L’amore ai tempi dei social network: la truffa romantica
Il diritto penale contemporaneo possiede la capacità di fotografare non solo la società attuale ma anche i mutamenti che la coinvolgono. Esso si presenta come la branca del diritto pubblico più vicina alla persona, per la ragione che indaga non solo l’individuo ma anche l’interazione che esso ha con il contesto che lo circonda. Il codice penale, recependo l’analisi condotta sui comportamenti umani, si arricchisce, in tal modo, di nuovi reati, consumati (o tentati) da una nuova tipologia di criminali che agiscono con modalità e mezzi inediti. Negli ultimi anni, si assiste alla nascita di un fenomeno nuovo ed unico nel suo genere: la proliferazione dei social network. Essi sono l’emblema di un mondo virtuale che tende a sostituirsi, con una facilità quasi spaventosa, a quello reale. Ridisegnando le relazioni intersoggettive in contesti informatici dominati da algoritmi matematici, offrono quotidianamente la possibilità agli utenti di conoscere persone nuove che potranno in futuro divenire potenziali partner. Chiunque può usufruire di questo servizio e non ha neppure bisogno di uscire di casa per confrontarsi sui temi più svariati ed aumentare la propria rete di conoscenze. La socialità intesa come incontrarsi e parlare lascia, quindi, il posto ad una interazione virtuale che presenta una grande incognita: l’identità dell’interlocutore [1].
Lo scopo di questo articolo è, pertanto, duplice: in primo luogo, si cercherà di analizzare il reato di truffa sentimentale online, anche attraverso l’ausilio della giurisprudenza più recente; in secondo luogo, si procederà ad operare dei chiarimenti sul fenomeno del furto d’identità e sul comportamento del soggetto che lo pone in essere.
Va preliminarmente osservato che la truffa sentimentale ha, come antecedente logico, la presenza continua e costante del truffatore nella vita del truffato. Tale metodo di approccio è denominato love bombing o, anche, offerta istantanea di compagnia. Esso si configura come un processo che mira ad avere il controllo della mente di una persona per un fine totalmente diverso da quello che si mostra in apparenza. Il controllante instaura un rapporto di affetto con il controllato e lo riempie di attenzioni e lusinghe con lo scopo di diventare un punto centrale della sua esistenza. Per poter riuscire nel suo intento, il controllante simula i sentimenti più disparati, passando con estrema facilità dall’amicizia all’amore.
La studiosa americana Margaret Singer sostiene che questo plagio permette la subordinazione completa della sfera emotiva dell’individuo ed è usato anche a livello sociale da comunità gerarchiche o da sette religiose [2]. Nel terzo capitolo di “Cults in our midst”, l’opera più importante della psicologa e scrittrice statunitense, l’autrice spiega come avviene il processo di lavaggio del cervello, sottolineandone la sua estrema pericolosità per chi si trova a subirlo. Il punto di partenza di questa sofisticata tecnica è costituito da una coercizione psicologica che mira a distruggere l’io della persona plagiata: l’individuo, in questo modo, perde il suo sé in favore di quello impostogli. Il fine di questo processo è quello di pervenire ad una totale riforma del pensiero che restituirà un essere umano con una nuova identità. Il love bombing è usato soprattutto per reclutare nuovi adepti all’interno di organizzazioni che perseguono fini tutt’altro che leciti: le reclute si sentono accettate e comprese dai reclutatori ed offrono la loro mente ad individui senza scrupoli che li trasformeranno in automi senza capacità di pensiero o rilessione.
Questo breve inciso ha lo scopo di introdurre il lettore nel complesso mondo delle romantic scam: il comportamento simulato da colui che opera virtualmente per attrarre a sé nuovi partner, fingendo sentimenti che non prova, è lo stesso che ha il reclutatore della setta nei confronti delle nuove leve. Entrambi mirano ad un dominio totale sulla persona designata e non si pongono limiti nell’usare gli strumenti più subdoli e meschini per arrivare all’obiettivo. Questa nuova tipologia di reato sembrerebbe del tutto inedita ma, in realtà, essa è storicamente molto più antica di quanto in realtà si possa credere. La truffa romantica (o romantic scam nell’accezione odierna [3]), prima dell’avvento di internet e dei social networks, si consumava sui giornali, alla sezione annunci per incontri: era tra quelle inserzioni che i truffatori cercavano individui fragili e bisognosi di affetto, prede ideali a cui rivolgere le loro attenzioni per poi manipolarli come se fossero burattini senza capacità di discernimento. La speranza di imbattersi nell’amore della vita e di costruire una solida relazione erano i motivi che portavano le persone a pubblicare sulle ultime pagine dei quotidiani (pratica che ancora oggi esiste) richieste di interazione che, molto spesso, erano intercettate da persone con intenzioni tutt’altro che oneste. Il fenomeno, quindi, non è certamente nuovo.
