L’applicazione della disciplina del reato continuato nella fase della esecuzione penale alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 7029/2024
Sommario: 1. Premessa: il fondamento politico – criminale dell’art. 81, comma 2, c.p. – 2. Gli elementi costitutivi – 3. L’art. 671 c.p.p.: la funzione residuale del Giudice dell’esecuzione – 4. I criteri per la determinazione del reato più grave nell’ambito del rito abbreviato: il dictum delle Sezioni Unite
1. Premessa: il fondamento politico – criminale dell’art. 81, comma 2, c.p.
L’istituto della continuazione, normativamente contemplato dall’art. 81 co. 2 c.p., sorge dall’esigenza, costituzionalmente presidiata, di mitigare le rigide conseguenze sanzionatorie derivanti dall’ incondizionata applicazione del cumulo materiale delle pene.
Stante la riconducibilità dell’istituto in disamina entro l’alveo applicativo del concorso materiale di reati, è d’uopo, altresì, sottolineare come la ratio politico – criminale dello stesso sia generalmente individuata, da parte della dottrina più accorta, in una minore presunta pericolosità del reo, in virtù dell’essere i comportamenti di rilievo penalistico da quest’ultimo messi in atto concepiti in vista della realizzazione di una prospettiva finalistica unitaria; da qui, dunque, la necessità di approdare alla irrogazione ad un trattamento sanzionatorio in concreto più mite rispetto alle ordinarie forme di concorso, di guisa che il complessivo operato del soggetto agente, nonché, il rispettivo bisogno di pena, sia riguardato alla stregua di una progressività trattamentale che tenga debitamente conto della funzione selettiva del principio di offensività del reato.
2. Gli elementi costitutivi
Sotto il profilo strutturale, ai fini della configurabilità del reato continuato, in ossequio al dato letterale fissato dall’art. 81 co. 2 c.p., è richiesta la coesistenza di taluni indefettibili presupposti, ossia: 1) la pluralità di azioni od omissioni; 2) più violazioni di legge 3) la sussistenza del requisito sostanziale del medesimo disegno criminoso.
Quanto ai primi due dei cennati requisiti, ci si riferisce, evidentemente, alla necessità per cui ogni singola azione od omissione posta in essere da parte soggetto agente, anche in tempi diversi, sia sussumibile all’interno di una delle ipotesi di reato previamente identificate dal Legislatore in via astratta e generale, stante l’imprescindibilità, in ordine alla ontologica fisionomia del reato continuato, dalla esistenza di plurime violazioni di legge frutto di distinti ed autonomi processi decisionali del reo.
Ciò posto, l’elemento costituente la cifra caratterizzante del reato continuato è sicuramente rappresentato dal requisito dell’unicità del disegno criminoso.
In ordine alla perimetrazione concettuale del prefato requisito, nel tempo, sono state profilate dalla dottrina varie opzioni interpretative.
Secondo un primo orientamento, di gran lunga maggioritario, contrassegnato da una spiccata logica soggettivistica, la nozione contenutistica del medesimo disegno criminoso andrebbe ravvisata nella preventiva ideazione, da parte del soggetto agente, di più fattispecie di reato strutturalmente autonome, ognuna caratterizzata dall’unicità dello scopo perseguito.
Viceversa, alla stregua dell’ormai minoritaria opzione esegetica, di matrice oggettiva, l’essenza del disegno criminoso, almeno nelle ipotesi di c.d. continuazione omogenea, risiederebbe nella stessa plurima violazione della medesima disposizione incriminatrice, la quale, per ciò solo, renderebbe il fatto di reato unitariamente considerato meno grave.
A fronte delle superiori divergenze dottrinali, la giurisprudenza del Supremo Consesso di legittimità, per converso, si è saldamente ancorata alla prima delle tesi sopra menzionate, ovvero, quella di matrice soggettiva, identificando la nozione del disegno criminoso unitario nella predisposizione di un programma funzionalmente teso alla commissione di più violazioni della legge penale, deliberato, da parte del soggetto agente, “almeno nelle sue linee essenziali, prima di dare attuazione ai singoli reati che lo compongono” (cfr. ex multis, Cass. Pen. Sez. I, n. 7452/2020).
