L’art. 416-bis c.p. nuovamente al vaglio della Corte di Cassazione: la natura oggettiva del metodo mafioso
Con la sentenza n. 10255 del 16 marzo 2020 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sugli elementi costitutivi della fattispecie di stampo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p., norma introdotta nel “sistema” dei reati associativi dalla legge Rognoni-La Torre del 1982 per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà associative più complesse rispetto alle ordinarie associazioni criminali, storicamente dedite alla sopraffazione di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica.
In particolare, nella sentenza in commento, i Giudici di legittimità si sono interrogati sull’applicabilità della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. alle mafie diverse da quelle c.d. “storiche”, giungendo ad affermare che, per qualificare come mafiosa un’organizzazione criminale, va sempre accertata in concreto la sussistenza del metodo mafioso non potendosi considerare sufficiente la capacità potenziale di sprigionare la carica intimidatoria.
L’argomento in parola è destinato a trovare applicazione in riferimento a quei gruppi criminali “senza nome”, ossia quelle associazioni che, nonostante siano prive di un nomen e di una storia criminale, utilizzano gli stessi metodi e perseguono i medesimi interessi delle organizzazioni criminali di stampo mafioso già note.
La Cassazione, nel confermare la condanna per associazione di stampo mafioso nei confronti dell’organizzazione criminale capeggiata da Carmine Fasciani ed operante nel Municipio romano di Ostia, non si è limitata ad esaminare la pronunzia di merito, ma ha sapientemente scolpito un vademecum per un’applicazione ragionevole del delitto associativo alle formazioni criminali “autoctone”, quelle cioè per le quali non basta la parola “mafia” per identificarne il carattere penalmente significativo[1].
In particolare, i Giudici di legittimità si sono sforzati di conferire natura quanto più oggettivistica possibile alla verifica in ordine al ricorrere, nel caso concreto, degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice in parola. Operazione non priva di insidie invero, sol se si pensi agli scenari interpretativi dischiusi dalla tipizzazione normativa: non comportamenti individuali circoscritti bensì dinamiche collettive (perfino) socialmente rilevanti, tanto sul versante degli autori quanto su quello degli effetti delle condotte punibili. La sfida è duplice e in un certo senso virtuosamente contraddittoria: per un verso assumere a modello tipologico il background cognitivo accumulato in quasi quarant’anni di esperienza giudiziale, e per altro non lasciarsene condizionare troppo[2].
A tal proposito, i giudici ricordano anzitutto che “Il legislatore non si è limitato a “registrare” realtà (talvolta secolari) già presenti, come la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, la “Sacra corona unita”, ecc., da tempo dotate di un nomen (localisticamente connotativo – particolare importante perché evocativo del sincretismo che normativamente caratterizza il binomio associazione mafiosa e territorio), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio, e “fama” criminale da “spendere” come arma di pressione nei confronti dei consociati (tanto che con riferimento alle c.d. mafie locali il collegamento della nuova struttura con la casa madre e l’adozione di un modulo organizzativo che ne abbia i tratti distintivi possono costituire espressione della capacità di intimidazione; Sez. 5, n. 28722 del 24/5/2018, Rv. 273093; Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, Rv. 270290), ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire “parallelo”, destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni (anche straniere) che, malgrado prive di un nomen e di una “storia” criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note”[3].
Orbene, a fronte dell’eterogeneità dei metodi e degli scopi perseguiti dalle organizzazioni criminali (le quali, come noto, realizzano il loro programma criminale non solo commettendo delitti ma anche attraverso lo svolgimento di innumerevoli attività di per sé pienamente lecite, come cristallizzate nel terzo comma dell’art. 416-bis c.p. e consistenti nell’”acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”) e nell’impossibilità, quindi, di definire in maniera abbastanza esaustiva e tassativa il “tipo mafioso”, la Corte di Cassazione ha ritenuto di individuare il nucleo della fattispecie incriminatrice in esame nel terzo comma dell’art. 416-bis c.p. “laddove il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell’associazione mafiosa – in sostanza, quelle finalità che si qualificano solo se c’è uno specifico “metodo” che le alimenta – delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione associativa che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini. Per questo le associazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo “storico”, dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse “non basta la parola” (il nomen di mafia, camorra, ‘ndrangheta, ecc.); ed è evidente, che, in questa opera di ricostruzione, occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di “assimilazione” normativa alle mafie “storiche” che rende necessaria un’attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto “simmetrie” fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro.
