L’art. 41-bis ord. penit.: dalle origini ad oggi

L’art. 41-bis ord. penit.: dalle origini ad oggi

Sommario: 1. Le origini – 2. La riforma Gozzini – 3. L’emergenza antimafia degli anni Novanta – 4. Gli sviluppi e le modifiche successive – 4.1 La legge 23 dicembre 2002, n. 279 – 4.2. La legge 15 luglio 2009, n. 94 e la formulazione attuale del 41-bis5. Il rapporto con la Carta Costituzionale

 

 

Iniziando la trattazione dell’articolo 41-bis della l. n. 354 del 1975, recante «norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà» (nel prosieguo, ord. penit.), è necessario prendere le mosse dalla norma che per prima, nel nostro ordinamento, ha disciplinato quello che oggi è noto come il «carcere duro» e che quindi, dell’art. 41-bis ord. penit. costituisce l’antecedente.

La norma in discorso è l’art. 90 ord. penit. rubricato «Esigenze di sicurezza» che così disponeva: «Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza, il Ministro per la grazia e giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza».

Al fine di meglio comprendere quali furono le esigenze di sicurezza alle quali si voleva rispondere con la suddetta disposizione, è utile ricostruirne l’iter nonché il contesto storico, politico e culturale nel quale essa è stata introdotta.

1. Le origini

Il primo elemento che consente di contestualizzare l’argomento è il «Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi» approvato nel 1891 che, fortemente influenzato dal positivismo criminologico[1], concepiva il trattamento individualizzato come il principale cardine della politica penitenziaria.

Il Regolamento annoverava tra le sanzioni la cella di isolamento da due a sei mesi, l’isolamento in cella di punizione a pane e acqua da cinque a quindici giorni, la camicia di forza o i ferri in cella oscura da quindici a trenta giorni[2].

Furono molte le riforme attuate in quegli anni e in quelli immediatamente successivi in materia di rieducazione dei condannati e di trattamento penitenziario: in particolare, le circolari nn. 21 e 22 del 1920, trasfuse nel r.d. 19 febbraio 1922, n. 393, agirono su due fronti in quanto da un lato introdussero notevoli innovazioni, quali la possibilità di avere colloqui epistolari anche con soggetti diversi dai familiari e di avere contatti con gli altri detenuti dell’istituto, consentendo loro di poter mangiare insieme; ma dall’altro, non previdero l’istruzione come una modalità di trattamento del condannato, concependola come un privilegio degli uomini liberi[3].

In quest’ottica, il problema del trattamento penitenziario venne inquadrato nel contrasto tra la finalità coercitiva e quella rieducativa: da una parte, vi era l’esigenza di garantire l’ordine e la sicurezza della collettività, dall’altra quella di perseguire la risocializzazione e il reinserimento sociale del condannato.

Una delle tappe più importanti di questa evoluzione fu negli anni Trenta del secolo scorso in quanto con il r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398 venne approvato il codice penale Rocco, dal nome del Ministro della Giustizia Alfredo Rocco, e vennero emanate le norme di esecuzione, con le quali le competenze in materia penitenziaria, attribuite prima al Ministro dell’Interno, al prefetto e al viceprefetto, furono rispettivamente assegnate al Ministro della Giustizia, al procuratore generale presso la Corte d’appello e al procuratore del re[4]. Successivamente, con il r.d. 18 giugno 1931, n. 787 venne approvato il «Nuovo regolamento per gli istituti di prevenzione e pena», che nei suoi 332 articoli disciplinava le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, attribuendo al carcere un carattere afflittivo e intimidatorio; inoltre, come si evince dalla Relazione del Guardasigilli Rocco, restarono invariate le tre leggi fondamentali della vita all’interno del carcere (lavoro, istruzione civile e pratiche religiose) di cui veniva rafforzato il carattere di tassatività.

Tra il 1968 e il 1975 molti detenuti diedero vita a numerose rivolte e l’anno decisivo fu il 1971, quando le lotte carcerarie unificarono l’Italia; da quel momento in poi la lotta divenne unica, come unico era l’obiettivo: la modifica del trattamento carcerario.

Si giunse al luglio 1975 quando venne introdotta la riforma dell’ordinamento penitenziario sulla quale influirono alcune delle rivendicazioni avanzate dai detenuti di quegli anni, ma che risultò distante dalle aspettative che si erano create nel corso del dibattito parlamentare. Le ragioni del compromesso della legge di riforma penitenziaria hanno radici remote, risalendo al dibattito dell’Assemblea Costituente circa l’articolo 27 della Costituzione[5]. Le linee guida della riforma del 1975 erano l’osservazione e il trattamento individualizzato dei detenuti all’interno del carcere, in vista del loro reinserimento sociale. Molteplici fattori hanno tuttavia ostacolato la piena attuazione di tali principi: il personale destinato alle attività di osservazione e al trattamento individualizzato non era adeguato al numero dei detenuti, le esigenze di sicurezza e di controllo nei confronti dei detenuti accusati di terrorismo e di criminalità organizzata di stampo mafioso hanno vanificato i programmi generalizzati di trattamento e di reinserimento sociale dei detenuti; inoltre, nell’ultimo ventennio del secolo scorso sono aumentate due categorie di detenuti (i tossicodipendenti e gli immigrati extracomunitari) nei confronti dei quali non erano attuabili i programmi di trattamento e non erano applicabili le misure alternative alla detenzione. La conseguenza di questi molteplici fattori è che il carcere progressivamente si è trasformato in un sistema frammentato e disgregato a causa della presenza di varie categorie di detenuti in relazione ai quali sussistono esigenze differenziate di trattamento[6].

Il 1977 passò alla storia come «l’anno dell’ordine pubblico» in quanto il fenomeno terroristico condusse all’istituzione delle carceri e delle sezioni di massima sicurezza a cui destinare i detenuti più pericolosi per garantire la sicurezza esterna degli stabilimenti penitenziari. Tutto questo venne attuato con il ricorso all’art. 90 ord. penit. che autorizzava il Ministro di Grazia e Giustizia a sospendere, in presenza di «gravi ed eccezionali motivi», l’applicazione delle regole di trattamento che contrastavano con l’esigenza di mantenere l’ordine e la sicurezza[7].

Ciò che indusse il legislatore ad introdurre questa norma fu il persistente collegamento tra le situazioni emergenziali, da un lato, e l’ordine e la sicurezza, dall’altro: in particolare, vi era il tentativo di placare il fenomeno delle evasioni per ristabilire la tranquillità all’interno degli istituti di pena, ma questa disposizione non si limitò a rimanere di carattere eccezionale in quanto divenne uno strumento ordinario per rispondere alla necessità di sicurezza e di ordine degli istituti penitenziari[8]. Alla base di una previsione del genere vi era l’idea di trasferire i soggetti che, a causa della loro capacità a delinquere, rappresentavano un pericolo per l’ordine e la sicurezza dell’istituto, pertanto l’articolo in parola rappresentò il primo tentativo di regolare la sospensione del regime ordinario di detenzione per i detenuti legati ad associazioni criminali di tipo mafioso, terroristiche od eversive. In questa prospettiva vennero selezionate carceri o sezioni delle stesse idonee ad accoglierli, elaborando indici di pericolosità che consentivano di individuare il detenuto che poteva essere considerato un rischio per la sicurezza alla struttura carceraria.

In questo modo l’esecuzione della pena avveniva con modalità differenziate dal regime ordinario per due ragioni: in primo luogo, le condizioni imposte erano più afflittive, in quanto si sostanziavano in una minor socialità e in un maggior isolamento, traducendosi nella possibilità di effettuare meno colloqui e di trascorrere meno ore all’aria aperta; la seconda ragione di questo trattamento è rinvenibile nella circostanza che l’esecuzione della pena era rimessa totalmente alla discrezionalità delle amministrazioni penitenziarie con conseguente violazione di alcuni diritti riconosciuti in Costituzione. Queste furono le principali argomentazioni che indussero il legislatore ad intervenire con la legge 10 ottobre 1986, n. 663[9].

2. La riforma Gozzini

Con l’art. 10 della l. n. 663 del 1986 (c.d. legge Gozzini) si è introdotto l’art 41-bis ord. penit., strutturato inizialmente in un unico comma ed è stato abrogato l’art. 90[10]. L’introduzione di questa norma consentì la possibilità di prevedere un trattamento differenziato in relazione a quelle categorie di soggetti che risultavano legate alle associazioni criminali di tipo mafioso, terroristiche o eversive dell’ordine pubblico, ponendo in primo piano le esigenze di sicurezza degli istituti penitenziari.

Il regime accordato a questi soggetti prevedeva l’introduzione di molteplici limitazioni, tra cui: la durata dei colloqui limitata ad un’ora, il divieto di organizzare attività ricreative, di effettuare telefonate, il controllo della corrispondenza, nonché il divieto di intrattenere corrispondenza con altri detenuti; tutte queste restrizioni si tradussero nella formulazione dell’articolo 41-bis ord. penit. rubricato «Situazioni di emergenza»[11].

