L’art. 323-ter c.p. e la sua discussa applicazione al traffico di influenze illecite ed al fatto commesso dall’agente provocatore

L’art. 323-ter c.p. e la sua discussa applicazione al traffico di influenze illecite ed al fatto commesso dall’agente provocatore

Sommario: 1. Funzione premiale dell’art. 323 ter c.p. – 2. Natura giuridica. – 3. Ambito di applicazione. 4. L’art. 323 ter c.p. si applica al traffico di influenze illecite? – 5. Vi è spazio per la figura dell’agente provocatore?

1. Funzione premiale dell’art. 323 ter c.p.

L’art. 323 ter c.p., introdotto dalla legge 9 gennaio 2019 n. 3, rappresenta l’ultimo precipitato legislativo volto ad incentivare la collaborazione del reo con la giustizia.

La disposizione, inserita nel Titolo II, dei delitti contro la p.a., è rubricata “causa di non punibilità” e prevede, in particolare che “non è punibile chi ha commesso taluno dei fatti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322-bis, limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati, 353, 353-bis e 354 se, prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili. La non punibilità del denunciante è subordinata alla messa a disposizione dell’utilità dallo stesso percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente, ovvero all’indicazione di elementi utili e concreti per individuarne il beneficiario effettivo, entro il medesimo termine di cui al primo comma. La causa di non punibilità non si applica quando la denuncia di cui al primo comma è preordinata rispetto alla commissione del reato denunciato. La causa di non punibilità non si applica in favore dell’agente sotto copertura che ha agito in violazione delle disposizioni dell’articolo 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146”.

Essa, in definitiva, introduce nel nostro ordinamento un particolare istituto di tipo premiale che consente al soggetto che collabora con la giustizia la non punibilità della sua condotta[1].

La ragione dell’introduzione di tale norma è da rinvenire nel carattere tipicamente omertoso del patto corruttivo, dal momento che corrotto e corruttore non hanno interesse a far venire a galla il pactum sceleris; nemmeno se questo non venga adempiuto. Per questa ragione, prevedere una causa di non punibilità per il soggetto che si macchi di tale reato, ma che intenda denunciare il fatto, consente di evitare che cadano nel cono d’ombra tutti quegli accordi corruttivi, nei quali l’interesse pubblico è piegato agli interessi privati.

In altri termini, con la norma in esame si prova, invece, a togliere sicurezza e solidità al patto corruttivo, insinuando nei contraenti il dubbio latente che l’altra parte possa venir meno agli accordi e denunciare la commissione dell’illecito.

Si osserva, inoltre, coma questa si inserisca nel solco, già tracciato dal Legislatore con l’introduzione dell’art. 323 bis c.p., comma 2, c.p., ad opera della legge 27 maggio 2015 n. 69 , secondo cui “per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo a due terzi”.

Questa disposizione a differenza dell’art. 323 ter c.p. prevede, invece, una riduzione di pena nei confronti di chi, con comportamento post delictum, si adopera per conseguire uno degli obiettivi individuati dalla norma stessa.

2. Natura giuridica

Si osserva come la causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p., in assenza di un’espressa presa di posizione del Legislatore, abbia posto dei dubbi in ordine alla sua corretta qualificazione giuridica.

Come è noto, il codice parla in generale di “circostanze che escludono la pena”, per tale motivo la dottrina è solita distinguere tra: cause di giustificazione, cause di esclusione della colpevolezza e cause di non punibilità[2].

La distinzione tra queste categorie non è una questione meramente teorica, ma ha delle precise ricadute pratiche per gli effetti che discendono sul piano della disciplina.

Le prime, elidendo in radice l’antigiuridicità, rendono inapplicabile qualsiasi tipo di sanzione, ed inoltre si estendono a tutti gli altri soggetti che eventualmente prendono parte alla commissione del reato (si pensi all’esercizio di un diritto ex art. 51 c.p. o alla legittima difesa ex art. 52 c.p.).

Le cause di esclusione della colpevolezza, invece, lasciano integra l’antigiuridicità del fatto e fanno venire meno solamente la possibilità di muovere un rimprovero al suo autore ed operano soltanto nei confronti del soggetto a cui si riferisce (ad esempio il costringimento fisico ex art. 46 c.p.).