Nel 2019, la II Sezione Penale della Corte di Cassazione si è occupata di un caso di truffa amorosa e ha avuto così l’opportunità di precisare gli elementi costitutivi del reato [4]. Gli ermellini, dopo aver ricostruito la vicenda, hanno elaborato il principio di diritto per cui costituisce reato simulare amore al solo scopo di ottenere denaro. La condotta di chi si serve dei sentimenti altrui per raggiungere un fine di natura economica configura infatti il reato di truffa, di cui all’articolo 640 del codice penale. Il caso oggetto di questa pronuncia vedeva un uomo interessarsi ad una donna molto più grande di lui con lo scopo di ottenere un immobile e una cospicua somma di denaro. Simulando un affetto che non provava, lo stesso convinceva la vittima a comprare un appartamento in comproprietà – di cui mostrava anche le foto alla compagna – e suggeriva di acquistare quote societarie facendosi anticipare i soldi con la promessa di intestarle anche a lei. La donna, conquistata dalla gentilezza e dal trasporto dell’uomo, finiva per credere alle sue parole e si lasciava conquistare al punto da essere arrendevole su ogni cosa lui le chiedesse.
I giudici, analizzando dettagliatamente la fattispecie delittuosa, sono pervenuti ad una scomposizione dell’elemento oggettivo della truffa che, come enunciato dall’articolo 640 del codice penale, è la risultante della presenza cumulativa e non alternativa dei seguenti presupposti: 1) artifizi o raggiri; 2) induzione in errore; 3) atto dispositivo; 4) danno patrimoniale e profitto ingiusto [5].
Gli artifizi o i raggiri, affinché possano integrare il suddetto reato, devono essere idonei ad ingannare la vittima e tali da indurla in errore. Più nello specifico, per artificio si intende la simulazione o la dissimulazione della realtà mentre per raggiro ogni macchinazione atta a far scambiare il falso con il vero. Occorre, poi, la sussistenza di un nesso causale tra l’inganno e l’errore che porti ad un atto dispositivo che comporti un danno patrimoniale al truffato e un profitto ingiusto al truffatore. Per danno, come ha più volte sottolineato la giurisprudenza, va intesa una effettiva perdita patrimoniale in termini di lucro cessante e di danno emergente mentre per profitto si intende un vantaggio di natura patrimoniale (o, anche, non patrimoniale).
La condotta dell’uomo, analizzata dal Supremo Consesso, integra pienamente il reato di truffa in quanto l’uomo si è servito di un amore che non provava per ingannare una donna bisognosa di affetto e per instaurare una relazione in cui lui non credeva. Conquistata la fiducia della preda con una manipolazione mentale costante e senza scrupoli e con la promessa di una relazione stabile, il truffatore ha portato la vittima a comprare una casa che non avrebbe acquistato e delle quote societarie cointestate di cui non aveva bisogno. Il patrimonio dell’uomo ha quindi subito un incremento a cui corrisponde il decremento di quello della donna. Si configura pertanto un danno patrimoniale ingiusto che necessita di essere risarcito per restituire dignità alla signora e ai suoi sentimenti, lesi forse di più delle sue ricchezze.
Come ha giustamente osservato la Corte di Cassazione, l’articolo 640 del codice penale è posto non solo a tutela del patrimonio ma anche della libera formazione del consenso del soggetto passivo [6]. Un consenso che, nel caso in esame, è il prodotto di una menzogna architettata ai danni di una donna che voleva solo trovare un uomo che la amasse. È stato leso, quindi, non solo il patrimonio della truffata ma, anche, il dovere di lealtà e correttezza che costituisce un principio cardine non solo del diritto civile in tema di contratti, ma anche dell’ordine pubblico [7].