L’ordine di fattori che condusse all’abrogazione dell’art. 90 ord. penit. fu duplice: da un lato, la sua applicazione dava luogo a notevoli dubbi di illegittimità costituzionale, dall’altro, la sospensione veniva considerata la normale risposta ad esigenze attinenti l’ordine e la sicurezza non ricollegabili a situazioni di particolare emergenza violando, dunque, la sua originaria finalità. Tutto ciò indusse il legislatore ad occuparsi in maniera diversa del problema, introducendo nel sistema penitenziario una duplice disciplina: da una parte, l’art. 14-bis ord. penit. che prevedeva un particolare regime di sorveglianza volto a fronteggiare le singole condotte che rappresentavano specifiche situazioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza; dunque, per la sua applicazione erano necessari alcuni presupposti, quali: comportamenti in grado di compromettere la sicurezza o l’ordine all’interno degli istituti, compimento di atti di violenza o minaccia tali da impedire le attività degli altri detenuti e infine, può essere applicato nei confronti di coloro che nella vita dell’istituto si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti[12]. Dall’altra parte, venne introdotto l’art. 41-bis ord. penit. che al comma 1 prevedeva la prima tipologia di sospensione delle ordinarie regole di trattamento e rappresentava lo strumento mediante il quale dotare il Ministro di Grazia e Giustizia del potere di sospendere le ordinarie regole trattamentali in caso di necessità e urgenza[13]. Più nello specifico, la norma prevede che il Ministro di Grazia e Giustizia, qualora ricorrano casi eccezionali di rivolta o gravi situazioni emergenziali, può sospendere per un arco temporale limitato l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti[14]: l’indefettibile presupposto è la pericolosità interna all’istituto poiché la finalità è ripristinare l’ordine e la sicurezza in un arco temporale strettamente necessario[15].

Diversi i tratti comuni tra l’abrogato art. 90 e l’originario art. 41-bis ord. penit. quali: il contenuto, in quanto restano immutate la competenza del Ministro di Grazia e Giustizia, l’indeterminatezza della durata del provvedimento, che doveva essere necessaria al fine di ripristinare l’ordine e la sicurezza e, infine, il presupposto di applicazione, vale a dire il collegamento tra le situazioni emergenziali e l’ordine e la sicurezza[16].

Nonostante queste somiglianze, vi sono anche differenze tra la precedente e la nuova disposizione alla luce della diversa collocazione sistematica, dalla quale si evince la loro principale funzione nel sistema: l’articolo 90, essendo inserito tra le norme di chiusura e transitorie del sistema penitenziario, faceva riferimento «ai gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza» che potevano legittimare il Ministro di Grazia e Giustizia a sospendere le regole penitenziarie, riconoscendo un ampio margine di discrezionalità alle autorità. Al contrario, l’articolo 41-bis è collocato nel capo IV del titolo I della legge sull’ordinamento penitenziario e svolge il ruolo di sanzionare comportamenti collettivi non neutralizzabili in quanto per la sua applicazione ed operatività, faceva riferimento ai casi eccezionali di rivolta o ad altre gravi situazioni di emergenza[17]. Quest’ultima espressione pone un argine alla discrezionalità delle autorità dal momento che si afferma che l’amministrazione può far ricorso a questa misura solo in presenza di situazioni imprevedibili, caratterizzate dall’eccezionale gravità ed urgenza.

3. L’emergenza antimafia degli anni Novanta

Viene poi in rilievo l’art. 19 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356[18], che introdusse il secondo comma dell’articolo 41-bis ord. penit.[19].

Nella trattazione di questo comma è obbligatorio il richiamo al contesto storico e culturale, infatti, come sopra indicato, l’originario 41-bis ord. penit. era applicato solo quando era strettamente necessario al fine di dirimere e, all’origine, prevenire eventi che avrebbero potuto rappresentare nel caso concreto un pericolo grave ed attuale per la sicurezza all’interno della struttura penitenziaria.

Il regime differenziato introdotto con questa legge riguarda i detenuti per il delitto di associazione di tipo mafioso, i delitti commessi avvalendosi delle condizioni indicate nell’art. 416-bis c.p., il sequestro di persona a scopo di estorsione ed infine, l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope; solo in un momento successivo, il regime contenuto nell’art 4-bis ord. penit. sarà esteso ad altre ipotesi delittuose, quali, ad esempio: i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza[20].

Un’annotazione importante è relativa alla circostanza che, a conferma del carattere eccezionale della normativa in esame, l’art. 29 del d.l. n. 306 del 1992 limitava l’efficacia delle disposizioni contenute nel secondo comma dell’art. 41-bis ord. penit. ai tre anni successivi all’entrata in vigore della legge di conversione[21], ma la lotta alla criminalità organizzata determinò una proroga della situazione emergenziale negli anni successivi, inducendo il legislatore a protrarre l’efficacia di queste disposizioni in tre occasioni: la prima volta venne prolungata fino al 31 dicembre 1999, la seconda volta fino al 31 dicembre 2000 e la terza volta fino al 31 dicembre 2002[22].

A sollecitare l’introduzione di un secondo comma fu l’aumento della criminalità di stampo mafioso-camorristico, che raggiunse il culmine con la morte del magistrato italiano Giovanni Falcone il 23 maggio 1992, quando nelle vicinanze dell’uscita dell’autostrada per Capaci, cinque quintali di tritolo distrussero più di cento metri di strada facendo saltare in aria le auto blindate in cui viaggiava proprio il magistrato, che oggi è noto per essere il simbolo della lotta contro le mafie.

Cinquantasette giorni dopo, l’ennesima strage: questa volta a perdere la vita il 19 luglio 1992 furono il magistrato Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, nota anche per essere stata la prima donna a far parte di una scorta e la prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.), l’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, il quale si risvegliò in ospedale in gravissime condizioni.

In questo scenario, emerse chiaramente che i risultati nel piano contro la lotta alla criminalità organizzata potevano essere raggiunti solo mediante una drastica, definitiva rottura dei vincoli intercorrenti tra gli appartenenti alle organizzazioni mafiose[23]; a tutto ciò il legislatore reagì non solo intervenendo sul piano sanzionatorio e processuale, ma anche sul versante dell’ordinamento penitenziario mediante l’introduzione di una disciplina estremamente rigida nei confronti dei detenuti condannati per i reati più gravi.

In tal senso, il legislatore intervenne con il d.l. n. 306 del 1992, che convertito in legge avrebbe dovuto rappresentare un «segno certo di non cedere neppure di fronte alla più eversiva delle offese alla criminalità»[24]; conseguentemente, più di trecento presunti mafiosi vennero trasferiti presso le carceri di Pianosa e l’Asinara.

Proprio in virtù della finalità che si voleva raggiungere con il secondo comma, venne introdotta una seconda tipologia di sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario che si applicava ai singoli detenuti o internati per i delitti previsti dall’art 41-bis ord. penit.

Anche in relazione al secondo comma di questo articolo è possibile delineare un confronto con l’abrogato articolo 90, in quanto la normativa prevista da questo secondo comma non menziona gli istituti penitenziari, ma fa riferimento esclusivo a i detenuti speciali e in secondo luogo, il presupposto per l’adozione del provvedimento sospensivo deve essere individuato in eventi esterni all’ambiente carcerario che rappresentano un pericolo per l’ordine e la sicurezza[25].

4. Gli sviluppi e le modifiche successive

4.1 La legge 23 dicembre 2002, n. 279

Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, dopo aver effettuato una visita ispettiva presso gli istituti penitenziari italiani, osservò come il regime detentivo previsto dall’art. 41-bis fosse il più duro rispetto a quelli esaminati durante la medesima visita ispettiva[26].

Nel caso di specie, il Comitato rilevò che alcune privazioni a cui erano sottoposti i detenuti potevano essere qualificate al pari di trattamenti inumani e degradanti, dacché gli internati erano privati di molteplici programmi di attività ed esclusi dal mondo esterno all’istituto penitenziario; inoltre, il Comitato rilevò come la durata eccessivamente prolungata di tali restrizioni avrebbe potuto determinare effetti particolarmente dannosi, quali alterazioni pressoché irreversibili delle facoltà sociali, fisiche e mentali[27].

Il 24 maggio 2002, il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge di modifica  di due articoli dell’ordinamento penitenziario (il 4-bis[28] e il 41-bis) che venne definitivamente approvato dal Parlamento con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, rubricata «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»[29].

Con questa legge è stato introdotto un criterio soggettivo per individuare i destinatari del provvedimento che sospende le ordinarie regole di trattamento; in particolare, è stato rilevato come non sia sufficiente solo il richiamo al titolo di reato, contestato nell’imputazione o enunciato nella sentenza di condanna, ma è anche necessario che vi sia la prova dell’attuale persistenza di collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento.

Così facendo, il legislatore del 2002 ha dato pieno accoglimento ad un’impostazione già prospettata in giurisprudenza dalla Corte costituzionale[30], secondo cui il rigoroso regime del 41-bis poteva essere applicato allorché vi fosse l’«effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa».[31]

L’intervento normativo appena menzionato prevedeva che potesse essere derogato il regime ordinario di trattamento dei singoli detenuti non solo per ragioni di mantenimento della sicurezza interna all’istituto penitenziario, ma altresì per ragioni di sicurezza esterna, con particolare riferimento alla pericolosità del detenuto, desunta dalla condotta; conseguentemente, i presupposti applicativi dell’art. 41-bis, secondo comma, erano di natura oggettiva, rifacendosi al titolo di reato commesso dal detenuto, e di natura oggettiva, poiché rilevava la sussistenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, valutata dall’amministrazione penitenziaria.

