L’articolo 2 della legge 241/90: la durata del procedimento amministrativo tra norma di comportamento e diritto soggettivo
La legge sul procedimento amministrativo ha per la prima volta introdotto termini precisi per la pubblica amministrazione per provvedere.
Tali termini non sono più intesi come mero valore comportamentale, ma come vera e propria fonte di diritti del cittadino-istante, prevedendo la norma più livelli di tutela e di risarcimento.
L’articolo 2 della legge 241/90 si occupa della “durata” del procedimento amministrativo.
Non si tratta tuttavia meramente di una norma tecnico-formale, ma è stata concepita per dare concreta realizzazione ad uno dei principi dell’articolo 1 ed in particolare al principio di celerità del procedimento che stabilisce il divieto per l’amministrazione di aggravare inutilmente il procedimento, se non per motivate esigenze legate al miglior perseguimento dell’interesse pubblico.
Viene fissato il principio secondo cui le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso. Persino qualora la domanda del privato appaia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata la P.A. è tenuta ad adottare un provvedimento espresso, permettendosi tuttavia una redazione in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo.
I termini di conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio, oppure dal momento in cui viene presentata la domanda del privato.
Di regola, il termine è di trenta giorni. In varie ipotesi i termini di conclusione del procedimento possono essere stabiliti volta per volta con riguardo alle amministrazioni statali o agli enti pubblici nazionali, i quali tuttavia non possono superare il termine di novanta giorni.
Un’eccezione a quanto appena affermato compare al comma 4, secondo cui, sempre tenendo conto degli interessi pubblici in rilievo, della particolare complessità del procedimento, della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, possono essere individuati termini superiori ai novanta giorni (ma ad ogni modo non superiori a centottanta giorni). (Le uniche ipotesi in cui possono aversi tempi addirittura superiori si hanno in materia di acquisto della cittadinanza italiana e di immigrazione.)
Le conseguenze del mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento sono di due tipi.
Può esserci una responsabilità penale ai sensi dell’art. 328 c.p. , qualora il responsabile del procedimento non risponda entro trenta giorni dalla messa in mora o nello stesso tempo non risponda spiegando le ragioni del ritardo. In secondo luogo, il privato avrà diritto ad un indennizzo ai sensi dell’art. 2 bis o ad un risarcimento, qualora dal ritardo sia derivato un danno di natura patrimoniale.
Al comma 9 si specifica inoltre che il ritardo può chiaramente determinare una responsabilità disciplinare, erariale e contabile del responsabile del procedimento e del dirigente preposto all’ufficio (evidentemente per culpa in vigilando).
I termini possono subire una sospensione nelle ipotesi in cui l’amministrazione debba procedere all’acquisizione di documenti, documenti o informazioni non in possesso dell’amministrazione stessa. La sospensione può essere attuata una sola volta e comunque per un tempo non superiore ai trenta giorni.
La tutela avverso il silenzio dell’amministrazione è regolato dal Codice del processo amministrativo, tramite l’art. 34.
L’art. 7, lett. b), della legge n. 69/2009 ha interamente riscritto l’articolo 2 della legge n. 241/90 rubricato “Conclusione del procedimento”. Il comma 1, rimasto invariato, ribadisce quell’obbligo di provvedere espressamente che ha rappresentato e continua a rappresentare una delle più straordinarie innovazione della legge sul procedimento amministrativo. In precedenza la pubblica amministrazione aveva soltanto l’obbligo di procedere, ossia di avviare il procedimento ma non anche quello di concluderlo con un provvedimento espresso. A seguito dell’entrata in vigore della legge n. 241/90, invece, la definizione di ogni procedimento amministrativo, sia d’ufficio che su istanza di parte, mediante un provvedimento espresso configura un obbligo della pubblica amministrazione e una delle modalità di realizzazione della trasparenza dell’azione amministrativa.
Con la novella di cui alla legge n. 80/2005 il termine di trenta giorni fu elevato a novanta giorni in armonia con la generalizzazione dell’istituto del silenzio-assenso conseguente alle contestuali modifiche apportate dell’art. 20 della legge n. 241/90.
Sia pure per i soli procedimenti ad istanza di parte, la novella del 2005 aveva inteso “sanzionare” l’inerzia della pubblica amministrazione, disponendo l’accoglimento silenzioso dell’istanza del privato decorsi i termini procedimentali stabiliti i quali proprio in considerazione di tale importante conseguenza favorevole ai destinatari erano stati ampliati a novanta giorni. L’ampliamento a novanta giorni del termine di conclusione del procedimento di cui alla novella del 2005 si è tradotto, nei fatti, in un aggravamento procedimentale contrario ai richiamati principi e criteri di trasparenza e buon andamento. Di conseguenza, la legge n. 69/2009 ha riscritto il comma 2 dell’art. 2 riportando a trenta giorni il termine generale di obbligatoria conclusione del procedimento amministrativo, ovviamente decorrenti, ai sensi del successivo comma 6 anch’esso invariato “dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte“.