A riprova della convergenza verso un modello epistemologico del reato continuato edificato su base soggettiva, è stato, altresì, più volte ribadito dalla medesima Suprema Corte regolatrice come “la ratio del trattamento di favore, che il legislatore riserva alla continuazione, risiede proprio nell’esistenza di un programma preventivo, in quanto solo il soggetto che commette una serie di violazioni di legge, rappresentandosele preventivamente e come complesso unitario, cede una sola volta alle spinte delinquenziali e, conseguentemente, dimostra una capacità a delinquere inferiore” (cfr. Cass. Pen. del 19.10.1987, Battaglino, CED 178404, CP 1989, 823).
3. L’art. 671 c.p.p.: la funzione residuale del Giudice dell’esecuzione
La disciplina fissata all’art. 671 c.p.p. costituisce una delle più importanti novità apportate al vigente codice di rito, dacché attribuisce al Giudice della Esecuzione, sebbene in via sussidiaria rispetto alla cognizione del giudice del merito, il potere di applicare la disciplina del concorso formale di reati o del reato continuato.
Alla stregua della costante impostazione interpretativa professata dal Supremo Consesso di legittimità, il rilievo ontologico della disposizione in disamina, in un sistema processuale a tendenza prevalentemente accusatoria, risiederebbe nella esigenza di ridurre le ipotesi di connessione dei procedimenti penali nell’ambito della fase cognitiva.
Ed invero, in assenza di un simile espediente normativo, la funzione assegnata al c.d. favor separationis, cui generalmente si ispira il modello processuale accusatorio, avrebbe rischiato, irrimediabilmente, di compromettere la possibilità dell’imputato di fruire, in presenza di una pronuncia di condanna, del più favorevole trattamento sanzionatorio derivante dalla applicazione della disciplina del reato continuato (cfr. sul punto, Cass. Pen. Sez. I, del 06.11.1992, Chirico).
Proprio al fine di scongiurare detta conseguenza, tutto ciò che è stato sottratto alla ordinaria cognizione del giudice del dibattimento non può non essere attribuito al vaglio di altro giudice, da individuarsi, in ossequio alle disposizioni fissate dal codice di rito, in quello funzionalmente competente a decidere ai fini esecutivi.
Prendendo le mosse da quest’ultima affermazione, tuttavia, non può essere tralasciata la considerazione, ampiamente maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità, attinente alla sussidiarietà del potere attribuito al giudice della esecuzione di decidere in ordine alla applicazione, in fase esecutiva, della disciplina del reato continuato.
Ciò nondimeno, la circostanza dell’essere l’accertamento ex art. 671 c.p.p. contrassegnato alla stregua di momento processuale prettamente residuale, d’altra parte, non vale a destituire la natura necessariamente cognitoria del processo valutativo cui il giudice dell’esecuzione è tenuto a conformarsi, dacché, diversamente opinando, oltre a relegare il ruolo di quest’ultimo ad una mera funzione di carattere “notarile”, si finirebbe per spogliare di significato la portata innovatrice della norma oggetto di disamina.
Così circoscritta la portata del potere normativamente attribuito al giudice della esecuzione, resta da comprendere come quest’ultimo, da un punto di vista eminentemente pratico, debba essere in concreto esercitato.
A tale proposito, anzitutto, occorre prestare particolare riguardo all’inciso finale del comma 1 dell’art. 671 c.p.p., il quale, stante la avvertita necessità di scongiurare il verificarsi di contrasti tra diverse pronunce, individua come limite strutturale al potere del giudice della esecuzione di riconoscere il vincolo della continuazione quello per cui quest’ultimo non sia stato precedentemente escluso dal giudice del merito.
È opportuno, altresì, precisare come detto vincolo processuale può ritenersi, in concreto, operante nella misura in cui il giudice della fase cognitiva si sia espressamente pronunciato in senso negativo in ordine alla possibilità di ricondurre diversi fatti di reato sotto l’egida dell’art. 81 co. 2 c.p., non potendo, a tal fine, attribuirsi sufficiente pregnanza esplicativa al mero silenzio o all’omessa statuizione sul punto.