Questa legge, nonostante avesse esteso la portata applicativa del provvedimento che disponeva il regime di cui all’art. 41-bis, non alterò il suo carattere amministrativo e così facendo il legislatore del 2002 non considerò che le limitazioni alle due libertà fondamentali, quella personale e quella alla segretezza della corrispondenza, erano in contrasto con gli articoli 13 e 15 della Costituzione, che dispongono che la legittimazione ad adottare provvedimenti che incidono sulle libertà fondamentali è riservata all’atto motivato dell’autorità giudiziaria[32].

La legge in commento ha determinato un inasprimento della disciplina originando dubbi di illegittimità costituzionale in riferimento alla violazione della riserva di giurisdizione poiché disponeva che l’art 4-bis dovesse applicarsi anche all’imputato, il quale, in virtù dell’art. 27, secondo comma, Cost.[33], non può essere sottoposto ad un regime penitenziario più afflittivo soltanto sulla base del titolo di reato; invece, il condannato in via definitiva rischia di essere sottoposto ad un trattamento che può integrare una violazione dell’art. 3 CEDU, in quanto contrario al senso di umanità.

Nel dettaglio, quest’intervento normativo ha stabilito che la proroga è un atto dovuto, tranne l’ipotesi in cui si dimostri che sia venuta meno la possibilità del detenuto ad intrattenere contatti con le associazioni criminali, terroristiche o eversive di riferimento; di conseguenza, è previsto che qualsiasi provvedimento che abbia la finalità di prorogare il trattamento deve contenere «una congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire» e che non sono consentite motivazioni inidonee a giustificare le misure applicate. Conseguentemente la suprema Corte di cassazione[34] ha affermato che i decreti di proroga del regime speciale previsto dall’art. 41-bis ord. penit. devono essere sorretti da una congrua motivazione circa gli elementi da cui è possibile desumere la permanenza delle ragioni di ordine e di sicurezza in relazione ai pericoli derivanti dalla capacità del condannato di avere legami con la criminalità organizzata.

L’art. 41-bis ord. penit. introduce importanti novità circa le modalità di adozione del provvedimento, confermando la natura amministrativa dello stesso e ribadendo la titolarità in capo al Ministro di Giustizia per quanto concerne la sua motivazione. Nel medesimo articolo sono altresì contenute norme sul regime delle impugnazioni: è previsto che entro il termine di 10 giorni dalla comunicazione relativa al decreto applicativo dell’articolo 41-bis, l’interessato o il suo difensore possono proporre reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto penitenziario e poiché, il decreto è immediatamente efficace, il reclamo proposto non comporta la sospensione dell’efficacia. Inoltre, nei successivi dieci giorni dal ricevimento del reclamo, il tribunale deve verificare la sussistenza dei presupposti per  l’adozione del provvedimento, nonché la congruità del contenuto rispetto alle esigenze di cui al secondo comma. La decisione è presa con un provvedimento avente la forma dell’ordinanza resa in camera di consiglio secondo le regole procedurali previste dagli articoli 666[35] e 678[36] del codice di procedura penale e negli ulteriori dieci giorni successivi dalla comunicazione dell’ordinanza del tribunale di sorveglianza, l’interessato e il difensore possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge, secondo quanto disposto dall’articolo 111 della Costituzione.

Al contempo, la medesima legge ha introdotto il comma 2-quater all’articolo 41-bis, il quale disciplina le misure applicabili, cioè: a) misure di alta sicurezza interna ed esterna idonee a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, contrasti o interazioni con membri di altre organizzazioni; b) la determinazione dei colloqui nel numero di uno al mese da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. Sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali determinati dal direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado; i colloqui sono sottoposti a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente; per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente e solo dopo i primi sei mesi di applicazione, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto a registrazione; inoltre i colloqui sono videoregistrati e queste disposizioni non si applicano ai colloqui con i difensori con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari; c)  limitazione del peculio, di beni ed oggetti ricevibili dall’esterno; d) esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati; e) sottoposizione al visto di censura sulla corrispondenza, esclusa quella inviata ad autorità nazionali o europee competenti in materia di giustizia, individuate dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; f) limitazione della permanenza all’aperto, che non potrà svolgersi in gruppi di più di cinque persone e superare le due ore al giorno.

La legge non si è limitata a disciplinare solo il regime di cui all’art 41-bis ord. penit. in quanto si è occupata anche dell’art. 4-bis ord. penit. attraverso un intervento volto ad estendere l’elenco dei delitti ostativi alla concessione dei benefici penitenziari in mancanza di collaborazione; in particolare, il regime penitenziario destinato ai detenuti per fatti di criminalità organizzata ha come principale obiettivo quello di ottenere la collaborazione e di conseguenza, questa diviene lo strumento attraverso il quale entrare nel sistema di trattamento ordinario e dei benefici[37].

Per concludere l’analisi di questo intervento normativo, è necessario affermare come l’articolo 3 di questa legge abbia conferito definitività e stabilità alle norme, affermando che a causa della continua e perpetrata necessità di sicurezza, la situazione non potesse più essere qualificata come “emergenziale”; c’è da dire però, che questa precisazione ha rappresentato solo un consolidamento di una realtà già emergente dalle plurime proroghe circa l’efficacia della disposizione. Dunque, l’intervento normativo è indice di un duplice aspetto consolidatosi nella prassi: il primo, manifesta una crescente sfiducia da parte del legislatore e dell’amministrazione penitenziaria negli strumenti ordinari previsti dalla legge che, per l’appunto, erano considerati inidonei a far fronte alla pericolosità di alcune categorie di soggetti; il secondo aspetto, invece, rappresenta l’intento di mantenere alta l’attenzione di fronte a delitti di particolare allarme sociale[38].

4.2. La legge 15 luglio 2009, n. 94[39],  e la formulazione attuale del 41-bis.

L’intervento normativo del 2009 recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica» ha modificato il secondo comma dell’art. 41-bis ord. penit. e si caratterizza per essere un insieme di misure volte a soddisfare la richiesta di sicurezza, accentuando il sistema del doppio binario penitenziario, volto a contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso, nella prospettiva di inasprire il regime e di ampliarne l’ambito operativo per «rendere ancora più difficile ai detenuti la possibilità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza». Ciò è stato effettuato annullando le interpretazioni più garantiste offerte dalla giurisprudenza, uniformando le prescrizioni del decreto ministeriale per  tutti i detenuti a cui questo provvedimento si riferisce e, infine, attribuendo la competenza territoriale, in materia di reclamo, al Tribunale di sorveglianza di Roma[40].

In particolare, la legge 15 luglio 2009, n. 94 ha precisato che nel caso di unificazione di pene concorrenti o di più titoli di custodia cautelare, il regime previsto dall’art. 41-bis ord. penit. può essere disposto anche qualora sia stata espiata una parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati dall’art. 4-bis ord. penit[41].

Le modifiche introdotte nel 2009 hanno inciso sul contenuto del provvedimento sospensivo delle regole trattamentali delineato nel comma 2-quater, infatti la nuova formulazione precisa che i soggetti sottoposti al regime sono «ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria»[42].

Ma vi è di più, in quanto le modifiche apportate si muovono in più direzioni per far sì che le restrizioni indicate dall’art 2-quater siano disposte dopo un’analisi svolta sulla base di parametri diversi da quelli previsti per i detenuti in regime normale: dunque questa valutazione sarà rivolta all’individuazione del grado, dell’intensità delle esigenze, nonché della pericolosità del soggetto[43].

In primo luogo, l’intervento normativo del 2009 ha ridotto l’ambito discrezionale: ciò si evince nel secondo periodo del comma 2-quater, in cui si legge che la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti, di cui al secondo comma, «prevede»[44] l’adozione dei provvedimenti enunciati nelle lettere successive, indicando che devono essere imposte le limitazioni indicate nel comma in commento, dal momento che sono necessarie per soddisfare le esigenze di ordine e di sicurezza[45]. In relazione a quest’aspetto, la Corte costituzionale si è pronunciata affermando che deve sussistere un rapporto di congruità tra le restrizioni e la salvaguardia delle esigenze di cui sopra, con la conseguenza che dovrebbero essere espunte dal decreto ministeriale le limitazioni che non rispondono allo scopo perseguito dal legislatore e che non siano idonee a soddisfare le esigenze poste alla loro base[46]. In secondo luogo, sono state oggetto di modifica le singole regole di trattamento previste per queste particolari categorie di soggetti, con l’intento di recidere qualsiasi rapporto tra questi e le altre persone per evitare collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza.

Per tale ragione, le limitazioni introdotte agiscono su due versanti: da un lato, restringono i contatti con il mondo esterno all’ambiente penitenziario; dall’altro, sono volte a disciplinare la vita interna ai medesimi istituti.

Per quanto concerne l’aspetto relativo ai contatti con il mondo esterno viene novellata la disciplina relativa ai colloqui[47] che la l. n. 279/2002 disciplinava al comma 2-quater, lettera b).

Attualmente è previsto che si svolgano in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti e siano suscettibili di controllo auditivo e di registrazione; inoltre, sono autorizzati solo con familiari e conviventi in quanto sono esclusi quelli con i terzi[48]. A seguito delle modifiche è previsto che il numero dei colloqui è ridotto ad uno al mese, che divengono obbligatorie le modalità precedentemente indicate, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria procedente, a cui si aggiunge la videoregistrazione. I colloqui telefonici sono previsti per coloro che non effettuino colloqui diretti, purché siano decorsi sei mesi dalla sottoposizione al regime speciale, nella misura di uno al mese e per la durata di dieci minuti; sono registrati e anche in questo caso il presupposto necessario per la loro effettuazione è l’autorizzazione del direttore con provvedimento motivato.