Rimane la facoltà per le amministrazioni statali e per gli enti pubblici nazionali di individuare per i procedimenti di propria competenza termini diversi ai sensi del novellato comma 3, dell’art. 2, della legge n. 241/90 “non superiori a novanta giorni”.
In sostanza, la novella dei commi 2-4 dell’art. 2 della legge n. 241/90 ha inteso accentuare la certezza del termine di conclusione del procedimento mediante una notevole limitazione rispetto al passato della discrezionalità delle pubbliche amministrazioni nell’individuazione di termini superiori: a seguito della modifica della disciplina, infatti, possono essere individuati termini superiori a novanta giorni solo in ipotesi eccezionali debitamente motivate e a seguito di una procedura più complessa, almeno per le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali (per i quali è richiesta previa deliberazione del consiglio dei ministri la proposta anche del ministro dell’innovazione e della semplificazione). Ed anche in tali ipotesi comunque non possono essere superati i centottanta giorni.
Tuttavia il termine di conclusione del procedimento, pur obbligatorio, non è perentorio nel senso che la pubblica amministrazione conserva, anche dopo la scadenza di detto termine, il potere di adottare il provvedimento definitivo il quale potere, dunque, non si esaurisce con il decorso del termine.
Pertanto le numerose sentenze che ribadiscono la non perentorietà dei termini di conclusione del procedimento amministrativo intendono semplicemente dire che anche dopo la scadenza del termine la pubblica amministrazione ha l’obbligo di provvedere ma certo non intendono legittimare provvedimenti tardivi della pubblica amministrazione.
Infatti la giurisprudenza amministrativa [TAR Lazio, Roma, Sez. I, 29 settembre 2006, n. 9585] in realtà chiarisce che “l’art.2 legge 7 agosto 1990, n. 241, in materia di termini per la conclusione dei procedimenti, non sancisce la perentorietà dei termini fissati, poiché la disciplina è volta a regolare l’esercizio del potere in modo da garantire la celerità del procedimento e la conseguente certezza degli assetti regolati, ma non implica che, in caso di inosservanza del termine medesimo, l’amministrazione decada dal potere di provvedere“
La novella di cui alla legge n. 69/2009 ha introdotto importanti modificazioni finalizzate ad assicurare certezza e rapidità all’adozione del provvedimento finale anche in merito alla facoltà di sospensione dei termini prefissati di conclusione del procedimento. Occorre premettere che la sospensione dei termini procedimentali è una facoltà di carattere eccezionale in deroga all’obbligo di provvedere nel termine prefissato.
Proprio per questo, le esigenze istruttorie di iniziativa del responsabile del procedimento non legittimano la sospensione dei termini, infatti il termine di conclusione è assegnato proprio per lo svolgimento delle attività istruttorie sia di quelle obbligatorie, sia di quelle facoltative, cioè ritenute opportune dal responsabile del procedimento nell’esercizio dei poteri istruttori di cui all’art. 6, comma 1, lett. b), della legge n. 241/90.
Lo svolgimento di attività istruttorie in astratto non legittima il ritardo perché ogni attività istruttoria deve essere svolta in generale entro il termine assegnato. L’eccezionale facoltà di sospensione del termine procedimentale è stata introdotta dalla novella di cui alla legge n. 80/2005 ma limitatamente a due sole ipotesi ben circoscritte: vale a dire, qualora leggi o regolamenti imponessero l’acquisizione di valutazioni tecniche (quindi non ove tali valutazioni tecniche fossero ritenute opportune dal responsabile del procedimento) nonché ove fosse necessario acquisire informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni” ferma restando l’applicazione delle disposizioni in tema di conferenza dei servizi.
La legge n. 69/2009, ha modificato il comma 7, dell’art. 2, disponendo invece che “fatto salvo quanto previsto dall’art. 17, i termini … possono essere sospesi per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni“.
Deve ritenersi, dunque, che quel “fatto salvo quanto previsto dall’art.17…” vada inteso nel senso che la richiesta delle valutazioni tecniche abbia efficacia solo sospensiva e non anche interruttiva del termine del procedimento principale il quale, pertanto, riprende a decorrere e non ricomincia dall’acquisizione delle medesime.
È opportuno precisare che ai fini della legittimità dell’indicata sospensione, sarà opportuno dimostrare di aver tentato con esito negativo l’applicazione del primo comma dell’art. 43 del Testo Unico sulla documentazione amministrativa il quale dispone che per l’accesso diretto ai propri archivi l’amministrazione certificante rilascia all’amministrazione procedente apposita autorizzazione in cui vengono indicati i limiti e le condizioni di accesso. Le amministrazioni procedenti, dunque, per accelerare le proprie istruttorie debbono chiedere tali autorizzazioni almeno alle amministrazioni certificanti con cui si rapportano con maggiore frequenza.
