L’art. 42-bis d.P.R. 327/2001: l’utilizzazione sine titulo di un bene per scopi di interesse pubblico
L’espropriazione per pubblica utilità è un tema che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è trovato a dover fronteggiare in tre diverse occasioni nei primi mesi del 2020. Sotto la lente di ingrandimento dei giudici di Palazzo Spada è finito in particolare l’art. 42bis del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, norma introdotta nel testo unico delle espropriazioni dall’art. 34, comma 1, L. 15 luglio 2011, n. 111 dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 TUEs al fine di offrire una base legale alla fattispecie della c.d. espropriazione sanante.
Le pronunce di rilievo sono ben tre, e corrispondono ai provvedimenti nn. 2 del 20/01/2020, 3 del 20/01/2020 e 5 del 18/02/2020. Mentre le prime due affrontano il tema della rinuncia abdicativa, la terza si concentra sulla natura dell’espropriazione sanante come norma generale e di chiusura della disciplina. Quest’ultima, seppur temporalmente successiva, va quindi logicamente preposta nell’analisi che segue.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 5/2020 ha risolto le questioni che sono originate da una vicenda che può così essere sintetizzata: un’Amministrazione comunale e un privato concludono un contratto per la vendita di un terreno su cui la prima poi realizza un’opera pubblica; a seguito di un giudizio civile tra le parti il contratto di vendita viene dichiarato nullo e si ordina all’Amministrazione la restituzione del terreno al privato; il comune, non ottemperando all’ordine dell’autorità giudiziaria, emana un atto di dichiarazione di pubblica utilità e di imposizione di una servitù di passaggio sull’area in oggetto.
Il collegio, chiamato a stabilire se il giudicato civile intervenuto a ordinare la restituzione dell’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, ha anzitutto dovuto affrontare il problema dell’applicabilità o meno dell’art. 42bis DPR n. 327/2001 anche al di fuori dei casi in cui vi sia stato un procedimento espropriativo e questo non si sia concluso o si sia concluso con un provvedimento poi annullato dal giudice amministrativo.
La sentenza di primo grado avevo a tal proposito ritenuto che l’art. 42bis potesse applicarsi solo nelle ipotesi in cui l’Amministrazione agisse in via autoritativa e non anche qualora agisse in veste di privato. Di tutt’altro avviso il Consiglio di Stato, il quale ha invece ritenuto l’art. 42bis una norma di chiusura del sistema, applicabile a tutti i casi in cui un bene immobile, che si trovi sine titulo nella disponibilità dell’Amministrazione, sia stato da questa utilizzato (o sia da questa in corso di utilizzazione), e dunque modificato nella sua consistenza materiale, per finalità di pubblico interesse.
A sostegno di questa tesi vengono dedotte sia ragioni di carattere letterale che sistematico. Sotto il primo profilo rileva anzitutto la stessa rubrica dell’art. 42bis che non sembra limitare in alcun modo il suo ambito applicativo ai soli atti di tipo ablatorio, suggerendo pertanto un rimedio generale. Identica osservazione può essere fatta con riguardo al primo comma del medesimo articolo dove è evidente che ci si riferisca a tutti i casi in cui l’Amministrazione utilizzi il bene senza un titolo valido. Lo stesso può dirsi per i commi successivi laddove non sembra potersi rinvenire alcuna restrizione all’applicabilità della norma.
La tesi più espansiva risulta peraltro coerente con un inquadramento logico-sistematico della norma. Se è vero che l’art. 42bis richiede che l’utilizzazione sine titulo del bene sia intervenuta per scopi di interesse pubblico, è altrettanto vero che l’attività della pubblica amministrazione risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela, perseguimento dell’interesse pubblico, sia quando vengono esercitati poteri pubblici sia quando vengono adoperati strumenti di diritto privato. Conferma di ciò è l’art. 1 L. 7 agosto 1990 n. 241, per il quale l’attività amministrativa, che è unica e persegue un’unica causa (il soddisfacimento dell’interesse pubblico generale), trova esecuzione tanto per mezzo dell’esercizio di poteri autoritativi che tramite gli istituti di diritto privato.