Ciò che conta ai fini della riconduzione di un’organizzazione criminale nell’ambito dell’art. 416-bis c.p. è il “metodo mafioso” delineato nel primo comma, ai sensi del quale “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”.
La Corte di Cassazione, per qualificare concretamente il contenuto di quell’ambito operativo “parallelo” di cui si è detto, parte dal presupposto che il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. appartiene alla classe dei reati associativi a “struttura mista” – ovvero quei reati associativi che richiedono un quid pluris rispetto alla mera organizzazione in sé considerata costituito, appunto, dall’effettiva pratica del “metodo mafioso”, in ciò contrapponendosi all’associazione criminale “semplice” di cui all’art. 416 c.p. – per ribadire che “la fattispecie incriminatrice richiede per la sua integrazione un dato di «effettività»: nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di «possedere in concreto» quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso”. Tale “caratura oggettiva”, soggiunge la Corte, “vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale”, in quanto è proprio il metodo di cui l’associazione – per tipizzarsi – deve «avvalersi» a convincere del fatto che l’intimidazione e l’assoggettamento omertoso che ne devono derivare, rappresentano in sé un «fatto» che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori «danni» scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine”.
Tale inquadramento è senz’altro apprezzabile giacché è maggiormente conforme ai principi costituzionali, ancorandosi fedelmente ai principi cardine di tipicità, proporzionalità ed offensività che permeano il diritto penale italiano.
Ed invero, in ossequio ai principi di proporzionalità ed offensività, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 416-bis c.p. necessita di un quid pluris – che, come detto, consiste nell’estrinsecazione del metodo mafioso da cui discendono assoggettamento ed omertà – che si sommi alle modalità organizzative e programmatiche dell’organizzazione.
La necessità di una verifica in concreto del metodo mafioso trova altresì fondamento nel principio di legalità penale e, in particolare, in uno dei suoi corollari, rappresentato dal principio di tassatività o sufficiente determinatezza: una fattispecie penale che dovesse incentrare il suo disvalore su elementi di tipo psicologico, che non si esteriorizzano e che, come tali, non siano accertabili o suscettibili di prova, non sarebbe conforme al principio di precisione e determinatezza, così come definito dalla Corte costituzionale[4].
Peraltro, va rilevato come il fatto di ancorare il ricorrere della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. alla verifica in concreto del “metodo mafioso” – quale elemento oggettivamente riscontrabile – significa porre un argine a derive meramente soggettivistiche, sulla falsariga di modelli di “tipo d’autore”, ormai preclusi al sistema.
Dunque, l’impiego del “metodo mafioso” deve andare “al di là di una dichiarazione di intenti […] Non è la “mafiosità” del singolo o dei singoli a qualificare, in sé, l’associazione; ma è il “modo di essere e di fare” che individua il tratto che rende quella associazione “speciale” rispetto alla comune associazione per delinquere, e che rappresenta il coefficiente di disvalore aggiunto che giustifica – anche sul piano costituzionale – l’assai più grave trattamento sanzionatorio”.
Proprio per valorizzare il principio di determinatezza quale “provabilità” in concreto del tipo criminoso, la Cassazione afferma che è proprio la “prospettiva oggettivistica e materiale a consentire al reato di sottrarsi alla censura di fattispecie sociologicamente orientata, poiché “quei profili lato sensu ambientali connessi al metodo mafioso, assumono i caratteri del «fatto», che deve formare oggetto, naturalmente di prova adeguata”. E in quest’ottica si ribadisce che “assoggettamento e omertà rappresentano gli eventi che devono scaturire dall’intimidazione: «fatti», quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale”.