Per quanto concerne le cause di non punibilità esse consistono in circostanze, che a differenze delle precedenti, lasciano intatta l’antigiuridicità del fatto e la colpevolezza. La ragione della loro esistenza è da rinvenire nelle valutazioni di opportunità circa la necessità di assoggettare a pena certi soggetti in determinate situazioni. Per tale ragione esse sono di stretta interpretazione e non sono estendibili ed eventuali concorrenti nel reato (si pensi agli artt. 384 e 649 c.p.).

Alla luce di ciò, è opportuno rilevare come la norma di cui all’art. 323 ter c.p. sia da considerare come una causa di non punibilità per un triplice ordine di ragioni.

Innanzitutto il nomen iuris utilizzato dal Legislatore “causa di non punibilità” è un indice che depone verso tale qualificazione giuridica. In secondo luogo, la circostanza che essa venga in rilievo dopo la realizzazione del reato, lascia intendere che permane, nonostante la causa di non punibilità, la contrarietà del fatto ai dettami dell’ordinamento giuridico, tuttavia, il Legislatore per scelte di politica-criminale ritiene di non dovere punire tale condotta penalmente rilevante. Da ultima, la considerazione per cui l’art. 323 ter c.p., al pari delle altre cause di giustificazione non si estende agli altri eventuali concorrenti nel medesimo reato, ma al contrario, opera solamente nei confronti del soggetto al quale si riferisce.

3. Ambito di applicazione

L’operatività della norma in esame è subordinata alle seguenti condizioni: 1) che il fatto commesso rientri nel novero dei reati presupposto, 2) che venga rispettato il termine posto dalla norma per la denuncia, 3) che la parte che denuncia tenga un certo comportamento e 4) che vengano rispettati i limiti negativi.

Quanto alla prima condizione, la norma al comma 1, individua espressamente una serie di reati presupposto la cui commissione può legittimare, insieme al ricorrere delle altre condizioni, l’operatività della causa di non punibilità. Essi sono, in particolare, le tre fattispecie di corruzione (ovvero art. 318, corruzione per l’esercizio della funzione, art. 319, corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, art. 319-ter, corruzione in atti giudiziari), l’induzione indebita a dare o promettere utilità prevista (319-quater), nonché alcuni reati considerati possibile spia della corruzione, che puniscono comportamenti illeciti commessi nella fase di assegnazione degli appalti pubblici (ossia gli artt. 353, turbata libertà degli incanti, art. 353-bis, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, e 354, astensione dagli incanti). Tra i reati presupposto la norma prevede anche il richiamo agli artt. 320 (corruzione di persona incarica di pubblico servizio), 321 (pene per il corruttore) e 322-bis (peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione, istigazione alla corruzione di membri delle Corti internazionali o degli organi delle Comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri) limitatamente, per quest’ultima fattispecie, ai delitti di corruzione ed induzione indebita ivi indicati.

Circa al fattore temporale utile per la denuncia, il comma 1 della norma pone come limite il rispetto del termine di quattro mesi dalla commissione del fatto, se il soggetto non ha ancora avuto notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini. E’ opinione diffusa in giurisprudenza che esso, con riferimento ai reati corruttivi inizi a decorrere dall’accettazione della promessa, mentre per gli altri reati previsti dalla norma con la consumazione del reato.

La norma, inoltre, richiede che il soggetto per usufruire della causa di non punibilità debba tenere il comportamento indicato dai commi 1 e 2. E’ necessario, infatti, che il soggetto, da un lato, collabori alle indagini (“fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili”) e, dall’altro, restituisca l’utilità ricevuta (“la non punibilità del denunciante è subordinata alla messa a disposizione dell’utilità dallo stesso percepita”).

Quanto ai limiti negativi, la norma, al terzo comma pone due ulteriori condizioni,  da un lato, precisa che, nonostante la denuncia soddisfi i requisiti summenzionati la causa di non punibilità, essa non può essere invocata qualora si accerti la premeditazione del denunciante rispetto alla commissione del fatto e, dall’altro, stabilisce l’esclusione della sua applicazione agli agenti infiltrati che abbiano agito in violazione dell’art. 9 della l. 16 marzo 2006 n. 146.

