di un dispositivo non idoneo ad assicurare un controllo costante e diretto sul bene[3].

I giudici, infatti, affermano che tale strumento, che consiste nella “mera rilevazione acustica della merce occultata al passaggio alle casse”, non è in grado di assicurare “il continuo controllo del percorso della merce dal banco di esposizione alla cassa e, quindi, quel controllo a distanza necessario per escludere l’esposizione della merce alla pubblica fede[4].

A sostegno di tale tesi, la Suprema Corte evidenzia che “in caso di strappo della placca o di indebita disattivazione, in qualsiasi modo, del suo funzionamento, la res può essere tranquillamente portata fuori dall’esercizio commerciale, sfuggendo in tal modo all’impianto di rilevazione[5].

Un’altra parte della giurisprudenza, invece, adotta una soluzione diversa ed afferma che non sussiste l’aggravante di cui all’art. 625 n. 7) c.p. qualora i beni sottratti siano dotati di un apposito dispositivo antitaccheggio.

Fondamentale al riguardo è stata la sentenza n. 38716 del 25.09.2009 della II sezione penale della Corte di Cassazione.

Tale pronuncia parte dal presupposto che “l’esposizione alla pubblica fede determina una condizione delle cose mobili, per la quale le stesse, anziché essere custodite da chi ne è titolare, ricevono protezione essenzialmente dal pactum fiduciae tra i consociati in ordine al rispetto della proprietà e del possesso altrui”; ed è proprio la rottura di tale “vincolo etico – normativo” che giustifica la previsione dell’aggravante, la quale può essere esclusa solo laddove sia esercitata una custodia diretta e continua.

Fatta questa premessa, la Suprema Corte afferma che l’apposizione della placca antitaccheggio, trattandosi di un meccanismo di rilevazione elettronica che permette una costante tracciatura della merce, consente di “segnalare immediatamente – esattamente come avverrebbe in ipotesi di diretto controllo visivo, personalmente effettuato dal proprietario o dagli addetti alla vigilanza – la abusiva esportazione degli oggetti dai banchi di vendita al momento del passaggio del varco, senza che ne sia stato effettuato il relativo pagamento”.

I giudici concludono che “si è, quindi, al di fuori di una ipotesi di generica sorveglianza ambientale, per rientrare appieno nel concetto di controllo costante e diretto, seppure a distanza, tale da escludere l’ipotesi di un abbandono delle cose alla pubblica fede degli avventori e dei clienti”.

Tali considerazioni sono state condivise da due successive pronunce della Corte di Cassazione, le quali hanno specificato che ciò che rileva ai fini dell’esclusione della circostanza aggravante non è il fatto di poter seguire il percorso della merce dal prelievo dagli scaffali fino all’uscita, quanto il fatto di poter individuare il passaggio dei prodotti non pagati consentendo così il tempestivo intervento del personale addetto alla vigilanza; in questo modo, infatti, si integra “quel controllo costante e diretto idoneo ad impedire la ablatio della merce, ossia il suo allontanamento dalla sfera di pieno controllo e dominio da parte dell’esercente”, nonché ad escludere l’esposizione dei beni alla pubblica fede[6].

Nonostante spesso si tratti di furti di oggetti di modesto valore, la questione affrontata dalla Suprema Corte in merito all’art. 625 n. 7) c.p. non è priva di rilevanza, posto che l’applicazione o meno della circostanza aggravante comporta notevoli conseguenze sul piano sanzionatorio.

Innanzitutto, il furto semplice ex art. 624 c.p. prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa da € 154 a € 516 ed è procedibile a querela della persona offesa; il furto aggravato ex art. 625 c.p., invece, è sanzionato con la reclusione da due a sei anni e con la multa da € 927 a € 1.500 ed è procedibile d’ufficio, quindi indipendentemente dalla presenza e dalla validità dell’istanza punitiva.

Inoltre, la sussistenza dell’aggravante incide sulla possibilità per il reo di accedere a quegli istituti – quali la non punibilità per particolare tenuità del fatto e l’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie – introdotti dal legislatore, da un lato, per far fronte all’esigenza di deflazione del carico giudiziario e, dall’altro, per evitare la punizione di fatti che presentano un ridotto disvalore penale.

In particolare, la causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. – introdotto dal D.Lvo n. 28/2015 – richiede la presenza di tre condizioni: 1) la previsione di una pena non superiore nel massimo a cinque anni; 2) la non abitualità del comportamento; 3) la particolare tenuità dell’offesa.

Pertanto, tale disciplina è inapplicabile in caso di qualificazione del fatto come furto aggravato, il cui massimo edittale è pari a sei anni, indipendentemente dall’entità del danno arrecato e dalla personalità del reo[7].

Quanto all’art. 162 ter c.p. – introdotto dalla Legge n. 103/2017 -, la norma prevede la possibilità per il giudice di dichiarare l’estinzione del reato qualora l’imputato, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, abbia riparato interamente il danno cagionato, mediante le restituzioni o il risarcimento e abbia eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose dell’illecito.

Tuttavia, tale disciplina si riferisce esclusivamente ai delitti per i quali è prevista la procedibilità a querela soggetta a remissione; di conseguenza, l’art. 162 ter c.p. non può essere applicato alle ipotesi di furto aggravato in quanto procedibili d’ufficio.

In conclusione, la configurabilità dell’aggravante dell’esposizione dei beni alla pubblica fede comporta notevoli conseguenze in merito al trattamento sanzionatorio dell’imputato; si auspica, pertanto, un imminente intervento delle Sezioni Unite, vista la situazione di incertezza ravvisabile nella giurisprudenza di legittimità.


[1] Cfr. Cass. pen., sez. V, 13.07.2015, n. 8331. In tal senso si è espressa anche Cass. pen., sez. V, 19.11.2013, n. 5226, specificando che “in tema di furto, ai fini della sussistenza dell’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, la necessità dell’esposizione deve essere intesa non in senso assoluto, come impossibilità della custodia da parte del titolare del bene, bensì relativo, cioè in rapporto alle particolari circostanze che possono indurre il soggetto a lasciare le proprie cose incustodite”.
[2] Cfr. Cass. pen., sez. V, 14.11.2014, n. 6416; Cass. Pen., sez. V, 22.01.2010, n. 8019; Cass. Pen., sez. V, 20.09.2006, n. 34009.
[3] Cfr. Cass. Pen., sez. V, 26.11.2015, n. 4036.
[4] In tal senso si sono espresse Cass. Pen., sez. V, 02.10.2013, n. 8390; Cass. Pen., sez. V, 25.02.2011, n. 24862.
[5] Cfr. Cass. pen., sez. V, 30.06.2015, n. 435.
[6] Cfr. Cass. pen., sez. IV, 27.02.2014, n. 11161; Cass. Pen., sez. V, 28.01.2015, n. 20342.
[7] Al riguardo è necessario precisare che l’art. 131 bis c.p. può essere applicato qualora il furto, ancorché aggravato, sia considerato tentato; infatti, la riduzione di pena prevista dall’art. 56 c.p. consente di applicare una sanzione contenuta nei limiti edittali previsti dalla norma.

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