Se infatti l’amministrazione neppure ha tentato di conseguire tale accesso diretto, potrebbe sostenersi l’illegittimità della conseguente sospensione procedimentale e l’imputabilità a colpa dell’amministrazione della tardiva conclusione del procedimento per aver omesso l’utilizzazione di ogni strumento di accelerazione e semplificazione a sua disposizione per legge. Ciò rileva particolarmente in considerazione delle conseguenze per il ritardo sul piano oltre che della responsabilità dirigenziale anche e soprattutto per la responsabilità risarcitoria in capo all’amministrazione.
L’interessato può tutelarsi dalla violazione dell’obbligo di provvedere nel termine prefissato innanzitutto attivando la facoltà riconosciuta dal comma 8 del novellato art. 2 della legge n. 241/90, ex comma 5 che ribadisce la facoltà di impugnare il silenzio dell’amministrazione oltre il termine prefissato senza necessità di diffida “fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per provvedere“; viene sempre “fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”, ed è ribadito il potere del giudice amministrativo di “conoscere della fondatezza dell’istanza”.
Ciò significa che ritardando la definizione dei procedimenti, l’amministrazione rischia senza alcun preavviso, oltre alle spese di soccombenza per una causa praticamente persa in partenza, addirittura di essere sostituita dalla decisione del giudice amministrativo nella determinazione del contenuto del provvedimento finale (anche se il giudice amministrativo in ossequio al principio di separazione dei poteri e delle competenze usa con molta parsimonia di tale potere).
L’adozione di provvedimenti tardivi è inoltre scoraggiata dal novellato comma 9 dell’art. 2 il quale dispone ora espressamente che “La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale“.
L’organizzazione dell’attività amministrativa degli uffici dovrà pertanto essere improntata dal dirigente all’utilizzazione piena di ogni strumento di semplificazione e accelerazione delle procedure al fine di definire i procedimenti se non nel più breve tempo possibile almeno senza ritardo. Il comma 2 dell’art. 7 della legge n. 69/2009 stabilisce infatti letteralmente che “Il rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti; di esso si tiene conto al fine della corresponsione della retribuzione di risultato.”
Ma la più importante conseguenza del ritardo è il diritto al risarcimento del danno da ritardo, espressamente sancito dalla novella di cui alla legge n. 69/2009 che, a tal fine, dopo l’art. 2, ha aggiunto l’art. 2-bis (rubricato “Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento) disponendo che “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento“; il successivo comma 2 attribuisce poi le relative controversie “alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo” e ribadisce la prescrizione quinquennale di tale diritto risarcitorio.
La riforma ha dato valore di legge a quello che in precedenza era il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa quale sancito dalla decisione dell’Adunanza Plenaria 15 settembre 2005 n. 7 la quale ha collegato il ristoro patrimoniale alla dimostrazione del pregiudizio derivante dalla mancata tempestiva concessione della utilitas (“bene della vita”), negando invece l’astratta risarcibilità del danno da ritardo connessa alla mera violazione della tempistica procedimentale (danno in re ipsa, provocato dall’inerzia o dal ritardo della P.A.).
In merito il Consiglio di Stato chiarisce i connotati dell’obbligo di ragionevole durata del procedimento amministrativo, e le conseguenze della sua violazione (Cons Stato, sez. VI, 26 luglio 2018, n. 4577).
Il Consiglio di Stato osserva che, in termini generali, alla violazione del termine finale di un procedimento amministrativo non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo, salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge.
L’art. 2-bis della legge sul procedimento, da un lato, prevede l’obbligo di terminare il procedimento amministrativo entro un termine ragionevole, e dall’altro correla all’inosservanza del termine finale conseguenze sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato.
Il ritardo, osserva il Collegio, non è quindi un vizio in sé dell’atto ma è un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una possibile forma di responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione.
Resta inoltre ferma la possibilità per gli interessati di chiedere la condanna dell’Amministrazione a provvedere ai sensi dell’art 117 c.p.a.
Il Consiglio di Stato richiama la giurisprudenza europea ‒ e in particolare della Corte di giustizia (sentenza 21 settembre 2006, in C-105/04, punto 42) – per cui deve ritenersi che il superamento del termine ragionevole di conclusione del procedimento (da computarsi di volta in volta alla luce della specifica disciplina di settore) possa costituire un motivo di annullamento delle decisioni che constatino la commissione di infrazioni soltanto qualora risulti provato che la violazione del principio del termine ragionevole ha pregiudicato i diritti della difesa delle imprese interessate, ridondando in un vizio della funzione pubblica.