Viene pertanto ribadito il concetto di immanenza dell’interesse pubblico, che, in altre occasioni[1], ha condotto il Consiglio di Stato a riconoscere come l’Amministrazione mantenga la sua tradizionale posizione di supremazia anche negli accordi stretti con i privati (art. 11 L. 241/1990). La natura di questi strumenti, come nel caso in esame, non è meramente civilistica, essendo essi inseriti in un quadro che, pur non caratterizzato dallo svolgimento di un procedimento amministrativo o in sostituzione di questo, risulta tuttavia già delineato dal precedente esercizio di poteri pubblici, con i quali si è già provveduto ad individuare le finalità di pubblico interesse da perseguire. La finalità di interesse pubblico abbraccia sia il contratto che il rapporto che ne deriva, e la natura del potere esercitato dall’Amministrazione rimane costante. Non vi sarebbe perciò alcun mutamento contrario ai principi costituzionali e sovrannazionali laddove l’Amministrazione passasse dall’adozione di strumenti civilistici all’esercizio di poteri autoritativi, perché in entrambi i momenti del rapporto perseguirebbe le medesime finalità di interesse pubblico.
Per queste ragioni l’Adunanza Plenaria formula il seguente principio di diritto: “l’art. 42 bis del DPR 8 giugno 2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’Amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene” (nel caso esaminato, perciò anche nell’ipotesi in cui l’Amministrazione perda la disponibilità del bene per vicende inerenti alla validità ed efficacia del contratto di compravendita).
Ulteriore quesito è se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.
A tal fine vengono richiamate due importanti pronunce: Corte Cost. 30 aprile 2015 n. 71 e Ad. Plenaria 9 febbraio 2016 n. 2. In entrambe viene affermato il principio per cui l’acquisto della proprietà del bene da parte della pubblica amministrazione avviene ex nunc, solo al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione, in ciò distinguendosi l’art. 42bis dall’art. 43 del medesimo testo legislativo.
Mentre l’art. 43 prevedeva un generalizzato potere di sanatoria, l’art. 42bis “configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo”[2].
Va quindi riconosciuta l’impossibilità per l’Amministrazione di provvedere all’acquisizione del bene utilizzato sine titulo in presenza di un giudicato che abbia espressamente disposto la restituzione del bene. Ciò vale però per il solo provvedimento di acquisizione del bene alla proprietà pubblica e non anche per il provvedimento di cui al comma 6 del medesimo art. 42bis, il quale disponendo l’imposizione di servitù, e perciò mantenendo intatto il diritto di proprietà del privato, non contrasta col giudicato restitutorio.
In definitiva l’Adunanza Plenaria fissa in questa occasione due importanti principi sull’ambito applicativo dell’art. 42bis: lo strumento descritto dalla norma è applicabile in tutte le ipotesi in cui l’Amministrazione, per scopi di interesse pubblico, abbia utilizzato senza una giustificazione un bene del privato, essendo indifferente che il rapporto sia stato instaurato grazie a strumenti di diritto civile ovvero mediante l’esercizio di poteri autoritativi; il giudicato che imponga la restituzione del bene al privato, impedisce alla PA di disporre un provvedimento acquisitivo ex art. 42bis comma 2, ma non di imporre sul bene una servitù (art. 42bis comma 6).
Nelle pronunce dell’Adunanza Plenaria n. 2/2020 e n. 3/2020 viene, invece, affrontato il tema della configurabilità, nel nostro ordinamento giuridico, della rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo.
La rinuncia abdicativa è oggetto di vivace dibattito in diversi settori dell’ordinamento. Rappresenta un negozio unilaterale, non recettizio, tramite il quale un soggetto abdica a un proprio diritto patrimoniale, senza che però ciò comporti di per sé il trasferimento del diritto (si parlerebbe diversamente di rinuncia traslativa) o l’estinzione dello stesso. Oggetto delle pronunce in oggetto è la fattispecie più specifica della rinuncia abdicativa e del suo riconoscimento in materia di espropriazione.
L’istituto, di origine pretoria e molto simile alla c.d. occupazione “appropriativa” (ritenuta illegittima dalla Corte EDU), offre notevoli vantaggi per il privato. Garantisce anzitutto la tutela del principio costituzionale della concentrazione della tutela (ricavabile dall’art. 111 Cost.) altrimenti pregiudicato dalla segmentazione del processo in una fase amministrativistica sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato. Inoltre, offre maggiori garanzie di compensare le utilità perdute dal privato, al quale viene corrisposto un risarcimento e non un semplice indennizzo.