La legge del 2009 si è occupata anche della disciplina relativa ai colloqui con i difensori in quanto ha previsto che con i difensori potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari[49]. Sulla materia è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 20 giugno 2013, n. 143[50] con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), ultimo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dall’art. 2 della legge 15 luglio 2009, n 94, limitatamente alle parole «con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari».

Per quanto concerne il versante relativo alla vita interna agli istituti carcerari, l’intervento del luglio 2009 ha avuto come obiettivo principale impedire, o almeno limitare, i contatti tra detenuti, disponendo che dovranno essere adottate le misure di sicurezza necessarie per garantire la «assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi».

Tra le novità introdotte da questa legge, vi è il comma 2 che ha abrogato il comma 2-ter dell’art. 41-bis ord. penit.[51] che imponeva al Ministro della Giustizia di provvedere alla revoca mediante un atto motivato quando, prima della scadenza, erano venute meno le condizioni che avevano legittimato l’adozione o la proroga del provvedimento[52]; tuttavia, il provvedimento che non accoglieva l’istanza di revoca proposta dal detenuto era suscettibile di reclamo, secondo quanto previsto dai commi 2-quinquies[53] e 2-sexies[54] del medesimo articolo.

Alla luce del comma 2-quinquies è previsto un doppio termine  rispetto a quello precedentemente indicato in vista di maggiori esigenze difensive, in quanto un termine più ampio consente all’interessato e al suo difensore di valutare in modo più ponderato la linea difensiva da adottare[55]; mentre, il comma 2-sexies prevede che le funzioni del pubblico ministero possono essere svolte non solo dal Procuratore generale presso la Corte d’appello, ma altresì da un rappresentante dell’ufficio del Procuratore della Repubblica, il quale procede alle indagini preliminari o presso il giudice procedente o il Procuratore nazionale antimafia: la previsione ha la finalità di attribuire ai rappresentanti del pubblico ministero la possibilità di partecipare all’udienza, mentre la partecipazione dell’interessato alle udienze avviene a distanza, secondo quanto previsto dal comma 2-septies.

L’obiettivo di questa disciplina sta nel tentativo di evitare contatti con il mondo esterno all’istituto di pena che potrebbero sorgere a causa della partecipazione all’udienza[56]: in quest’ottica si comprende come lo strumento della partecipazione a distanza sia concepito quale ulteriore misura preventiva[57], la cui ratio deve essere ricercata nell’esigenza di evitare che le traduzioni in udienza di questi soggetti, rese necessarie per garantire la loro presenza fisica, «pregiudichino l’effettività dei provvedimenti di sospensione delle ordinarie regole di trattamento»[58]. In particolare, la videoconferenza consiste in un collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e l’istituto di detenzione al fine di assicurare «la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto». Come disposto dall’art. 146-bis, comma 5, disp. att. c.p.p. il luogo dal quale l’imputato si collega in audiovisione è equiparato all’aula di udienza, infatti il comma successivo dispone che presso il luogo dal quale l’imputato partecipa a distanza è presente «un ausiliario abilitato ad assistere il giudice in udienza», designato dal giudice o, in caso di urgenza, dal presidente[59]. Sulla questione è intervenuta la legge 23 giugno 2017, n. 103, c.d. «Riforma Orlando», dal nome del Ministro proponente, che introduce «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario»: un aspetto di particolare interesse è la sostituzione del comma 1-bis dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., per effetto della quale è prevista come obbligatoria la partecipazione a distanza alle udienze dibattimentali riguardanti i processi nei quali è imputata una persona ammessa a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio. La  riscrittura del comma 1-bis ha eliminato il riferimento alla partecipazione a distanza nelle ipotesi in cui si proceda nei confronti di detenuti ai quali sono state applicate le misure di cui all’art. 41-bis ord. penit. e, a conferma del fatto che in questo caso opera il meccanismo in esame, basta esaminare il testo del successivo comma 1-ter, il quale ammette che il giudice possa derogare al meccanismo della partecipazione a distanza, disponendo la fisica presenza dei soggetti «ad esclusione del caso in cui sono state applicate le misure di cui all’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni», evidenziando in tal modo come per i soggetti detenuti ai sensi dell’art. 41-bis la partecipazione a distanza al dibattimento risulti assolutamente inderogabile[60].

Sebbene il processo a distanza sia notevolmente diverso rispetto a quello ordinario, sia la Corte costituzionale, che la Corte europea[61] si sono pronunciate in senso favorevole a quest’istituto in quanto entrambe hanno riconosciuto la compatibilità della partecipazione a distanza con il diritto inviolabile alla difesa, sottolineando la legittimità degli obiettivi  perseguiti dal legislatore[62].

5. Il rapporto con la Carta Costituzionale

Alla luce del percorso storico e delle modifiche esaminate nei paragrafi precedenti, attualmente l’art. 41-bis ord. penit. è collocato nel Capo IV titolo I della legge 26 luglio 1975, n. 354, intitolato «Regime penitenziario»[63].

È necessario analizzare il rapporto tra i diritti riconosciuti ai detenuti e i principi fondamentali contenuti nella nostra Costituzione, nonché alcune questioni di legittimità costituzionale[64].

Il faro dell’analisi è l’art. 27 Cost. il quale, oltre a prevedere al secondo comma, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, al comma successivo, sancisce che la finalità della detenzione deve essere la riabilitazione[65], pertanto deve fornire al detenuto tutti gli strumenti che gli consentano di essere riabilitato alla vita fuori dal carcere, in quanto l’ambizione è ottenere il c.d. «carcere dei diritti»[66]. Tuttavia, negli ultimi anni si sta sperimentando, iniziando dal sistema di «media sicurezza», un modello di carcere aperto caratterizzato dalla libertà di movimento dei detenuti all’interno della sezione in cui sono collocati in quanto si ritiene che questo sia il presupposto necessario per la costruzione del «carcere dei diritti», dal momento che il loro esercizio presuppone la libertà del detenuto all’interno delle mura dell’istituto di pena: è solo questa libertà che, aprendo ad un percorso di responsabilizzazione della persona, crea le condizioni necessarie per aprire la strada ad un percorso di risocializzazione del condannato.

Circa la questione della finalità rieducativa, si pose in sede di Assemblea costituente la questione della funzione da attribuire alla pena: gli orientamenti che emersero sono riconducibili alla Scuola classica e a quella Positiva: la prima riteneva che la sanzione dovesse intendersi come corrispettivo del male commesso, mentre al contrario, la seconda, sosteneva che la pena avrebbe dovuto favorire la rieducazione e la risocializzazione del condannato; tuttavia, in sede di elaborazione del testo finale, il principio rieducativo venne postposto al divieto di trattamenti disumani, divenendo oggetto di molteplici interpretazioni.[67] È solo con l’inizio degli anni Settanta che l’art. 27, terzo comma, Cost. iniziò a svolgere un ruolo fondamentale in tema di politica criminale, infatti il principio rieducativo venne concepito come un criterio a cui ispirare molte riforme legislative, tra cui una delle principali ha oggetto l’ordinamento penitenziario. Con la legge del 1975 e il suo regolamento di esecuzione sono state introdotte norme in tema di esecuzione delle misure privative della libertà personale e, dal punto di vista sostanziale, il carcere viene concepito come un luogo in cui il detenuto deve poter svolgere la propria personalità, pertanto elemento principale dell’esecuzione penale non è più il fatto-reato, ma il soggetto che deve essere sottoposto all’espiazione della pena in quanto autore del reato[68].

Da ciò è agevole concepire come a venire in rilievo è la centralità della persona e dei suoi diritti: in tale prospettiva una sentenza importante è stata pronunciata dalla Corte costituzionale l’11 febbraio 1999, n. 26 in cui si legge che «l’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguentemente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generale assoggettamento all’organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti»[69].

Questi principi hanno trovato riscontro nell’art. 1 della legge 26 luglio 1975, n. 354 che prevede che il trattamento penitenziario «deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona»: a questa previsione fanno da corollario molteplici principi in Costituzione[70].

In primo luogo, l’art. 1, comma 2, ord. penit. sancisce il principio di imparzialità nei riguardi di tutti i detenuti senza distinzione in ordine alla nazionalità, razza, alle condizioni economiche e sociali, ad opinioni politiche e credenze religiose; dunque, questo articolo rappresenta l’applicazione del principio di uguaglianza sancito all’art. 3 della Costituzione. In secondo luogo, viene in rilievo l’art. 3 ord. penit. il quale, garantendo il rispetto della parità di condizioni di vita negli istituti penitenziari, si ricollega all’art. 32, comma 3, ord. penit. che prevede che nessuno tra i detenuti può avere, nello svolgimento dei servizi all’interno dell’istituto, mansioni che determino un potere disciplinare e che consentano l’acquisizione di una posizione di supremazia sugli altri.

A parte il richiamo all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, vi sono molteplici diritti riconosciuti nella Costituzione che devono essere garantiti ai detenuti senza alcuna distinzione[71]: a) il diritto di difesa, previsto dall’art. 24, secondo comma, Cost. ritenuto un diritto inviolabile, pertanto trova applicazione anche nei confronti dei detenuti, esplicandosi nel diritto ad essere assistiti da un difensore di fiducia o d’ufficio[72]; b) il diritto alla salute, di cui all’art. 32 Cost., nella duplice forma del diritto ai trattamenti sanitari e del diritto a non essere curati; c) il diritto al lavoro a cui ne sono connessi altri, quali il diritto alla retribuzione, al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, sanciti dall’art. 36 Cost[73].

