L’art 615-ter c.p. e l’immobilismo di alcuni. Si attendono le Sezioni Unite
La giurisprudenza evolve continuamente. Tuttavia, alcuni operatori del diritto rimangono saldamente ancorati a vecchie posizioni e rifiutano, a volte davvero incomprensibilmente, ogni forma di cambiamento.
Prendiamo il caso dell’art. 615-ter c.p. Secondo il dictum delle Sezioni Unite, sentenza n. 4649 del 27/10/2011, dep. il 07/02/2012, Casani ed altri, Rv. 251269 “Integra il delitto previsto dall’art. 615 ter cod. pen. colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto, violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema“.
Dal 2012 ad oggi, tuttavia, le cose sono profondamente mutate. In questi cinque anni il mondo è andato avanti e l’orientamento delle Sezioni Unite è stato oggetto di profonda rimeditazione.
La giurisprudenza ha eroso piano piano quanto affermato dalle Sezioni Unite, precisando e specificando di volta in volta il principio ed ogni volta ampliandone l’ambito di applicazione.
Certamente ai fini della configurazione del delitto in questione rileva la mera violazione delle prescrizioni (legislative, regolamentari, deontologiche, interne o di contrattazione collettiva od individuale) per l’accesso ai sistemi informatici. Non anche i fatti successivi eventualmente integranti altro fatto di reato ovvero le finalità dell’agente, solo sintomatiche del dolo.
L’orientamento giurisprudenziale dominante ha, però, avuto modo di chiarire che costituiscono norme prescrittive dell’accesso ai sistemi informativi rilevanti ex art. 615-ter cit. non solo le disposizioni interne, variamente denominate. Rilevano, altresì, gli obblighi di rango legislativo di fedeltà del pubblico dipendente, di riservatezza, di buon andamento della pubblica amministrazione ed altre norme generali, per l’effetto che l’assenza di specifiche violazioni delle norme interne può non impedire l’integrazione del reato.
In realtà, ciò che emerge dalla applicazione concreta del principio affermato dalle Sezioni Unite, è la sussistenza di una ambiguità di fondo nella individuazione pratica e nell’applicazione del principio secondo cui, ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa in questione, non assumono rilievo alcuna gli scopi e le finalità che hanno motivato l’accesso, in quanto, approfondendo l’analisi dello specifico aspetto, va rilevato che l’uso delle informazioni acquisite fatto dall’agente – che rappresenta certamente un elemento estraneo alla fattispecie, inidoneo a delimitarne la portata e, al più, idoneo ad integrare una distinta ipotesi criminosa – è sicuramente concetto diverso dalla finalità che determina l’agente stesso.
In generale, infatti, la finalità della condotta, intesa come movente di qualsiasi azione umana, sicuramente non rientra nella struttura del reato, tutte le volte in cui non sia richiesto un dolo specifico per la integrazione della fattispecie; nondimeno essa può apparire illuminante ai fini della valutazione della illiceità della condotta stessa.
Più specificamente, Sez. 5, sentenza n. 10083 del 31/10/2014, dep. 10/03/2015, Gorziglia ed altro, Rv. 263454, ha affermato che “Ai fini della configurabilità del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico, nel caso di soggetto autorizzato, quel che rileva è il dato oggettivo dell’accesso e del trattenimento nel sistema informatico violando i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema o ponendo in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli sia incaricato e per le quali sia, pertanto, consentito l’accesso, con conseguente violazione del titolo legittimante l’accesso, mentre sono irrilevanti le finalità che lo abbiano motivato o che con esso siano perseguite“.
Inoltre, in Sez. 5, sentenza n. 6176 del 06/11/2015, dep. 15/02/2016, Russo, n. m., si legge che “invero, correttamente i giudici di merito hanno ravvisato nella fattispecie in esame gli estremi del reato in contestazione. In particolare, hanno accertato che l’odierno ricorrente aveva effettuato ripetuti accessi nel sistema informatico, cui era abilitato, ma per ragioni diverse dalle esigenze di polizia giudiziaria per le quali l’autorizzazione era stata concessa dal gestore dell’impianto“.
Analogamente in Sez. 5, sentenza n. 35127 del 19/04/2016, Papa, n.m., viene affermato che “Nel caso di specie, è stato – pacificamente – accertato che l’imputato aveva effettuato ripetuti accessi al sistema informatico in dotazione dell’ufficio di appartenenza, contravvenendo alle prescrizioni che ne disciplinano l’uso, limitandolo al solo, istituzionale, scopo di assumere informazioni per ragioni d’ufficio e non già per finalità ad esse estranee“.