Tuttavia, per diversi ordini di ragioni, la rinuncia abdicativa non può trovare dimora nella materia in oggetto, con conseguente necessaria applicazione dell’art. 42bis.
Anzitutto l’atto abdicativo non riesce a spiegare la vicenda traslativa in capo all’Amministrazione. Se infatti esso è di per sé astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà del bene da parte del privato, che quindi rinuncia alla restituzione del bene in cambio del risarcimento del danno subito, altrettanto non può dirsi per il trasferimento della proprietà medesima in capo all’Amministrazione.
L’effetto traslativo non può certo essere giustificato dalla norma contenuta nell’art. 827 c.c., il quale pur disponendo la spettanza allo Stato dei beni immobili di nessuno, non ne determina certo la proprietà in capo alla specifica Amministrazione. In altre parole, riferendoci alla norma civilistica si realizzerebbe un effetto del tutto estraneo al rapporto tra l’Amministrazione espropriante e il privato.
Nemmeno si può far discendere l’effetto traslativo dalla trascrizione della sentenza in cui venga disposto il risarcimento a favore del privato che abbia formulato rinuncia abdicativa. La trascrizione infatti varrebbe non a fondare i suddetti effetti reali, ma, qualora ci fossero, a garantirne l’opponibilità ai terzi.
A quanto detto va aggiunto che la rinuncia abdicativa, essendo implicitamente inserita nell’atto di ricorso, non viene effettuata da nessun soggetto legittimato a disporre della proprietà del bene. Posto che la disposizione del diritto reale in questione non viene effettuata dal proprietario personalmente, questa nemmeno viene effettuata da un soggetto dotato di idonea procura a vendere (certamente non rinvenibile nel mandato difensivo).
Né tantomeno può parlarsi della rinuncia abdicativa come atto implicito, dal momento che la relativa dogmatica si sviluppa intorno agli atti amministrativi e non agli atti del privato.
Risulta tuttavia assorbente la riserva di legge imposta dall’art. 42 Cost. sui modi di acquisto della proprietà e soprattutto sulle ipotesi in cui il bene del privato può essere espropriato, tra cui non compare la rinuncia abdicativa.
La vicenda oggetto delle sentenze esaminate trova invece una disciplina legale nell’art. 42bis del testo unico sulle espropriazioni, in cui vengono dettati i poteri e i doveri dell’Amministrazione. Quest’ultima qualora utilizzi sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato, con un procedimento d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), gli interessi in conflitto, deve adottare un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto.
In tal modo l’Amministrazione rimane vincolata all’esercizio di un potere, seppur discrezionale, scegliendo tra l’acquisizione del bene o la restituzione.
Tale potere di scelta spetta all’Amministrazione e non al privato, che non può quindi decidere le sorti del bene immobile, dichiarando di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene. Egli potrà suscitare una risposta dell’Amministrazione e, in caso di silenzio, agire in giudizio ex art. 117 c.p.a. In questo caso il giudice amministrativo può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42bis d.P.R. n. 327 del 2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato. In sostanza in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42bis.
In definitiva in materia di occupazione illegittima di un immobile da parte di una p.a., il trasferimento della proprietà del bene a quest’ultima non può essere l’effetto di una rinunzia abdicativa formulata dal soggetto privato, neppure sotto forma di domanda di risarcimento per il danno subito, atteso che una rigorosa applicazione del principio di legalità, affermato in materia dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede una base legale certa perché si determini l’acquisto della proprietà in capo all’espropriante, base legale che l’ordinamento individua esclusivamente nel provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 , ovvero in un contratto traslativo di natura transattiva.
Il collegio ha infine precisato in entrambe le pronunce che a coloro i quali hanno presentato domande conformi all’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente vengono in ogni caso riconosciuti strumenti quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3 c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
[1] Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2017 n. 2256; Cons. Stato, sez. IV, 19 agosto 2016 n. 3653; Cons. Stato, sez. IV, 3 dicembre 2015 n. 5510; Cons. Stato, sez. V, 5 dicembre 2013 n. 5786; Cons. Stato, sez. V, 14 ottobre 2013 n. 5000
[2] Ad. Plenaria 9 febbraio 2016 n. 2
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