L’annullamento delle dimissioni del lavoratore

L’annullamento delle dimissioni del lavoratore

Cass., Sez. lavoro, Sent., 25 giugno 2019, n. 16998

La Cassazione, con la sentenza del 25 giugno 2019, n. 16998, è tornata ad occuparsi del tema dell’annullabilità delle dimissioni avanzate dal lavoratore subordinato.

L’opportunità si manifesta a seguito dell’impugnazione di una sentenza della Corte di Appello di Palermo, che aveva annullato le dimissioni di un lavoratore presentate in stato di incapacità di intendere e di volere, e che aveva riconosciuto allo stesso il diritto a percepire le retribuzioni maturate dalla data del recesso a quella della riammissione in servizio.

Nel decidere sulla questione, la Suprema Corte parte dalla considerazione che “l’utilizzabilità dell’azione di annullamento di cui all’art. 428 comma 1 Cod. Civ., anche nel caso delle dimissioni del lavoratore è da tempo pacifica nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 14 maggio 2003, n. 7485; Cass. 8 marzo 2005, n. 4967; Cass. 18 marzo 2008, n. 7292; Cass. 21 gennaio 2016, n. 1070)”. Costituisce, invero, un principio di diritto ormai acquisito quello che sancisce che il recesso del lavoratore subordinato costituisce atto unilaterale recettizio avente contenuto patrimoniale, a cui sono applicabili – ai sensi dell’art. 1324 Cod. Civ. – le norme sui contratti, salvo diverse disposizioni di legge.

Quest’ultimissimo inciso consente di comprendere la ragione che sta alla base del mancato richiamo all’428 Cod. Civ. in toto. Infatti, nei riguardi della disciplina del recesso del lavoratore si vuole escludere l’applicabilità del primo capoverso dell’articolo in questione, secondo cui “L’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente”. Ne risulta che, a differenza che per i contratti non è necessario che risulti la malafede del datore di lavoro. In tal senso si è pronunciata più volte la stessa Suprema Corte (v. Cass. n. 7292/2008 cit.; Cass. 21 luglio 2015, n. 15213; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2500)”.

I giudici di Piazza Cavour risultano, dunque, essere pienamente edotti della circostanza che il lavoratore dimissionario privo della capacità di intendere e di volere si trova in una situazione di “particolare debolezza perché privo di qualunque consapevolezza dell’atto che sta per compiere”; particolare debolezza che, ad avviso della Corte, giustifica una speciale disciplina.

Invero, risulta agevole immaginare come la materia coinvolga aspetti particolarmente delicati; le dimissioni, infatti, possono facilmente celare atti di licenziamenti illegittimo o essere ingenerate da indebite pressioni da parte del superiore gerarchico.

Nonostante ciò, fino a pochi anni orsono, il nostro ordinamento non conosceva una disciplina di protezione a carattere universalistico. Particolari tutele (id est: convalida delle dimissioni in sede amministrativa) erano previste unicamente per lavoratrici nubende o gestanti (cfr. art. 1 comma 4 legge n. 7/1963 ed ora art. 35 comma 4 d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 e art. 55 comma 4 d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151).

Così, nei confronti della generalità dei lavoratori ci si doveva rifare alle disposizioni civilistiche dettate in materia di obbligazioni e, in particolare, agli artt. 2118 e 2119 del Codice. Di conseguenza, al prestatore di lavoro era riconosciuta la mera facoltà di recedere dal contratto di lavoro stipulato a tempo indeterminato (in conformità con il principio fondamentale della non perpetuità dei vincoli obbligatori e con il principio di autodeterminazione) con il solo limite del preavviso, salvo il caso in cui la scelta di interrompere il rapporto sia stata determinata da una giusta causa. Non era dunque previsto alcun procedimento di convalida, né tantomeno, alcun vincolo di forma, potendo le dimissioni essere validamente proposte in forma orale o per il tramite di atti o comportamenti concludenti.

La noncuranza mostrata dal legislatore sul tema – sebbene la prassi giurisprudenziale avesse tentato di trovare dei rimedi, specialmente sul versante risarcitorio – privava questi ultimi di un adeguato apparato di protezione. Da qui l’interesse mostrato dal Parlamento negli ultimi anni, dapprima con la legge 17 ottobre 2007, n. 188, in seguito con la disciplina prevista dalla “legge Fornero” (art. 4 commi 16-23 legge 92 2012) e, infine, con l’art. 26 d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151.

Quest’ultima disposizione – facendo salva la disciplina speciale posta dall’art. 55 comma 4 d.lgs. n. 151 del 2001) – configura essenzialmente due gamme di tutele. Da una parte (comma 1) dispone che per essere effettivamente valide, le dimissioni debbano essere presentate esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero, dall’altra (comma 2) attribuisce al lavoratore la facoltà di revocarle entro sette giorni dalla data di trasmissione del suddetto modulo. Ne consegue che, attualmente, l’atto di dimissione di un prestatore di lavoro subordinato, per essere considerato tale, deve necessariamente essere presentato con le modalità sopra viste (altrimenti risulterebbe tamquam non esset), essendo in ogni caso attribuita la prerogativa dello ius poenitendi.