Ciò posto, occorre adesso individuare i necessari presupposti di diritto la cui ricorrenza è indispensabile ai fini del perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 81 cpv. c.p..
In proposito, giova rammentare l’assunto esegetico più volte professato dalla Suprema Corte regolatrice secondo cui, “il riconoscimento della continuazione, necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatore, quali l’omogeneità delle violazione e del bene protetto, la contiguità spazio – temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea” (cfr. Cass. Pen. Sez. U, n. 28659 del 18.05.2017 Cc – dep. 8.06.2017 – Rv. 270074).
Dal recepimento di siffatte coordinate ermeneutiche, discende che la medesima prospettiva finalistica necessaria a sorregge la sussistenza dell’elemento costitutivo della unicità del disegno delittuoso, non diversamente da quanto avviene nella fase dell’ordinario giudizio di cognizione, non può ragionevolmente essere identificata con la generica adozione, da parte del soggetto agente, di uno stile di vita dedito al crimine, dovendo, infatti, le singole manifestazioni di natura delittuosa costituire parte integrante di un pianificazione concepita, ab origine, almeno nelle sue connotazioni embrionali.
L’anzidetta scansione interpretativa, inoltre, mantiene integro il suo raggio di applicazione anche a fronte di condotte di rilievo penale che, oltre ad essere strutturalmente omogenee, siano contrassegnate dall’attributo della contiguità spazio-temporale.
Ed invero, come più volte ribadito dalla Suprema Corte, i cennati elementi, sebbene costituenti parte essenziale della valutazione complessiva cui il Giudice della esecuzione è tenuto a conformarsi, rappresentano soltanto alcuni degli indici rivelatori della sussistenza di un impianto intellettivo finalisticamente orientato alla realizzazione di un disegno criminoso unitario ma “non consentono, di per sé soli, di ritenere che gli illeciti stessi siano frutto di determinazioni volitive risalenti ad un’unica deliberazione di fondo” cfr. Cass. Pen. Sez. I, n. 34502 del 02/07/2015, Bordoni, Rv. 264294).
4. I criteri per la determinazione del reato più grave nell’ambito del rito abbreviato: il dictum delle Sezioni Unite
Altra questione avente carattere centrale in tema di applicazione della disciplina del reato continuato in executivis, è quella attinente ai criteri da adottare in ordine alla individuazione della violazione più grave nella peculiare ipotesi in cui vengano in rilievo fatti di reato giudicati con le forme del rito deflattivo disciplinato dagli artt. 438 e ss. c.p.p..
Al fine di fornire adeguata risposta a siffatto interrogativo, è d’uopo, propedeuticamente, muovere dall’analisi dell’art. 187 delle disp. att. c.p.p., il cui testo recita: “Per l’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato”.
Quanto all’effettivo perimetro applicativo di tale disposizione normativa, apparentemente di chiara intuizione semantica, si sono a lungo fronteggiate, prima del recentissimo intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, due opposte tesi interpretative.
Segnatamente, in base un primo, e più rigido, crinale ermeneutico, la questione circa l’individuazione del reato più grave andrebbe risolta dal Giudice della esecuzione prendendo come parametro obiettivo di riferimento la pena applicata dal giudice del merito, sì come anteriormente risultante alla riduzione premiale prevista per il rito abbreviato (cfr. tra le pronunce adesive a siffatto filone esegetico: Cass. Pen. Sez. Unite, n. 45583 del 25.10.2007).
La ragione assiologico-giustificativa di tale opzione interpretativa risiederebbe, essenzialmente, nella considerazione prettamente processuale della diminuente di rito prevista dall’art. 442, co. 2 c.p.p., dacché, risolvendosi quest’ultima in una semplice operazione di calcolo aritmetico, non può che trovare applicazione, da un punto di vista logico-temporale, soltanto all’esito della determinazione della pena operata dal giudice in ossequio alle norme di natura sostanziale.
Secondo altro filone esegetico, diametralmente opposto a quello appena menzionato, la corretta interpretazione dell’art. 187 disp. att. c.p.p. imporrebbe al Giudice della esecuzione, ai fini dell’individuazione della violazione più grave in tema di reato continuato in executivis, “di tenere conto della sanzione più severa concretamente inflitta”, ovvero, di quella determinata al netto della riduzione prevista per il rito speciale. (cfr. Cass. Pen. Sez. I, n. 48204/2008, Abello).