Anche Sez. 5, sentenza n. 27883 del 09/02/2016, Leo ed altro, n. m., ha ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 615-ter cod. pen. in quanto “E’ risultato in via generale dalle sentenze di merito che l’autorizzazione all’accesso concerneva esclusivamente le specifiche ragioni di servizio e comportava espresso divieto di interrogazione del sistema su dati anagrafici e fiscali di soggetti diversi da quelli di loro interesse se non nei casi di effettiva necessità e comunque evidentemente previa autorizzazione da parte del dirigente preposto“.
Infine, in Sez. 5, sentenza n. 3818 del 29/09/2016, dep. 25/01/2017, Provenzano, n. m., si legge che “Ai fini dell’integrazione del reato risulta di immediata rilevanza se il soggetto, normalmente abilitato ad accedere nel sistema, abbia o meno operato l’accesso in questione nel rispetto delle prescrizioni che legittimano quell’attività (prescrizioni che, per un ufficiale di p.g., possono trovare presupposto nell’esistenza di indagini in corso o nel disbrigo di accertamenti istituzionali, non certo nella richiesta informale di chi, per quanto investito a sua volta di funzioni pubblicistiche, si rivolga a lui come privato cittadino)“.
La finalità della condotta, infatti, può sicuramente apparire rivelatrice del superamento dei limiti dell’autorizzazione all’accesso al sistema, manifestando un vero e proprio eccesso di potere o sviamento di potere, e, quindi, costituire elemento rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie.
Sotto detto aspetto, quindi, appare necessario distinguere la finalità della condotta, così come essa viene rivelata dalla commissione di una ulteriore attività, integrante una diversa ed autonoma fattispecie di reato, che, in realtà coincide con l’uso che l’agente fa delle informazioni acquisite all’esito dell’accesso abusivo nel sistema informatico, da tenere distinta dalla finalità della condotta rivelata dalle specifiche modalità dell’azione.
Invero, può dirsi invece che proprio la mancanza di una finalità coerente con il legittimo esercizio del potere per motivi di ufficio, da parte dell’agente, appaia rivelatrice del dolo dell’accesso abusivo nel sistema informatico.
D’altra parte non può dimenticarsi come la previsione dell’art. 615-ter c.p., comma 2, individui la sussistenza di una circostanza aggravante rispetto alla previsione generale, che è caratterizzata non solo dalla qualità soggettiva dell’agente – pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio – ma anche dall’abuso della qualità di operatore del sistema.
Il concetto stesso di abuso, infatti, evoca l’uso distorto di un potere che, attribuito al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per determinate finalità individuate dalla legge, venga esercitato in maniera non coerente con le predette finalità, ossia si risolva in un eccesso o in uno sviamento nell’esercizio del potere stesso.
Peraltro non può apparire irrilevante che il legislatore, nell’individuare la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ai sensi dell’art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, abbia alternativamente previsto la concretizzazione di detta condotta attraverso l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti la funzione o il servizio. Appare, cioè, evidente che il legislatore, nel delineare i caratteri salienti della condotta di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, abbia inteso chiaramente perseguire sia le condotte che si traducano in una palese violazione di un dovere – ossia una condotta che si manifesta ex se illecita nel momento in cui viene posta in essere, la sua stessa attuazione costituendo la violazione di un preciso dovere comportamentale rispetto al quale essa si pone in aperta e diretta violazione – sia le condotte che, formalmente in linea con i poteri attribuiti all’agente, costituiscano, tuttavia, un eccesso o uno sviamento del potere stesso, in quanto la loro manifestazione non risulta coerente con l’interesse pubblico per il raggiungimento del quale l’accesso al sistema è stato autorizzato; dette ultime condotte, infatti, appaiono addirittura più insidiose, oltre che altrettanto lesive, rispetto a quelle attuate in palese violazione di un dovere.
Recentemente, e più precisamente con la sentenza 12264/2017, la sezione Quinta della Cassazione ha rimesso la problematica alle Sezioni Unite chiedendo di esprimersi sul seguente quesito: “se il delitto previsto dall’art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, sia integrato anche dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, pur formalmente autorizzato all’accesso ad un sistema informatico o telematico, ponga in essere una condotta che concreti uno sviamento di potere, in quanto mirante al raggiungimento di un fine non istituzionale, e se, quindi, detta condotta, pur in assenza di violazione di specifiche disposizioni regolamentari ed organizzative, possa integrare l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri previsti dall’art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1“.
Sono passati cinque anni dalla sentenza delle Sezioni Unite ed un nuovo pronunciamento è imminente. Il mondo del diritto è chiaramente andato avanti.
È veramente un peccato constatare che, nonostante gli sforzi interpretativi di molti, alcuni magistrati, chiamati ad applicare le norme ai casi pratici che la vita presenta, continuino ad avallare orientamenti oramai superati ed ignorino completamente le evoluzioni che intanto vanno compiendosi.
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Avv. Giacomo Romano
Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.
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