Al di fuori di tale specifica ipotesi ‒ conclude il Collegio ‒ il mancato rispetto dell’obbligo di decidere entro un termine ragionevole non incide sulla validità dell’atto.
Il Consiglio di Stato è tornato sul punto nel caso affrontato dalla Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n. 358 del 15 gennaio 2019.
L’art. 2 bis della L. 241/1990, afferma il Collegio, prevede due distinte ipotesi di risarcimento del danno: la prima, di cui al comma 1, afferente al “danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine del procedimento”; la seconda, al comma 1 bis, riguardante “il danno derivante di per sé dal fatto stesso di non avere l’amministrazione provveduto entro il termine prescritto, nelle ipotesi e alle condizioni previste”.
In particolare, per quel che qui interessa, l’art. 2 bis, co. 1, L. n. 241/1990, riconosce il risarcimento del danno da ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento ove la condotta tardiva dell’amministrazione sia stata causa di un danno prodottosi nella sfera giuridica del privato che ebbe a dare avvio al procedimento con propria istanza.
A tal proposito, il Collegio richiama l’Adunanza Plenaria, Sentenza del 4 maggio 2018 n. 5, che riconosce il danno da ritardo “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, ricollegandolo piuttosto alla “lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale”.
Dunque, affinché possa parlarsi di una condotta della Pubblica Amministrazione causativa di danno da ritardo, oltre alla concorrenza degli altri elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043 c.c., occorre che esista un obbligo dell’amministrazione di provvedere entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata posizione di interesse legittimo ad ottenere il provvedimento tardivamente emanato.
Tale obbligo di provvedere sussiste, ai sensi del comma 1 dell’articolo 2, Legge n. 241/1990, qualora vi sia un obbligo di procedere entro un termine definito.
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Com’è evidente da questa lunga disamina, il sistema complessivo disegnato e descritto dal legislatore appare chiaro, ma il vulnus – come spesso accade, specie in materia amministrativa – è nel “luogo del rimedio”.
Facciamo due esempi concreti.
a. L’omissione di atti d’ufficio è “un fatto di reato” che si realizza e verifica in sé. Elemento oggettivo e soggettivo si incontrano nel decorrere del tempo. Un soggetto preposto, un’istanza, il mancato rispetto dei termini. O c’è o non c’è l’omissione. E il provarla e verificarla dovrebbe essere questione di scarsissima onerosità – sia in termini di tempo che di risorse finanziarie.
Risulta pertanto inaccettabile la posizione spesso defatigatoria per cui si derubrica l’omissione (al minimo dolosa, ma spesso ontologicamente colposa) a “fatto che non costituisce rilevanza penale” o lasciata su una scrivania a decorrere i termini della prescrizione (spesso perché “vi sono fatti più urgenti”).
È proprio su questa fattispecie di reato (che ‘per altro prevede la multa!) che la giustizia può ottenere due risultati con pochissimo sforzo: riaffermare il principio di legalità – dando una spinta propulsiva all’agire delle pubbliche amministrazioni, perché comminando la ammenda si attua in concreto un “indirizzo pedagogico” – e dall’altro si rafforza il legame tra cittadino e istituzioni, perché viene riconosciuto e tutelato il proprio diritto, e non svilito e derubricato a “tecnicamente inesistente in concreto”.
Non si può chiedere una “fedeltà allo Stato” ed alla sua legalità, se la stessa non vale sempre e non viene riconosciuta anche simmetricamente nel rapporto Stato-Cittadino.
b. L’articolo 2bis della legge 241/90 stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. …l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.”
Ora, se la legge stabilisce un danno da ritardo, e questo viene ex ante stabilito, pare assurdo che il cittadino – che appunto ha già subito un danno – debba investire ulteriori risorse – di tempo e danaro – per tale “risarcimento automaticamente determinato” per un giudizio dinanzi ad un tribunale amministrativo, che spesso riconosce solo parzialmente (talvolta irrisoriamente) le spese sostenute, determinandosi un caso concreto in cui a fronte di un risarcimento di 2 il cittadino ha speso 10.
Attraverso tale meccanismo – che rende di fatto estremamente raro il risarcimento, perché estremamente rara l’azione – “appare” un’amministrazione efficiente, anche dove non lo è in concreto, non trova effettività la disciplina relativa alla performance ed alla responsabilità dirigenziale (perché senza l’azione risarcitoria non sussiste il fatto).
Questi due esempi – in concreto – mostrano, senza voler criminalizzare nessuno – come in concreto, seppur nel quadro di un disegno dell’operare della Pubblica Amministrazione chiaro nei principi, difficilmente il legislatore potrà davvero incidere sulla qualità dell’agire amministrativo, se non – concretamente – mettendo mano ai rimedi, rendendoli effettivi nei fatti, e sostenibili economicamente.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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