L’analogia nel diritto penale e le cause di non punibilità
La vicenda dell’art. 384 c.p. Uno dei temi che, di recente, ha alimentato forti dibattiti sia in dottrina che in giurisprudenza, è quello che concerne la natura giuridica della causa di non punibilità enunciata dall’ art. 384 c.p. La questione, sebbene meriti di essere analizzata, innanzitutto, in una prospettiva teorico/dogmatica, non è avulsa dal terreno della prassi.
È plausibile, infatti, che la norma escluda, alternativamente, la mera punibilità dell’agente, la sua colpevolezza, ovvero l’antigiuridicità della sua condotta. Nel primo caso il legislatore, dinnanzi ad un fatto reputato tipico, antigiuridico e colpevole, si sarebbe limitato a svolgere una valutazione di non-opportunità della risposta sanzionatoria. Qualora, invece, si vogliano avallare le ultime due ipotesi, si giungerebbe alla conclusione per cui, la voluntas legis, si sia spinta sino ad amputare la fattispecie astratta di uno dei suoi elementi costitutivi, decretandone, in questo modo, l’irrilevanza penale. Il diagramma illustrato, tuttavia, presuppone, quale prius logico, l’adesione alla cosiddetta “teoria tripartita”. La convalida dell’una o dell’altra ricostruzione, come già anticipato, proietta i propri effetti nel panorama pretorio; ossia, nello specifico, in relazione alla possibilità di estendere i confini della norma in via analogica.
In particolare, è stato demandato alle SU[1] se fosse legittimo applicare la predetta causa di non punibilità nei confronti del convivente more uxorio. L’ordinanza di rimessione evidenzia che, dal tenore letterale della disposizione, la quale enuclea un espresso rinvio all’art. 307 c.p., si evince che la medesima sia applicabile, oltre che nei confronti dei coniugi, anche nei riguardi di coloro che sono parti di un’unione civile. Lo spirito della norma, pertanto, sembra suggerire una interpretazione restrittiva della medesima. Del resto, specificano i giudici rimettenti, la Consulta, la quale da adito alla propria tesi in virtù dell’art. 29 Cost., da tempo predica la sussistenza di una indifettabile distinzione, soprattutto di tipo giuridico, tra i componenti di una coppia di fatto e coloro che sono uniti dal vincolo del matrimonio. Si rammenta, inoltre, che anche la Corte EDU “ha escluso la violazione dell’art. 8 CEDU laddove la legislazione interna costringa una persona a testimoniare nell’ambito di procedimenti penali a carico del convivente senza conferirle la facoltà di astensione riconosciuta invece al coniuge e al convivente registrato”.
La legge Cirinnà[2], la cui ratio è quella di attualizzare il concetto di “famiglia”, si è limitata a prendere atto della legittimità delle cosiddette “coppie di fatto”, inglobando tale fenomeno nell’orbita dell’art. 2 Cost. Ben differente, invece, è stato l’approccio adottato nei confronti delle unioni civili. Invero, la loro disciplina, anche in un’ottica di tutela giuridica, è analoga a quella già esistente in tema di matrimonio.
Non si sono fatti attendere, in sede penale, i corollari derivanti dalla novella[3].
L’art. 574 ter c.p., in quanto esprime una regola di sistema, sacralizza l’equiparazione da ultimo enunciata. Viceversa, una analoga equiparazione, in relazione alle coppie di fatto, non è stata posta in essere. Laddove il legislatore, sulla base di una valutazione politico-criminale, abbia ritenuto congruo presidiare la salvaguardia del fenomeno mediante la minaccia di sanzioni penali, è intervenuto esplicitamente (cfr. 572 c.p.).