Al problema del riconoscimento dei diritti dei detenuti, si affianca quello della loro tutela giurisdizionale, attribuita alla magistratura di sorveglianza[74]. A tal proposito, è necessario ricordare come prima della riforma[75], il codice di procedura penale e l’ordinamento penitenziario prevedevano, al fine di tutelare i diritti dei detenuti, le seguenti procedure attivabili dinanzi al magistrato e al tribunale di sorveglianza: un procedimento giurisdizionale per reclamo, previsto dall’art. 14-ter ord. penit[76], al quale prendono parte la pubblica accusa e il difensore, ma non l’interessato[77], un procedimento de plano[78] ed infine, un procedimento di sorveglianza, previsto dall’art. 678 c.p.p, in cui sono garantite l’attività di accusa, di difesa e di autodifesa.

A fronte di molteplici moniti provenienti sia dalla Corte EDU, a partire dalla sentenza Torreggiani e altri c. Italia[79], che dalla Corte costituzionale, con le sentenze del 2013, nn. 135 e 279[80], il legislatore è intervenuto introducendo, attraverso il d.l. 143 del 2013, l’art. 35-bis ord. penit[81].

Le novità apportate con quest’intervento normativo hanno colmato una lacuna dell’ordinamento penitenziario, il quale non prevedeva alcun rimedio giurisdizionale che potesse essere esperito dai detenuti per constatare le violazioni dei propri diritti da parte dell’amministrazione penitenziaria; di conseguenza, l’introduzione di queste previsioni, sancendo il principio che impedisce di privare gli internati dei propri diritti fondamentali e dei rispettivi mezzi di tutela giurisdizionale, ha condotto al rafforzamento del ruolo del magistrato di sorveglianza, il quale può essere considerato non solo il giudice competente in materia di misure alternative, ma anche il garante della legalità all’interno degli istituti di pena[82].

In tema di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti, alla luce dei principi enunciati nella Costituzione, una strada che può essere percorsa è quella dell’attribuzione al giudice civile della cognizione relativa al danno provocato ai detenuti a causa delle condizioni in cui sono costretti ad espiare la pena, contrarie a quanto sancito nell’articolo 3 CEDU. Questa ipotesi originariamente è stata sostenuta dalla giurisprudenza di merito e, successivamente, ha ricevuto il sostegno della Corte di cassazione che ha affermato che la materia è di competenza degli organi della giurisdizione civile[83], consentendo il rispetto dell’art 13 CEDU[84].

Aderendo a questa prospettiva, si recupera la coerenza con il principio in virtù del quale «il giudice civile è il giudice generale dei diritti» intendendo con ciò che è questo il soggetto a cui è demandata la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali[85].

In seguito alla sentenza Torreggiani, il Governo italiano ha emanato il d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con l. 11 agosto 2014, n. 117, introducendo all’art. 35-ter ord. penit. due rimedi in favore dei soggetti che hanno subito «pene o trattamenti inumani o degradanti» ai sensi dell’art. 3 CEDU. Il primo rimedio, consiste in una «una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, ad un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio» e si basa sul presupposto per cui un soggetto ha trascorso «un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Inoltre, secondo parte della dottrina, sarebbe anche necessaria l’attualità e la gravità del pregiudizio: ciò si evince dal rimando del comma 1 dell’art. 35-ter ord. penit. all’art. 69, comma 6, lett. b)[86] e dell’assenza di un termine di decadenza relativo al rimedio della «riduzione della pena detentiva».

Oltre alla riduzione della pena è stato introdotto un rimedio di natura inibitoria: si tratta dell’art. 35-bis, comma 3, seconda proposizione[87], in virtù del quale il Magistrato di sorveglianza «accertate la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione di porre rimedio entro il termine indicato dal giudice».

La dottrina definisce tale rimedio «preventivo» in quanto presuppone «la sussistenza e attualità del pregiudizio», ma non richiede l’attualità e la gravità di un pericolo: dunque, si fonda su una lesione piena e continuativa di una posizione giuridica soggettiva, ma poiché tale rimedio ha ad oggetto la rimozione del pregiudizio in relazione al futuro, può essere considerato anche «inibitorio».

Inoltre, l’art. 35-ter ord. penit. ai commi successivi prevede altri rimedi che si differenziano in relazione ai presupposti e alla procedura.

In primo luogo, ai sensi del comma 2, prima proposizione, è previsto che ove il detenuto, pur avendo promosso dinanzi al Magistrato di sorveglianza l’azione di cui all’art. 35-ter, comma 1, ord. penit., al momento della decisione, non possa beneficiare della riduzione della pena, può ottenere «in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio». Allo stesso modo, il detenuto che si trovi ancora in carcere «nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sia stato inferiore ai quindici giorni», ha diritto al medesimo risarcimento ai sensi dell’art. 35-ter, comma 2, seconda proposizione, ord. penit., presentando la relativa richiesta al Magistrato di sorveglianza.

In secondo luogo, al comma 3 è previsto che coloro che abbiano subito il pregiudizio di cui all’art. 35-ter, comma 1, ord. penit. durante lo stato di «custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare», oppure che agiscano quando hanno «terminato di espiare la pena detentiva in carcere» hanno diritto a chiedere al giudice civile la medesima somma di denaro; inoltre, è previsto che «l’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere»[88].

Concludendo circa i rimedi di cui all’art. 35-ter ord. penit. si può affermare che la «riduzione della pena detentiva residua» è una novità che si colloca in ambito risarcitorio, così come le azioni a contenuto pecuniario previste dai commi 2 e 3; invece, per quanto concerne i detenuti che hanno subito «pene o trattamenti inumani e degradanti» prima dell’entrata in vigore dell’art. 35-ter ord. penit. che non hanno proposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, questi beneficiano dinanzi al giudice civile di un’azione risarcitoria ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c.[89] o ai sensi dell’art. 1218 c.c.[90], non sottoposta a termini di decadenza o limitazioni del quantum risarcibile[91].

Da ultima, è intervenuta la c.d. «Riforma Orlando», che si compone di un unico articolo e si occupa della riforma dell’ordinamento penitenziario al comma 85 e si muove lungo due linee direttrici: da un lato, la riduzione della pena carceraria e dall’altro, l’umanizzazione della pena.

Il primo obiettivo può essere raggiunto mediante l’estensione dei presupposti di accesso alle misure alternative e il superamento degli automatismi che impediscono di individualizzare il trattamento rieducativo; mentre per raggiungere il secondo obiettivo si fa riferimento alle modifiche funzionali volte a garantire che l’esecuzione della detenzione sul piano intramurario e nella fase di esecuzione all’esterno, avvenga nel rispetto dei diritti fondamentali della persona.

Tuttavia, la riforma del 2017 pone un ostacolo alla tendenza a cui facevo sopra riferimento e soprattutto ad un maggior riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, in quanto al comma 85, la delega risulta vincolata da una clausola di salvezza dell’attuale regime previsto per il c.d. «carcere duro»[92]. Infatti all’incipit dell’art. 1 comma 85, si legge che tutti gli interventi sull’ordinamento penitenziario dovranno realizzarsi «fermo restando quanto previsto dall’art. 41-bis»; dunque, questa riforma mira ad escludere in maniera assoluta coloro che sono sottoposti al regime detentivo speciale dalle modifiche relative al godimento dei diritti fondamentali, che in quanto tali e in ossequio alla Costituzione, devono essere fatti valere per tutti[93].

 

 

 