Così esprimendosi, la Corte di Cassazione scongiura derive letterarie nell’approccio giudiziario al problema probatorio, derive invero tutt’altro che rare nella prassi corrente. Quel che occorre, semmai, è un adeguamento degli standard valutativi con riguardo, in particolare, alla forza di intimidazione dispiegata da organizzazioni criminali comunque di ridotte dimensioni e senza pedigree, in modo da evitare, raccomanda la Cassazione, “gli opposti estremi: da un lato, un effetto totalizzante, di coazione che coinvolga l’intera popolazione di un determinato territorio; dall’altro, quello della micro-entità associativa, che opera in una prospettiva poco più che individuale [5].
I Giudici di legittimità hanno condiviso l’assunto, contenuto nella sentenza n. 41772/2017 della Corte di Cassazione, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso con riguardo alle c.d. “mafie non tradizionali” è necessario che l’associazione abbia già conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio. Gli eventuali atti di violenza e minaccia posti in essere da un’associazione di nuova formazione al fine di acquisire sul territorio la capacità di intimidazione, in quanto precedenti all’assoggettamento omertoso della popolazione e strumentali a strutturare il prestigio criminale del gruppo, sono atti esterni ed antecedenti rispetto alla configurazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p. D’altra parte, si è pure affermato che la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale [6].
Forza intimidatrice, dunque, “a forma libera”, dal momento che è proprio la complessità delle dinamiche sociali a richiedere una “flessibilità” delle tipologie espressive e delle forme d’intimidazione, le quali ben possono trascendere la vita e l’incolumità personale, per attingere direttamente la “persona”, con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale viene ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà. L’associazione di stampo mafioso, dunque, ineluttabilmente “incrocia”, compromettendoli, i diritti di libertà di un numero indeterminato di soggetti, dando ragione a quanti considerano, ormai, strutturalmente angusta la qualificazione del reato come delitto “semplicemente” contro l’ordine pubblico, arricchendosi il bene giuridico tutelato di altri interessi meritevoli di tutela, quali l’ordine pubblico economico e l’esercizio di diritti e libertà costituzionalmente garantiti.
Alla luce dei principi elaborati, il giudice è tenuto ad accertare il carattere mafioso dell’associazione criminale. A tal fine, i Giudici di legittimità hanno individuato degli indici di presunzione della connotazione mafiosa dell’associazione, quali l’intensità del vincolo di assoggettamento omertoso, gli specifici settori in cui l’attività viene svolta, le forme di manifestazione e la natura degli strumenti intimidatori adottati, l’estensione dell’area in cui il sodalizio dispiega la sua egemonia, la tipologia e la diversità dei settori illeciti di interesse, l’estrinsecazione del potere decisionale e la sottomissione delle controparti professionali ed istituzionali.
Ebbene, la Corte ha ravvisato nel clan Fasciani gli indici descritti, precisando che l’evoluzione, nella struttura e nei metodi, che l’associazione criminale ha subito ha determinato la “trasmigrazione di fattispecie giuridica: dalla semplice associazione per delinquere al raggiungimento di quel quid pluris che ne ha permesso l’inquadramento in quella di tipo mafioso”.
Verificata la legittimità della decisione di merito, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per associazione di stampo mafioso nei confronti del clan Fasciani, affermando che “la città di Roma ha conosciuto l’esistenza di una presenza «mafiosa» sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento”.
[1] C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone, in Sist. Pen., 24 marzo 2020.
[2] C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone, cit.
[3] Cass. pen., Sez. II, 16 marzo 2020 (ud. 29 novembre 2019), n. 10255.
[4] Corte cost., n. 96/1981, sul delitto di plagio e la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 603 c.p. per difetto di determinatezza.
[5] C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone, cit.
[6] Cass. pen., sez. VI, n. 41772/2017.
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Roberta Aleo
Nasce a Palermo nel 1991. Dopo la maturità classica si laurea nel 2017 in Giurisprudenza presentando una tesi sperimentale dal titolo "Le strutture investigative di contrasto alla criminalità organizzata".
Nel 2019 consegue il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali presentando una tesi dal titolo "Rapporti tra carcere duro ed esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti".
Tirocinante presso il Tribunale e la Procura della Repubblica ed abilitata all'esercizio della professione forense, collabora alla stesura di testi ed articoli giuridici con riviste scientifiche e studi legali.
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