Le Sezioni Unite del marzo 2021. Le Sezioni Unite[4] hanno sostenuto che, sebbene manchi una espressa indicazione in tal senso, l’art. 384 c.p. debba essere applicato anche nei confronti del convivente. La pronuncia, quindi, sposa il principio dell’analogia in bonam partem. Gli ermellini, al fine di avallare la predetta conclusione, hanno escluso che la norma de quo disciplini una “causa di non punibilità in senso stretto” avente natura eccezionale; in tal caso, infatti, la lettura tassativa della disposizione sarebbe stata imposta de plano. Allo stesso modo, si è negato che questa rappresenti una causa di giustificazione; ciononostante, parte della dottrina, da anni, militi in tal senso. L’eventuale accoglimento di quest’ultimo indirizzo avrebbe comportato, ope legis, la liceità del fatto in ogni settore dell’ordinamento.
Le SU, le quali si sono basate, per lo più, su elementi di tipo soggettivo/psicologico, hanno concluso il loro iter argomentativo affermando che l’ipotesi de quo integri una scusante. Pertanto, il sostrato logico/giuridico su cui si fonda la paralisi della risposta penale, giace su una valutazione di “inesigibilità” di una condotta alternativa.
L’istituto dell’analogia, anche nell’ambito del diritto penale, presuppone, oltre che una lacuna normativa, la involontarietà della stessa.
Ebbene, alla luce di quanto sopra affermato, soprattutto in relazione alla legge Cirinnà, è ragionevole chiedersi quale sia stata la reale voluntas legis.
Scusanti vs cause di giustificazione. È evidente, quindi, che l’esito cui sono giunte le SU cozzi con la tesi per cui l’art 384 comma 1 c.p. evochi una species dell’art. 54 c.p. Ciò, nel caso in cui, questo venga inteso come privo di antigiuridicità. Si rammenta, tuttavia, che dottrina e giurisprudenza, a loro volta, sono divise circa la natura dello “stato di necessità”; secondo alcuni, infatti, si tratterebbe di una scusante; secondo altri, invece, di una causa di giustificazione. Il richiamo contenuto ex art. 119, comma 2, c.p., nella parte in cui si riferisce alle “circostanze oggettive che escludono la pena (50-54)“, induce a ratificare quest’ultimo orientamento.
Per quanto qui ci interessa, ossia lo studio dell’art. 384 c.p. e, più in generale, delle cause di non punibilità, in rapporto all’istituto dell’analogia, è possibile affermare che ambedue le soluzioni (scusante e causa di giustificazione) siano idonee a garantirne l’operatività in ragione della loro non-eccezionalità e del loro effetto in bonam partem[5].
Acclarata la suddetta congruenza, si precisa che, le differenze, tra le due cause di non punibilità, siano evidenti.
Una prima distinzione rileva sul piano extra-penale; le scusanti non recano, per se stesse, una complessiva valutazione di liceità del fatto.
Inoltre, la rilevanza del “putativo” ex art. 59, comma 4 c.p., non si applica nei riguardi delle cause di esclusione della colpevolezza. Queste ultime, qualora ritenute erroneamente esistenti, non neutralizzano il meccanismo sanzionatorio.
Ancora, nel caso di concorso di persone nel reato, si presume che soltanto le cause di giustificazione, in virtù della loro obiettività, siano capaci di elargire effetti scriminanti a favore di tutti i correi. Le scusanti, viceversa, in quanto presuppongono la sussistenza di un turbamento emotivo, si sottraggono ad un tale spettro applicativo (cfr. art. 119 c.p.).
Alla luce di tali osservazioni e delle perplessità che orbitano attorno alla natura della causa di non punibilità disciplinata dall’art. 384 c.p., si comprende il nucleo del dictum delle Sezioni Unite.
[1] Ordinanza, 17 gennaio 2020 n. 1825.
[2] Legge 20 maggio 2016, n. 76.
[3] D. Lgs. 19 gennaio 2017 n. 6.
[4] Sez. Un. Cass. 16 marzo 2021, n. 10381.
[5] Per mero scrupolo si specifica che, l’eventuale dilatazione della norma colliderebbe con il (fondamentale) principio di legalità, nel caso in cui, da tale operazione, ne dovesse derivare uno svantaggio nei confronti del reo
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Sara Silvestrini
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