[1] Il Positivismo criminologico nasce come metodo basato sull’osservazione scientifica dei fatti, sulla comparazione, nonché sullo studio del comportamento umano e sociale. In particolare, la Scuola Positiva criminologica, opponendo alla libera volontà un determinismo rigoroso, enfatizza l’idea che molti comportamenti siano in funzione delle forze sociali esterne e che molti esseri umani siano influenzati nelle loro azioni da fattori sociali, culturali e biologici. Così, G. Marotta, Criminologia. Storia, teorie, metodi, Cedam, 2015, p. 133.
[2] G. Neppi Modona, Carcere e società civile, una prospettiva storica, in www.dirittopenitenziarioecostituzione.it, p. 6.
[3] G. Neppi Modona, cit., p. 7.
[4] Archivio di Stato, Il carcere e la pena, in www.ristretti.it, ottobre 2008.
[5] Il dibattito sull’art. 27, terzo comma, Cost. risultò impostato più sui principi in tema di finalità e funzioni della pena, piuttosto che sulle sue concrete modalità di esecuzione in carcere; in particolare, questo dibattito venne caratterizzato dalla paura che il richiamo alla finalità rieducativa della pena potesse essere interpretato come un’adesione alle impostazioni avanzate della scuola positiva. Alcuni emendamenti contengono richiami alle modalità di esecuzione della pena, all’esigenza che l’ambiente e il sistema carcerario siano conformi alla finalità di rieducazione del condannato, ma soprattutto rispettosi della dignità umana; M. Ruotolo (a cura di), Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU, Napoli, Editoriale scientifica, 2014, pp. 35 ss.
[6] Un terzo sono tossicodipendenti autori di reati connessi al loro stato; un terzo sono extracomunitari, per reati connessi con lo stato di clandestinità e con l’inosservanza dell’ordine di espulsione; infine, un terzo sono detenuti non appartenenti alle prime due categorie, divisi tra i detenuti condannati per i reati della delinquenza individuale, nei cui confronti potrebbero essere attuati programmi di trattamento individualizzati volti al reinserimento sociale e i detenuti condannati per reati della criminalità organizzata, divisi tra quelli sottoposti alla sorveglianza speciale ex art. 41-bis ord. penit. e collaboratori di giustizia. G. Neppi modona, Carcere e società civile, una prospettiva storica, cit., p. 15.
[7] G. Neppi Modona, voce Ordinamento penitenziario, in Dig. disc. pen., vol. IX, Utet, 1995, p. 52.
[8] L. Cesaris, Art. 41-bis, in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Milano, Cedam, 2011, p.  452.
[9] B. Bocchini, voce Carceri e sistema penitenziario, in Dig. disc. pen., tomo I, agg., Torino, Utet, 2000, pp. 122 ss.
[10] In argomento v. M. Pavarini, (a cura di D. Bertaccini, B. Guazzaloca), Codice commentato dell’esecuzione penale, vol. I, Torino, Utet, 2002, p. 85; L. Cesaris, Art. 41-bis,  cit., p. 445.
[11] L’originaria formulazione dell’art. 41-bis  disponeva quanto segue: «In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto»; P. Corvi, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, Milano, Cedam, 2010, p. 32.
[12] S. Ardita, Il regime detentivo speciale dell’art 41-bis, Milano, Giuffrè, 2007, p. 8.
[13] G. Melchiorre Napoli, L. Fornari, Il regime penitenziario, Milano, Giuffrè, 2012, p. 201; S. Ardita, Il regime detentivo speciale art 41-bis, cit., p. 9.
[14] S. Ardita, Il regime detentivo speciale art 41-bis, cit., p. 12.
[15] L. Filippi, G. Spangher, Manuale di diritto penitenziario,  III ed., Milano, Giuffrè, 2011, p. 193.
[16] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 446.
[17] M. Pavarini, Codice commentato dell’esecuzione penale, cit., p. 86; L. Cesaris, Art. 41bis, in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, cit., p. 446.
[18] Il decreto recava «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa».
[19] Art. 41-bis, 2 comma, ord. penit.: «Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis, o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente.
In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis».
[20] P. Corvi, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 30.
[21] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 445.
[22] L’efficacia dell’art. 41-bis, comma 2, ord. penit. è stata prorogata dalla legge 16 febbraio 1995, n. 36 sino al 31 dicembre 1999, poi prorogata fino al 31 dicembre 2000 dall’art. 1 della legge 26 novembre 1999, n. 446 e, ulteriormente prorogata sino al 31 dicembre 2002 dall’art. 22 del d.l. 24 novembre 2001, n. 341, convertito nella legge 19 gennaio 2001, n. 4.
[23] B. Bocchini, voce Carceri e sistema penitenziario, cit., p. 123.
[24] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 447.
[25] M. Pavarini, Codice commentato dell’esecuzione penale, cit., p. 88.
[26] Il Comitato si avvale dello strumento del “rapporto” per indicare al Governo le considerazioni relative alle strutture visitate al fine di determinare dei mutamenti circa le condizioni all’interno degli istituti di pena e, dunque, per evitare le violazioni della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti, adottata nel 1987.
I poteri del Comitato consistono nella possibilità di effettuare visite nei luoghi in cui vi siano persone private della libertà personale al fine di verificare se la  detenzione avviene rispettando i requisiti minimi richiesti dalla normativa; al termine della visita ispettiva, l’organo ha il compito di sviluppare un rapporto in cui rende una dichiarazione di quanto osservato, che dovrà essere trasmesso allo Stato interessato; M. Ruotolo,  Dignità e carcere, Napoli, Editoriale scientifica, II ed., 2014,  p. 79.
[27] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 449.
[28] Attualmente l’art. 4-bis ord. penit. è contenuto nel capo intitolato «Principi direttivi» della legge sull’ordinamento penitenziario e disciplina il divieto di concessione dei benefici penitenziari; in argomento, v. L. Caraceni, C. Cesari, Art. 4-bis, in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Milano, Cedam, 2011, pp. 42 ss.
[29] F. Fiorentin, Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione, Normativa e giurisprudenza ragionata, Milano, Giuffrè, 2013, p. 437.
[30] C. cost., 5 dicembre 1997, n. 376, in www.cortecostituzionale.it.
[31] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 455.
[32] L. Filippi, G. Spangher,  Manuale di diritto penitenziario, cit., pp. 201 ss.
[33] Art. 27, secondo comma, Cost.: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».
[34] Cass., Sez. I pen., 6 ottobre 2011, n. 48396, in Dejure.
[35] L’articolo dispone quanto segue. «1. Il giudice dell’esecuzione procede a richiesta del pubblico ministero, dell’interessato o del difensore. Se la richiesta appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi, il giudice o il presidente del collegio, sentito il pubblico ministero, la dichiara inammissibile con decreto motivato, che è notificato entro cinque giorni all’interessato. Contro il decreto può essere proposto ricorso per cassazione. Salvo quanto previsto dal comma 2, il giudice o il presidente del collegio, designato il difensore di ufficio all’interessato che ne sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti e ai difensori. L’avviso è comunicato o notificato almeno dieci giorni prima della data predetta. Fino a cinque giorni prima dell’udienza possono essere depositate memorie in cancelleria. L’udienza si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero. L’interessato che ne fa richiesta è sentito personalmente; tuttavia, se è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, è sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, salvo che il giudice ritenga di disporre la traduzione. Il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio. Il giudice decide con ordinanza. Questa è comunicata o notificata senza ritardo alle parti e ai difensori, che possono proporre ricorso per cassazione. Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni sulle impugnazioni e quelle sul procedimento in camera di consiglio davanti alla corte di cassazione. Il ricorso non sospende l’esecuzione dell’ordinanza, a meno che il giudice che l’ha emessa disponga diversamente. Se l’interessato è infermo di mente, l’avviso previsto dal comma 3 è notificato anche al tutore o al curatore; se l’interessato ne è privo, il giudice o il presidente del collegio nomina un curatore provvisorio. Al tutore e al curatore competono gli stessi diritti dell’interessato. Il verbale di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva a norma dell’articolo 140 comma 2.»
[36] L’articolo 678 del codice di procedura penale dispone che «1. Salvo quanto stabilito dal successivo comma 1-bis, il tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza, e il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti ai ricoveri previsti dall’articolo 148 del codice penale, alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere procedono, a richiesta del pubblico ministero, dell’interessato, del difensore o di ufficio, a norma dell’articolo 666. Tuttavia, quando vi è motivo di dubitare dell’identità fisica di una persona, procedono a norma dell’articolo 667 comma 4.
1-bis. Il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti alla rateizzazione e alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito e alla esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata, ed il tribunale di sorveglianza, nelle materie relative alle richieste di riabilitazione ed alla valutazione sull’esito dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche in casi particolari, procedono a norma dell’articolo 667 comma 4.
2. Quando si procede nei confronti di persona sottoposta a osservazione scientifica della personalità, il giudice acquisisce la relativa documentazione e si avvale, se occorre, della consulenza dei tecnici del trattamento.
3. Le funzioni di pubblico ministero sono esercitate, davanti al tribunale di sorveglianza, dal procuratore generale presso la corte di appello e, davanti al magistrato di sorveglianza, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale della sede dell’ufficio di sorveglianza.
3-bis. Il tribunale di sorveglianza e il magistrato di sorveglianza, nelle materie di rispettiva competenza, quando provvedono su richieste di provvedimenti incidenti sulla libertà personale di condannati da Tribunali o Corti penali internazionali, danno immediata comunicazione della data dell’udienza e della pertinente documentazione al Ministro della giustizia, che tempestivamente ne informa il Ministro degli affari esteri e, qualora previsto da accordi internazionali, l’organismo che ha pronunciato la condanna».
[37] P. Corvi, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 34.
[38] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 450.
[39] Per la stesura di questo paragrafo mi sono avvalsa anche della video registrazione di “Carcere duro e diritti della persona: l’art. 41-bis ordinamento penitenziario: lezione di Maria Brucale“, registrato a Roma giovedì 27 ottobre 2016 presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza.