Ebbene, sul tema, come già sopra anticipato, con una recentissima pronuncia del 28.09.2023 (Sez. Unite Penali n. 7029/2024, motivazioni depositate in data 16.02.2024), sono intervenute le Sezioni Unite del Supremo Consesso di legittimità, le quali, nel chiaro tentativo di comporre definitivamente la superiore querelle interpretativa, hanno ritenuto di dovere aderire alla seconda delle tesi euristiche lumeggiate.
La soluzione prospettata dal massimo Organo nomofilattico, certamente condivisibile a parere di scrive, si fonda, sul piano epistemologico, sulla valorizzazione di esigenze, tanto di tipo letterale, quanto di ordine logico-sistematico.
Ed invero, a sostegno della tesi prescelta, in primo luogo, rileverebbe l’esigenza di dare effettività al canone modale di interpretazione letterale normativamente prescritto dall’art. 12 delle preleggi, secondo cui “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
In attuazione, dunque, del criterio direttivo che impone di determinare il significato dell’espressioni utilizzate dal Legislatore coerentemente al valore semantico di uso linguistico generale, la Suprema Corte giunge ad affermare che l’utilizzo del participio passato “inflitta” contenuto all’interno dell’art. 187 disp. att. c.p.p., lungi dal costituire una mera casualità sintattica, debba essere inteso come inequivocabilmente evocativo della necessità per l’interprete, nella specie il Giudice della esecuzione, di seguire, quale indefettibile parametro di individuazione della violazione più grave, quello della pena concretamente irrogata nella fase di merito, quale risultante dalla riduzione prevista per il rito.
Detta impostazione interpretativa, oltre a rivelarsi logicamente coerente con la natura necessariamente derogatoria dell’art. 187 disp. att. c.p.p. rispetto alla disciplina normativa di ordine generale di cui all’art. 81 c.p., valorizza, altresì, la portata eminentemente sostanziale della riduzione premiale conseguente la scelta dell’imputato di essere giudicato mediante le forme del rito abbreviato.
Ed invero, come più volte ribadito in varie pronunce di legittimità, opportunamente richiamate dalle odierne Sezioni Unite, “la disposizione di cui all’art. 442, comma 2, c.p.p., nelle varie versioni succedutesi nel tempo, pur disciplinando aspetti processuali connessi […], coniuga tali aspetti co una indubbia portata sostanziale, quale deve ritenersi quella relativa alla diminuzione o alla sostituzione della pena, che integra un trattamento penale di favore, sia pure con caratteristiche peculiari, perché ricollegabili alla condotta dell’imputato successiva al reato e connotata dalla scelta processuale di accesso al rito alternativo” (cfr. Cass. Pen. Sez. Unite, n. 188121 del 24.10.2013, dep. 2014, Ercolano).
Né, tanto meno, può la tipica natura sostanziale assolta dalla diminuente in parola essere destituita di fondamento in ragione della generale tendenza, avallata anche dalla più recente giurisprudenza di matrice costituzionale, ad escludere dall’alveo applicativo dell’art. 25, co. 2 della Carta Costituzionale le norme avente carattere tipicamente processuale.
Ciò sul rilievo che, l’operatività del meccanismo di riduzione sanzionatoria contemplato dall’art. 442 co. 2 c.p.p., indipendentemente dalla qualificazione giuridica ad esso assegnata, si risolve, sul piano pratico, in un autentico trattamento di favore che, in quanto foriero di ricadute sostanziali sulla pena da irrogare – anche in tema di reato continuato – non può che essere riguardato alla stregua delle norme (nella specie l’art. 2 c.p., nonché l’art. 25 co. 2 Cost.) che regolano l’applicazione della legge penale nel tempo.
Sulla scorta delle superiori considerazioni assiologiche, la Suprema Corte di Cassazione giunge, così, ad enucleare, tra gli altri, il seguente principio di diritto: “ai sensi dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., il giudice dell’esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave”, quella concretamente irrogata dal giudice della cognizione siccome indicata nel dispositivo di sentenza”.
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Gabriele Ferro
Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.
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