L’anestetista è colpevole per le complicanze fatali dell’intervento anche se statisticamente frequenti
La IV sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 33405 dep. 18.7.2018, ud. 13.04.2018, ritorna ad occuparsi di responsabilità medica, questa volta in campo anestesiologico.
Il Procuratore generale e le parti civili proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza di assoluzione dell’anestesista P.G., imputata per cooperazione colposa con altri medici nel decesso di un bambino, nel corso di un intervento chirurgico, per aver cercato ripetutamente di incannulare le vene del collo perforando la cupola pleurica e provocando di conseguenza un sanguinamento che determinava la morte del minore.
Il Procuratore generale ricorrente evidenziava che il giudice a quo, nell’assolvere il medico, aveva trascurato le risultanze autoptiche dalle quali emergeva che l’imputata non era intervenuta in una situazione di emergenza e le condizioni generali del paziente erano discrete, con buona ossigenazione, come emerge dal diario infermieristico; adduceva dunque che il bambino non versasse in condizioni critiche, come sostenuto dai consulenti medico-legali e dalle testimonianze, ma che invece le condizioni divennero critiche solo dopo l’infruttuoso tentativo dell’anestetista di incannulare la giugulare interna.
Rammentava il Procuratore che il consulente autoptico aveva affermato che non è raccomandabile ripetere la manovra dopo due tentativi falliti e che la morte del piccolo paziente doveva ascriversi alla censurabile condotta di colui che, allorquando risultò infruttuoso l’accesso chirurgico posto in essere al livello della regione prossimale della coscia sinistra, provò a reperire altra vena sia agli arti che in giugulare interna.
I periti evidenziavano che le linee guida indicano la puntura intraossea come prima procedura alternativa, in caso di tre tentativi falliti di cannulazione di un vaso, proprio a causa dell’elevata difficoltà tecnica di esecuzione della cannulazione della vena giugulare interna, ma che comunque l’emotorace è una delle complicanze letali più frequenti in queste procedure.
Il ricorrente rilevava come già con cinque tentativi falliti si hanno complicanze di natura meccanica, come la perforazione delle cupole pleuriche e l’emotorace, in un percentuale pari all’85% dei casi circa, mentre nel caso di specie le prove furono sette sicché il rischio di conseguenze letali era elevatissimo; deduceva che non risultavano in letteratura medica casi in cui siano stati effettuati sette tentativi di incannulazione delle giugulari interne, fermandosi la casistica clinica ad un massimo di cinque, e che, proprio per le caratteristiche fisiche del bambino, 17 mesi e solo 6,5 kg di peso, il medico si sarebbe dovuto astenere dal proseguire le prove di incannulazione.
Nel ricorso delle parti civili venivano svolte similari argomentazioni, evidenziando in particolare le contraddizioni ed incongruenze delle testimonianze delle infermiere e che persino il consulente dell’imputata ha ammesso che non vi era un imminente pericolo di vita e che l’intervento poteva essere eseguito in un altro momento, magari con un chirurgo più esperto nell’incannulamento della vena giugulare.
Nella ricostruzione dei ricorrenti dunque il bambino, che era cosciente, morì soffocato per l’imperizia dell’imputata, che ebbe a ripetere la manovra per sette volte, fino a lesionare entrambe le cupole pleuriche, cagionando un emotorace bilaterale e l’acquattamento di entrambi i polmoni nella cassa toracica, e che non richiese nemmeno un esame radiologico di controllo dopo il primo accesso infruttuoso alla giugulare interna, nonostante le anomalie morfo-funzionali del piccolo, ben conosciute dal medico.
La Corte di Cassazione accoglieva le doglianze di ricorrenti ritenendo viziato l’apparato logico della sentenza di merito. Infatti, secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale si era limitata ad osservare come i periti nominati dal G.i.p., in sede di incidente probatorio, avessero evidenziato come la cannulazione della vena giugulare interna presenti non solo un elevatissimo rischio di trombosi reattiva ma anche una notevole difficoltà tecnica di esecuzione, segnatamente nei pazienti di basso peso, a causa degli spazi anatomici ridotti, della natura del tessuto cutaneo e sottocutaneo nonché della mobilità del vaso e della frequente relativa tortuosità, e che proprio la lesione delle cupole pleuriche, che ha cagionato l’emotorace, rientra statisticamente nelle complicanze letali più frequenti.
Di qui il giudice del merito aveva errato nel ritenere la condotta dell’anestetista esente da colpa per imperizia anche perché, oltre a non aver in alcun modo approfondito le problematiche emerse nel processo, appare contraddittorio affermare, da un lato, che non è certo possano ravvisarsi profili di colpa, a titolo di imperizia, a carico del medico e, dall’altro, che la lesione delle cupole pleuriche che ha cagionato l’emotorace rientra statisticamente fra le complicanze fatali più frequenti: proprio per questa ragione, infatti, la possibilità di produrre la predetta lesione avrebbe dovuto essere ben nota al medico, il quale avrebbe, quindi, dovuto prevederla ed utilizzare ogni cautela per evitarla.
La Cassazione bacchetta poi il giudice a quo anche perché, esclusa la colpa per imperizia, ha omesso di analizzare l’eventuale riscontro di colpa a titolo di imprudenza, segnatamente in relazione alla reiterazione dei tentativi di effettuazione della manovra, nonostante la ben nota pericolosità di quest’ultima.
Così come ometteva completamente di considerare la possibilità di interpellare uno specialista più esperto, in considerazione dell’esito infruttuoso dei primi tentativi. La Suprema Corte cassava (senza rinvio) quindi la sentenza impugnata poiché affetta da contraddittorietà e manifesta illogicità.
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