[40] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 451.
[41] Cass., Sez. V pen., 17 novembre 2009 ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. penit. con riferimento all’art. 3 Cost, nella parte in cui, in presenza di un cumulo complessivo di pene irrogate per reati che legittimano l’applicazione di questo regime e per altri reati, consente l’applicazione  del regime detentivo speciale al detenuto che abbia espiato parte della pena con riferimento alla prima tipologia di reati in quanto la funzione di quest’istituto è quella di impedire la commissioni di questi in futuro, a causa del possibile mantenimento di rapporti con la criminalità organizzata.
[42] L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 458.
[43] Questo è il motivo per il quale si tende a parlare di un decreto ministeriale sempre più «individualizzato»: L. Cesaris, Art. 41-bis, cit., p. 466.
[44] Il ridimensionamento dell’ambito discrezionale si evince anche dall’uso dell’espressione «prevede», anziché di quella «può comportare»: F. Fiorentin, Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione, Normativa e giurisprudenza ragionata, cit., p. 438.
[45] L. Filippi, G. Spangher, Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 212; F. Fiorentin, Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione, cit., p. 438.
[46] C. cost., 18 ottobre 1996, n. 351 e C. cost., 5 dicembre 1997, n. 376, in www.cortecostituzionale.it.
[47] La disciplina relativa ai colloqui è prevista dall’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, il quale rubricato «Colloqui, corrispondenza e informazione» dispone quanto segue: «1. I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, nonché con il garante dei diritti dei detenuti, anche al fine di compiere atti giuridici. I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia. Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari. L’amministrazione penitenziaria pone a disposizione dei detenuti e degli internati, che ne sono sprovvisti, gli oggetti di cancelleria necessari per la corrispondenza. Può essere autorizzata nei rapporti con i familiari e, in casi particolari, con terzi, corrispondenza telefonica con le modalità e le cautele previste dal regolamento. I detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione. [La corrispondenza dei singoli condannati o internati può essere sottoposta, con provvedimento motivato del magistrato di sorveglianza, a visto di controllo del direttore o di un appartenente all’amministrazione penitenziaria designato dallo stesso direttore.] Salvo quanto disposto dall’art. 18-bis, per gli imputati i permessi di colloquio fino alla pronuncia della sentenza di primo grado [la sottoposizione al visto di controllo sulla corrispondenza] e le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica sono di competenza dell’autorità giudiziaria, ai sensi di quanto stabilito nel secondo comma dell’articolo 11. Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado i permessi di colloquio sono di competenza del direttore dell’istituto. [Le dette autorità giudiziarie, nel disporre la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo, se non ritengono di provvedervi direttamente, possono delegare il controllo al direttore o a un appartenente alla amministrazione penitenziaria designato dallo stesso direttore. Le medesime autorità possono anche disporre limitazioni nella corrispondenza e nella ricezione della stampa]».
[48] A questa regola generale fanno eccezione i casi autorizzati dal direttore dell’istituto e per gli imputati fino alla sentenza di primo grado sono autorizzati dall’autorità giudiziaria competente.
[49] In base a quanto previsto, è stabilito che la durata massima è di un’ora per quanto concerne i colloqui visivi, e di dieci minuti per quelli telefonici.
[50] La questione di legittimità costituzionale dell’articolo in esame era stata sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Viterbo con un’ordinanza depositata in data 7 giugno 2012, per contrato con i principi enunciati negli artt. 3, 24 e 111, terzo comma, Cost., «nella parte in cui introduce limitazioni al diritto di espletamento dei colloqui con i difensori nei confronti dei detenuti sottoposti alla sospensione delle regole di trattamento ai sensi del medesimo articolo 41-bis».
[51] Il presente comma è stato abrogato dalla lettera e) del comma 25 dell’art. 2, l. 15 luglio 2009,  n. 94.
[52] L. Filippi, G. Spangher, Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 210.
[53] «Il detenuto o l’internato nei confronti del quale è stata disposta o prorogata l’applicazione del regime di cui al comma 2, ovvero il difensore, possono proporre reclamo avverso il procedimento applicativo. Il reclamo è presentato nel termine di venti giorni dalla comunicazione del provvedimento e su di esso è competente a decidere il tribunale di sorveglianza di Roma. Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento».
[54] «Il tribunale, entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo di cui al comma 2-quinquies, decide in camera di consiglio, nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento. All’udienza le funzioni di pubblico ministero possono essere altresì svolte da un rappresentante dell’ufficio del procuratore della Repubblica di cui al comma 2-bis o del procuratore nazionale antimafia. Il procuratore nazionale antimafia, il procuratore di cui al comma 2-bis, il Procuratore generale presso la Corte d’appello, il detenuto, l’internato o il difensore possono proporre, entro dieci giorni dalla sua comunicazione, ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del tribunale per violazione di legge. Il ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento ed è trasmesso senza ritardo alla Corte di cassazione. Se il reclamo viene accolto, il Ministro della giustizia, ove intenda disporre un nuovo provvedimento ai sensi del comma 2, deve, tenendo conto della decisione del tribunale di sorveglianza, evidenziare elementi nuovi o non valutati in sede di reclamo».
[55] L’ampliamento del termine può trovare fondamento nella disposizione che attribuisce la competenza a decidere al tribunale di sorveglianza di Roma in relazione a tutti i reclami, indipendentemente dal locus custodiae; P. Corvi, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 198.
[56] P. Corvi, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata,  cit., p. 174.
[57] A. Marandola, T. Bene (a cura di),  La riforma della giustizia penale, modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, Milano, Giuffré, 2017, p. 435.
[58] V., Fanchiotti, M., Miraglia (a cura di), Il contrasto alla criminalità organizzata, contributi di studio, Torino, Giappichelli, 2016, p. 161.
[59] A questo soggetto compete di attestare l’identità del soggetto e di verificare la mancanza di impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà a lui spettanti, dell’osservanza delle disposizioni relative alle modalità del collegamento ed alla riservatezza delle comunicazioni tra il legale ed il detenuto nonché, se ha luogo l’esame, delle cautele adottate al fine di assicurarne la regolarità, con riferimento al luogo ove si trova. Sul punto, G. Melchiorre Napoli, L. Fornari, Il regime penitenziario, cit., p. 240.
[60] P. Rivello, La disciplina della partecipazione a distanza al procedimento penale alla luce delle modifiche apportate dalla Riforma Orlando, in Dir. pen. cont., 7-8/2017, p. 143.
[61] La Corte costituzionale con la sentenza 22 luglio 1999,  n. 342  ha affermato che al fine di realizzare la partecipazione a distanza devono essere garantiti i mezzi idonei a realizzarla; mentre, la Corte EDU, 5 ottobre 2006, Marcello Viola c. Italia, ricorso n. 45106/04, dichiara che non sussiste la violazione dell’art. 6 par. 3 CEDU in caso di partecipazione all’udienza in videoconferenza.
[62] P. Corvi, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 178.
[63] Questo capo contiene le disposizioni previste dagli artt. 32-44 e, oltre alle situazioni di emergenza di cui all’art. 41-bis, disciplina le norme di condotta dei detenuti e degli internati, nonché l’obbligo al risarcimento del danno (art. 32), l’isolamento (art. 33), la perquisizione personale (art. 34), il diritto al reclamo (art. 35), il regime disciplinare (art 36), le ricompense (art. 37), le infrazioni disciplinari (art 38), le sanzioni disciplinari (art. 39), l’autorità competente a deliberare le sanzioni (art. 40), l’impiego della forza fisica e l’uso dei mezzi di coercizione (art. 41), i trasferimenti e le traduzioni (art. 42), le traduzioni (art. 42-bis), le dimissioni (art. 43) e infine, le nascite, i matrimoni e i decessi (art. 44).
[64] M. Ruotolo, Dignità e carcere, cit., p. 55.
[65] L’art. 27, terzo comma, Cost. dispone che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
[66] Questa è un’espressione di Lucia Castellano che indica la necessità dell’umanizzazione dell’esecuzione della pena detentiva, non perdendo di vista come l’obiettivo del percorso carcerario debba tendere alla riabilitazione e dunque la rieducazione del reo. In relazione v., L. Castellano, D. Di Stasio,  Diritti e castighi. Storia di umanità cancellata in carcere, Milano, Il saggiatore, 2009.
[67] La Commissione non prendeva posizione circa l’una o l’altra scuola, limitandosi a rilevare che «la società non deve rinunciare ad ogni sforzo, ad ogni mezzo, affinché colui che è caduto nelle maglie della giustizia, che deve essere giudicato, che deve essere anche condannato, dopo la condanna possa offrire della possibilità di rieducazione». Tuttavia l’Assemblea costituente, aderendo alla formulazione avanzata dalla Commissione, accolse l’idea che la pena non dovesse avere solo la finalità la rieducativa del reo, ma anche quella di incentivare in esso il processo rieducativo; fu principalmente questa la ragione per cui il Comitato di redazione, nella stesura finale del testo, accolse le indicazioni miranti a posporre l’ordine dei fattori, per cui, attualmente, il divieto di trattamenti inumani precede l’esigenza rieducativa del condannato; M. Ruotolo, Dignità e carcere, cit., pp. 38 ss.
[68] L’importanza della centralità dell’individuo e dei diritti ad esso riconosciuti  si evince soprattutto dalla circostanza che il legislatore si è avvalso di norme di rango costituzionale, consentendo l’intervento della Corte costituzionale sulle medesime norme. La figura del detenuto è posta al centro dell’esecuzione penitenziaria, infatti, le norme impongono agli operatori penitenziari un insieme di regole  di comportamento e di organizzazione, garantendo ai detenuti diritti, potestà e facoltà, che sono destinati ad essere rafforzati dal giudice costituzionale; R. Bifulco, A. Celotto,  M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Vol. I artt.1-54, Torino, Utet, 2006,  pp. 572 ss.
[69] La sentenza venne emessa dalla Corte costituzionale a seguito di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, 6 comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354.