Siffatta disciplina, come già accennato supra, è pienamente giustificata dalla posizione di particolare debolezza in cui si colloca il lavoratore dimissionario; non a caso, la stessa sentenza in commento riconosce che, in tali casi, “l’interesse del lavoratore prevale su quello del datore di lavoro (provocando la rottura del rapporto contrattuale)”.

Tutto ciò incide anche sul grado di accertamento della prova delle dimissioni: per la Cassazione n. 16998/2019 (riprendendo principi già espressi in precedenza: cfr. Cass. 15 giugno 1995, n. 6756; Cass. 14 maggio 2003, n. 6756; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2500 ed anche Cass. 21 novembre 2018, n. 30126) tale “accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia al posto di lavoro, bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost., sicché occorre verificare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto”.

Nel caso in esame, i giudici della Suprema Corte hanno trasfuso l’applicazione di tali principi alle ipotesi di recesso del lavoratore che versa in stato di incapacità naturale, per la cui prova, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente del lavoratore. In altri termini, l’incapacità naturale consiste in ogni stato psichico abnorme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale o a un vero e proprio processo patologico, che – con riguardo al momento in cui le dimissioni sono state compiute (cfr. Cass. n. 1070/2016) – abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che si compiono o la formazione di una volontà cosciente.

È imprescindibile, in ogni caso, che via sia un’incidenza causale tra l’alterazione mentale del lavoratore e le ragioni soggettive che lo avevano spinto alle dimissioni. Una volta accertata una tale circostanza, poiché l’annullamento di un negozio giuridico ne elimina ogni conseguenza in modo retroattivo, il giudice non può far altro che ripristinare il rapporto pregresso, attribuendo al dimissionario la posizione giuridica di cui era in precedenza titolare.

Se fino a questo punto, la sentenza n. 16998/2019 si è limitata a dare continuità a principi largamente fatti propri dalla dottrina e dalla giurisprudenza, lo stesso non si può dire con riferimento all’individuazione delle conseguenze di tale annullamento sul piano economico; non a caso la stessa sentenza qualifica la questione come “controversa”.

In particolare, la vexata questio concerne il diritto del lavoratore alla riscossione delle retribuzioni maturate dal giorno delle dimissioni fino alla sentenza di annullamento.

Un primo orientamento (v. Cass. 6 settembre 2018, n. 21701; Cass. 17 ottobre 2014, n. 22063; Cass. 17 giugno 2005, n. 13045; Cass. 6 novembre 2000, n. 14438; Cass. 5 luglio 1996, n. 6166) ha, sul punto, ritenuto che nell’ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate da un lavoratore subordinato le retribuzioni non spettino dalla data delle dimissioni bensì dalla data della sentenza che ne dichiari l’illegittimità. Si ritiene, infatti, che l’annullamento di un negozio giuridico con efficacia retroattiva non comporta di per sé il diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione; ciò sulla scorta della natura sinallagmatica del contratto di lavoro, che fa sì che il pagamento della retribuzione in mancanza della prestazione di una attività lavorativa sia da considerarsi un’eccezione che deve essere espressamente prevista dalla legge, così come ad esempio avviene nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo.

Di diverso avviso un altro filone giurisprudenziale (Cass. 13 febbraio 2019, n. 4232; Cass. 14 aprile 2010, n. 8886), secondo cui gli effetti della sentenza di annullamento retroagiscono al momento della domanda giudiziale.

Ed è proprio a questo secondo indirizzo a cui la Cassazione, con la sentenza n. 16998/2019, intende dare continuità. Diverse le motivazioni prospettate:

– anzitutto viene affermato che la soluzione che riconduce la decorrenza della retribuzione alla data della sentenza sarebbe del tutto iniqua per il lavoratore perché significherebbe “far pesare sulla parte che, a ragione, domanda giustizia, i tempi della risposta giudiziaria – tra l’altro in violazione del principio costituzionale (art. 111 Cost., comma 1) del c.d. giusto processo”.

-secondariamente, valorizzando l’assioma della strumentalità del processo al diritto sostanziale, si sottolinea che non è ragionevolmente sostenibile che gli effetti sostanziali del processo possano essere regolati in ragione dell’occasionale momento in cui sopravviene (o meno) una certa pronuncia.

– in terzo luogo, viene in rilievo il principio generale per il quale la durata del processo non deve mai andare a detrimento della parte vincitrice (v. Corte costituzionale 23 giugno 1994, n. 253): “se il fine del processo è dare a chi ha ragione tutto e proprio quello che gli spettava secondo il diritto sostanziale, non è possibile che la durata dello stesso penalizzi colui che, alla fine, risulterà aver avuto bisogno del processo per il riconoscimento di tale ragione e che potrebbe anche trovarsi esposto ad effetti indiretti ed indesiderati quali quelli di un possibile impiego dilatorio dello strumento giudiziale. Dal suddetto principio consegue che gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della domanda giudiziale (perpetuatio actionis)”.

Le ampie considerazioni svolte sul tema inducono a ritenere che quest’ultima soluzione sia il frutto di una chiara presa di coscienza da parte dei giudici della Suprema Corte, anche se non si può del tutto escludere un futuro ripensamento, nell’ottica di una valorizzazione del principio del sinallagma della prestazione lavorativa.


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