Il fenomeno, già molto diffuso da anni nel nostro paese, ha avuto un notevole incremento a causa dell’isolamento forzato legato alla pandemia per il covid-19. Nel clima di totale insicurezza psicologica e di chiusura non solo commerciale ma anche umana generata dal virus, in breve tempo i dispositivi virtuali hanno sostituito gran parte della vita quotidiana a cui le persone erano abituate. L’aumento dell’uso dei computer e degli smartphone non solo per lavoro (si pensi allo smart working imposto da aziende private come dalla pubblica amministrazione) ma anche per le relazioni sociali (dato che durante la quarantena non era possibile incontrare persone che non fossero prossimi congiunti [8]) ha portato ad un ulteriore aumento di raggiri di natura non solo commerciale ma anche amorosa. La causa è da rinvenirsi nell’isolamento forzato: le interazioni quotidiane sono state infatti sostituite dagli incontri online, siano essi su piattaforme per il tempo libero o su specifici siti d’incontri. La solitudine causata dal periodo di lockdown si pone come antecedente logico alla fragilità che nasce nelle persone più sensibili e che è usata poi dai truffatori per convincerle a credere nella loro persona e nella loro storia. I romance scammer, sfruttando la tragicità del momento, spesso si fingono medici impegnati in missioni umanitarie e, dopo aver rubato le foto del profilo di un utente di bell’aspetto ignaro di questa truffa, iniziano il corteggiamento online, scegliendo come vittime persone inclini all’empatia verso la sofferenza. Adducono anche storie di vita personale particolarmente tristi, al fine di impietosire la vittima: si passa dalla moglie morta tragicamente al figlio con una disabilità o alla figlia gravemente malata. Le comunicazioni tra il truffatore e il truffato sono sempre virtuali, e solo raramente si trasformano in una telefonata, quasi mai in una video chiamata (ciò accade quando non si è rubata l’identità ad un terzo, incorrendo nel reato di cui all’articolo 494 del codice penale di cui si tratterà nel proseguio). Ottenuta l’utilità desiderata, lo scammer sparisce dalla realtà virtuale, la stessa che lo ha aiutato a creare una truffa ai danni di una persona che ha come unica colpa solo quella di essere particolarmente sensibile e sola.
Negli ultimi cinque anni, si è assistito ad un aumento a dir poco preoccupante di “identity thefts”, prodromici spesso e volentieri alla truffa romantica on line. Il furto d’identità è una fattispecie che può essere rintracciata sia nella quotidianità che nella virtualità. È sul web, tuttavia, che essa ha modo di svilupparsi maggiormente. Gli hackers [9] sono i responsabili di questa insicurezza virtuale che sembra non arrestarsi e, anzi, aumentare di anno in anno. Premesso ciò, la condotta di chi si appropria dell’identità altrui (realmente o informaticamente) può essere inquadrata in due fattispecie delittuose: il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.) o quello di frode informatica (art. 640 ter, comma 3, c.p.).
La sostituzione di persona, fattispecie prevista dall’articolo 494 c.p., è un reato in costante aumento nella società contemporanea: la principale causa di questa pericolosa crescita è da ricercarsi nell’utilizzo, spesso improprio e contra legem, delle nuove tecnologie informatiche. Gli elementi distintivi dell’illecito sono tre: 1) l’ingiusto vantaggio procurato a sé o ad altri o il danno che scaturisce dalla commissione del reato e che ricade su altra persona; 2) l’induzione altrui in errore, attraverso la sostituzione illegittima della propria persona a quella altrui, attribuendo alla propria persona o a quella altrui un falso nome, un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici; 3) la reclusione fino ad un anno, sempre se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica. È da sottolineare come il delitto in questione possa rappresentare anche l’antefatto o il presupposto per la realizzazione di reati di maggiore gravità. Costituisce applicazione del principio appena espresso, l’utilizzo di un account di posta elettronica, creato con l’attribuzione di generalità di un diverso soggetto e con l’induzione in errore degli utenti nei confronti dei quali le false generalità siano declinate con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese [10]. Non occorre che il vantaggio che scaturisce dalla commissione del reato sia costituito da una utilità economica, ben potendo lo stesso avere diversa natura. L’elemento soggettivo relativo a questa fattispecie incriminatrice è da rinvenirsi nel dolo specifico, in quanto la coscienza e volontà del fatto tipico sono direzionate ad un obiettivo ben preciso: esse hanno, infatti, lo scopo di arrecare un danno ad altri o di conseguire un vantaggio personale. La giurisprudenza di legittimità, in una recente sentenza, ha stabilito che integra il delitto di sostituzione di persona ex articolo 494 c.p., la condotta che si estrinseca nella creazione ed utilizzazione di un profilo sui social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole poiché si tratta di una condotta idonea alla rappresentazione di una identità digitale non corrispondente al soggetto che lo utilizza [11].