Nella fattispecie, il magistrato di sorveglianza di Padova, chiamato a decidere sui reclami proposti da due detenuti, ai sensi dell’art. 35 della legge 26 luglio 1975, n. 354, in relazione ad una decisione della direzione dell’istituto penitenziario che impediva loro di ricevere riviste in abbonamento o da parte di familiari, in virtù del loro contenuto osceno, sollevò, con ordinanza del 2 gennaio 1998, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, 6 comma ord. penit., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. La Corte costituzionale concluse con la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale verso gli atti dell’amministrazione penitenziaria, considerati lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a limitazioni della libertà personale.
[70] S. Anastasia, Metamorfosi penitenziale. Carcere, pena e mutamento sociale, Roma, Ediesse, 2012, pp. 104 ss.
[71] L. Filippi, G. Spangher, Manuale di diritto penitenziario, cit., pp. 5 ss.
[72] C. cost., 3 luglio 1997, n. 212, in www.cortecostituzionale.it. La Corte ha pronunciato questa sentenza dopo che il Magistrato di sorveglianza di Brescia, con ordinanza, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 ord. penit. per contrasto con l’art. 24, secondo comma, Cost. «nella parte in cui non prevede il diritto del difensore del condannato definitivo detenuto, regolarmente nominato, a fruire di colloqui con le stesse modalità e nella stessa misura prevista, per gli imputati detenuti, dagli artt. 96 e seguenti c.p.p. (ed in particolare dall’art. 104 dello stesso codice)». Con la sentenza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo prima citato «nella parte in cui non prevede che il detenuto condannato in via definitiva ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena».
[73] La Corte costituzionale si è pronunciata in relazione a questo tema con la sentenza 22 maggio 2001, n. 158. Nel caso di specie, il magistrato di sorveglianza di Agrigento, ha sollevato questione di illegittimità costituzionale dell’art. 20, sedicesimo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, in riferimento agli artt. 36 e 27 Cost., nella parte in cui non riconosce il diritto alle ferie e all’indennità sostitutiva nei confronti del detenuto lavoratore. La Consulta dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’articolo nella parte in cui non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che presti la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione carceraria.
[74] M. Ruotolo, Dignità e carcere, cit., p. 63.
[75] La riforma è stata introdotta con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, noto come «Decreto svuota-carceri» e convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 10.
[76] L’art. 14-ter ord. penit. è rubricato «Reclamo» e dispone: «1. Avverso il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare può essere proposto dall’interessato reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento definitivo. Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento. Il tribunale di sorveglianza provvede con ordinanza in camera di consiglio entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo. Il procedimento si svolge con la partecipazione del difensore e del pubblico ministero. L’interessato e l’amministrazione penitenziaria possono presentare memorie. Per quanto non diversamente disposto si applicano le disposizioni del capo II-bis del titolo II».
[77] In relazione all’art 14-ter ord. penit. si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 23 novembre 1993, n. 410 mediante la quale ha affermato che nell’ambito dell’ordinamento penitenziario è previsto il «regime di sorveglianza speciale», che coincide con il regime speciale disciplinato dall’art. 41-bis, 2 comma, ord. penit.; infatti, in entrambe le ipotesi il potere esercitato è volto a consentire all’amministrazione penitenziaria di predisporre di uno strumento di rigore per fronte alla pericolosità di alcuni detenuti. Su queste basi, la Consulta ha riconosciuto un’identità di presupposti di queste due norme, in virtù della possibilità di applicare il regime di sorveglianza speciale a qualunque detenuto, sulla base dei comportamenti tenuti nell’istituto di pena o adottati quando era in stato di libertà. Su queste premesse è stata affermata la possibilità di un’applicazione mediante analogia dell’art. 14-ter ord. penit., consentendo l’estensione della tutela giurisdizionale all’art 41-bis.
[78] Oltre al procedimento di cui all’art. 14-ter ord. penit., le maggiori difficoltà riscontrate riguardavano il procedimento sui reclami proposti al magistrato di sorveglianza ai sensi dell’ex art. 35 ord. penit. qualora riguardino atti adottati dall’amministrazione penitenziaria considerati lesivi dei diritti dei detenuti. La mancanza di una garanzia giurisdizionale in questa prospettiva ha dato luogo alla sentenza della Corte costituzionale 26 del 1999 con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità per omissione, dovuta ad una mancata previsione negli artt. 35 e 69 ord. penit. di forme di tutela giurisdizionale.
[79] Con la sentenza Torreggiani e altri c. Italia (ricorsi nn. 4357/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10) adottata  l’8 gennaio 2013, lo Stato italiano è stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che pone il divieto di torture  trattamenti inumani e degradanti.
Il ricorso che ha originato la c.d. «sentenza pilota» è stato presentato da sette ricorrenti detenuti presso il carcere di Busto Arsizio e di Piacenza: in particolare, il ricorrente Torreggiani era ristretto presso il carcere di Busto Arsizio ed era costretto a vivere per 19 ore al giorno, in una cella di 9 mq ridotti dalla presenza di mobilio, avendo a disposizione per dormire il terzo piano di un letto a castello, distante dal soffitto solo 50 cm. Tuttavia, questa sentenza trova un precedente nella sentenza emessa dalla medesima Corte il 16 luglio 2009, pronunciata nel caso Sulejmanovic c. Italia (Corte EDU, 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia, ricorso n. 22635/03): in quest’ultimo caso, la maggioranza della Corte aveva accertato che la permanenza del ricorrente nella cella del carcere romano Rebibbia di poco più di 16 mq insieme ad altri cinque detenuti, costituiva un trattamento contrario all’art. 3 CEDU.
[80] Queste due sentenze pronunciate dalla Corte costituzionale sono molto importanti in quanto con la sentenza 3 giugno 2013, n. 135 si dichiara che l’amministrazione penitenziaria non si può rifiutare di ottemperare ad una decisione adottata dal magistrato di sorveglianza con la quale abbia rilevato la lesione di un diritto del detenuto. Nella sentenza 22 novembre 2013, n. 279 si legge che «il legislatore, per porre termine ad ambiguità dell’ordinamento penitenziario, dovrebbe completare il sistema apprestando idonei strumenti esecutivi in modo da rendere certa l’ottemperanza dell’amministrazione alle decisioni della magistratura di sorveglianza».
[81] In virtù dell’art. 35-bis è previsto che: a) il procedimento è modulato secondo il modello del contraddittorio, disciplinato dagli articoli 666 e 678 c.p.p., riconoscendo all’amministrazione il diritto di comparire o di trasmettere osservazioni o richieste; b) le decisioni sono soggette al reclamo al tribunale di sorveglianza entro il termine di quindici giorni e la pronuncia emessa da quest’ultimo organo è ricorribile per cassazione, limitatamente al vizio di violazione di legge, entro il termine prima indicato; c) ai sensi dell’articolo 69, 6 comma, lettera b) ord. penit., in ordine alla violazione dei diritti dei detenuti, nel caso in cui si accerti «la sussistenza e l’attualità del pregiudizio», il magistrato di sorveglianza fissa un termine entro il quale adempiere al fine di porvi rimedio.
[82] A. Della Bella,  Il carcere oggi: tra diritti negati e promesse di rieducazione, in Dir. pen. cont., 26 febbraio 2018, p. 45.
[83] Nella fattispecie, il Magistrato di sorveglianza di Catanzaro, con ordinanza datata 5 maggio 2012, dichiarava inammissibile il reclamo proposto dal detenuto Domenico Vizzari, ai sensi dell’art. 35 ord. penit., il quale, sosteneva che durante il periodo trascorso nell’istituto di pena, la sua detenzione fosse trascorsa in condizioni contrarie al principio enunciato dall’art. 3 CEDU a causa di spazi molto ristretti, inferiori ai limiti minimi; pertanto, con l’ordinanza, il ricorrente richiedeva che il Ministero della Giustizia fosse condannato al risarcimento del danno o ad un equo indennizzo in suo favore; Cass., Sez. I pen., 15 gennaio, 2013, n. 4772.
[84]  L’art. 13 CEDU, rubricato «Diritto ad un ricorso effettivo», sancisce il diritto di ogni persona «ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale» per tutelare le pretese risarcitorie della parte lesa da un provvedimento dell’amministrazione penitenziaria e l’esigenza dell’amministrazione di esercitare il proprio diritto di difesa.
[85] F. Fiorentin, Sullo stato della tutela dei diritti fondamentali all’interno delle carceri italiane, in Dir. pen. cont., 25 febbraio 2013, p. 8.
[86] Art. 69, comma 6, lett. b) ord. penit.: «Provvede a norma dell’articolo 35-bis sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti […] l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti».
[87] È stato inserito dall’art. 3, comma 1, lettera b) del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2014 n. 10; dispone che il Magistrato di sorveglianza «nelle ipotesi di cui all’articolo 69, comma 6, lettera b), accertate la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione di porre rimedio entro il termine indicato dal giudice».
[88] Competente a disporre il rimedio è il Tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza i danneggiati, che procede in composizione monocratica, secondo il rito in camera di consiglio e decide con decreto non reclamabile.
[89]L’art. 2043 c.c. rubricato «Risarcimento per fatto illecito» dispone che «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno»; invece l’art. 2059 c.c. rubricato «Danni non patrimoniali» dispone quanto segue: «Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge».
[90] L’art. 1218 c.c. rubricato «Responsabilità del debitore» prevede che: «Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
[91] C. Masieri, La natura dei rimedi di cui all’art. 35-ter ord. penit, in Dir. pen. cont., 22 luglio 2015.
[92] A. Marandola, T. Bene (a cura di), La riforma della giustizia penale, modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, cit.,  p. 416.
[93] A. Della Bella, Il carcere oggi: tra diritti negati e promesse di rieducazione, cit.,  p. 46.

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Ludovica Ionà

- Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi "Roma Tre", con tesi di laurea in diritto penale, dal titolo "L'art. 41-bis ord. penit.: il c.d. "carcere duro"". - Praticante avvocato abilitato al patrocinio.

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