4. L’art. 323 ter c.p. si applica al traffico di influenze illecite?

Un’analisi della disposizione di cui all’art. 323 ter c.p. sembra escludere tale possibilità, poiché l’elenco dei reati presupposto è tassativo e tra questi non vi è alcun riferimento al traffico di influenze illecite ex art. 346 bis c.p. Nonostante tale ultima norma si ponga l’obiettivo di punire tutte quelle condotte che in qualche modo si pongono come prodromiche alle successive vicende corruttive, essa, per una scelta del Legislatore, è rimasta fuori dall’elenco dei reati presupposti per potere invocare la causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p.

L’elenco dei reati presupposto, inoltre, è da intendere come tassativo, per cui non sarebbe possibile ricondurre al suo interno con un’operazione interpretativa anche il traffico di influenze illecite. Per queste considerazioni, il soggetto colpevole del reato di cui all’art. 346 bis c.p. non può invocare la causa di non punibilità ex art. 323 ter c.p.

5. Vi è spazio per la figura dell’agente provocatore?

Tale eventualità è da escludere per una serie di ragioni.

Innanzitutto, è opportuno rilevare che la figura dell’agente provocatore non trova cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico dal momento che non è consono, per un moderno Stato di diritto, prevedere la punizione di soggetti provocati dalle autorità stesse[3]. Questa figura si pone in stridente contrasto con i principi cardine del diritto penale, quale tra tutti quello della personalità della responsabilità penale del soggetto autore di un reato ex art. 27 Cost. Ed invero, non sarebbero ammissibili forme di responsabilità penale provocate dalle stesse autorità a cui è demandata l’individuazione dei reati.

Per queste considerazioni, le ipotesi, previste nella legislazione complementare di agente provocatore, sono state soppresse ed è stato prevista la figura (legittima) dell’agente infiltrato ex art. 9 legge 16 marzo 2006, n. 146.

La peculiarità della figura sta nella circostanza che l’agente infiltrato assiste alla commissione dei reati da parte di altri senza fornire alcun contributo (altrimenti sarebbe un concorrente ex art. 110 c.p.), ed inoltre, essa non suscita in altri alcun proposito criminoso perché non provoca la reazione delittuosa di nessuno. In altre parole, la sua è una figura meramente passiva, finalizzata, in sostanza, alla visione dei reati commessi da parte di altri soggetti al fine di acquisire elementi di prova. Questa figura è stata ritenuta, da parte della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, legittima perché rispettosa dei principi propri del diritto penale[4].

Per questo motivo la figura dell’agente infiltrato è usata per individuare i colpevoli di certi reati specifici individuati espressamente dall’art. 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146 (tra i quali anche determinati reati contro la p.a. come quelli di cui agli art. 317, 318, 319, 319-bis, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis, c.p.).

A conferma della non applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p. alla figura dell’agente provocatore si richiama il comma 3 nella parte in cui prevede che “la causa di non punibilità non si applica quando la denuncia di cui al primo comma è preordinata rispetto alla commissione del reato denunciato”. Si osserva, come una simile disposizione nega in radice la possibilità che un soggetto provocante un reato poi possa usufruire della causa di non punibilità.


[1] R. CANTONE, A. MILONE, Prime riflessione sulla nuova causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p., Articolo pubblicato su “Diritto Penale Contemporaneo”, https://www.penalecontemporaneo.it/d/6716-prime-riflessioni-sulla-nuova-causa-di-non-punibilita-di-cui-all-art-323-ter-cp
[2] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto Penale Parte Generale, Zanichelli editore, Bologna, 2014, pag. 268 e ss.
[3] R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale parte generale, Nel Diritto editore, Roma, 2017, pag. 1191 e ss.
[4] F. MANTOVANI, Diritto Penale parte generale, Cedam, Padova, pag. 525 e ss.

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Fabio Toto

Ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza nel 2010, con la votazione di 105/110, presso l’Università Lumsa di Palermo, discutendo una tesi in materia di Diritto Commerciale. Ottiene, nel 2012, il diploma di specializzazione per le professioni legali presso la Scuola di Specializzazione Lumsa di Palermo e parallelamente svolge il tirocinio presso gli Uffici Giudiziari del Palazzo di Giustizia di Palermo. Per la preparazione teorica, ha frequentato corsi di formazione giuridica avanzata, tenuti da Consiglieri di Stato, approfondendo, in particolare, il diritto civile, penale ed amministrativo. È iscritto all’albo del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo dal 2016 (Tess. n. 224/16). In qualità di autore ha scritto per riviste scientifiche ed è cultore di istituzioni di diritto pubblico presso l’università degli studi di Palermo.

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