Occorre, infine, analizzare la fattispecie prevista dall’articolo 640 ter c.p. derubricata “frode informatica”. Ai sensi del comma 1 del predetto articolo “chiunque, alterando il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1032”. Con riferimento all’elemento soggettivo del reato, esso è rintracciabile nel dolo: la dottrina ritiene compatibili con la fattispecie in esame sia il dolo intenzionale sia quello diretto e indiretto ma non quello eventuale o specifico. La questione più importante e problematica che coinvolge il delitto in questione è quella relativa alla sua natura giuridica. La dottrina si è infatti chiesta se il reato di frode informatica costituisse una species del genus truffa ex articolo 640 c.p. ovvero se esso potesse essere considerato come una autonoma ipotesi di reato. La tesi emersa da questo contrasto non solo dottrinale ma anche giurisprudenziale e attualmente prevalente è quella che configura la frode informatica come autonoma ipotesi di reato, sebbene siano innegabili forti analogie con la fattispecie ex articolo 640 [12]. Nel testo dell’articolo 640 ter c.p. non è infatti presente nessun riferimento a una condotta vincolata, come è invece statuito nell’articolo 640 c.p. (nell’ipotesi di truffa, la condotta è posta in essere mediante artifici o raggiri tesi a indurre in errore il soggetto e a fargli compiere un atto di disposizione patrimoniale che altrimenti non porrebbe in essere). La condotta richiesta dall’articolo 640 ter si caratterizza per essere libera e consiste nella alterazione del funzionamento del sistema informatico o telematico ovvero di intervento abusivo su dati, informazioni o programmi in esso contenuti. L’attività fraudolenta dell’agente, quindi, investe non la persona di cui difetta l’induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema [13].
Le conclusioni che si evincono da questo breve articolo sono di ordine duplice: in primo luogo, il legislatore ha deciso di tutelare la personalità e i sentimenti dell’utente che decide di esporsi nella rete; in secondo luogo, a causa di un aumento a dir poco preoccupante dei reati informatici, la rete è divenuta “sorvegliata speciale” da parte non solo della dottrina ma soprattutto della giurisprudenza. Il Supremo Consesso ha, infatti, dimostrato di riservare grande attenzione alle dinamiche che si sviluppano nell’interazione virtuale, al fine di tutelare l’utente dai pericoli che esso possa incontrare nel momento in cui accede ad un sistema informatico. Gli ermellini sono infatti consapevoli del grande cambiamento che ha investito i rapporti interpersonali che, nella società contemporanea, nascono e si sviluppano nei social network o semplicemente si conservano grazie ad essi. Questa nuova forma di interazione non deve però costituire il presupposto per la commissione di reati attraverso le nuove tecnologie, ledendo altresì le persone più sprovvedute e più inesperte che si avventurano nel web.
[1] Per un approfondimento sul tema si veda R. Bruzzone e E. Florindi, “Il lato oscuro dei social media. Nuovi scenari di rischio, nuovi predatori, nuove strategie di tutela”, Imprimatur Editore, Reggio Emilia, 2016.
[2] M. T. Singer, J. Lalich, Cults In Our Midst, The Hidden Menace In Our Everyday Lives, Jossey-Bass Publishers, 1995.
[3] Già nell’antica Roma si parlava di comportamenti illeciti riguardo ai sentimenti e la dimostrazione è in un aforisma di Tito Livio (attribuito a Quinto Fabio Massimo detto il temporeggiatore) che sentenzia “Il fraudolento sa guadagnarsi la fiducia nelle piccole cose, per tradire poi con grande profitto”.
[4] Cassazione Penale, II Sezione, sentenza numero 25165/2019.
[5] Cassazione Penale, II Sezione, sentenza numero 25165/2019.
[6] Ciò è anche ribadito in R. Giovagnoli, Manuale di Diritto Penale, Parte Speciale, Ita edizioni, Torino, 2019, pp. 597 e ss.
[7] Si veda, a tal proposito, non solo l’articolo 1175 c.c. (il cui antecedente normativo può essere rinvenuto nell’articolo 1224 del codice del 1865) ma anche l’articolo 1375 c.c..
[8] Come disposto dall’articolo 1 comma 1 del D.P.C.M. 26 aprile 2020 disponibile su http://www.governo.it/sites/new.governo.it/files/Dpcm_img_20200426.pdf.
[9] Termine inglese che inizialmente indicava gli abili operatori della rete e che adesso inquadra i criminali informatici.
[10] Cassazione Penale, V Sezione, sentenza numero 46674/2007.
[11] Cassazione Penale, Sezione V, numero 33862/2018.
[12] Cassazione Penale, Sezione I, sentenza numero 17748/2011.
[13] Cassazione Penale, Sezione VI, sentenza numero 8755/2009.
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