L’articolo 47-ter della legge 354/1975 e le varie questioni di illegittimità costituzionale. Melius re perpensa
Sommario: 1. Premessa – 2. La recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 56/2021 – 3. Ulteriori profili di incostituzionalità
1. Premessa
Il presente contributo ha lo scopo di affrontare e confrontare le varie questioni di illegittimità costituzionale sollevate e affrontate a riguardo dell’articolo 47ter dell’Ordinamento penitenziario.
L’articolo in argomento si occupa expressis verbis, di disciplinare l’espiazione della pena, per alcuni reati, slavo quanto previsto dalla Legge, “nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo l’inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di età purché non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale”[1], comma dichiarato incostituzionale recentemente.
Ma non è questo l’unico intervento della Corte Costituzionale che si è pronunciata sull’incostituzionalità della norma de qua, bensì è una questione sollevata e affrontata ex plurimis e sotto vari profili.
Basti pensare che la norma è stata dichiarata incostituzionale anche nei commi successivi a quello ut sopra richiamato ed in particolare, nella parte in cui dispone che le “pene possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza ovvero, nell’ipotesi di cui alla lettera a), in case famiglia protette, quando trattasi di: a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole”.[2]
2. La recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 56/2021
Introduciamo l’excursus di approfondimento esaminando le questioni sollevate dalla Corte Costituzionale di recente, con la Sentenza numero 56 del 9 marzo 2021.
In tale occasione la Corte Costituzionale, esaminando in modo particolare, la parte della disposizione che “stabilisce in via generale che la pena della reclusione – indipendentemente dalla sua durata, complessiva o residua – «può» essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando il condannato abbia compiuto i settant’anni di età”.[3]
La legittimità costituzionale veniva sollevata ex articoli 3 e 27 della Costituzione dal Tribunale di Sorveglianza di Milano.
Infatti, la Corte Costituzionale ha evidenziato che “in effetti, la disposizione censurata condiziona l’accesso alla detenzione domiciliare al presupposto che il soggetto non sia «mai» stato condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 cod. pen., senza precisare – dunque – se l’aggravante debba essere stata applicata nella stessa sentenza di condanna attualmente in esecuzione, ovvero in altra sentenza già pronunciata nei suoi confronti in qualsiasi momento del passato. Una tale sentenza potrebbe essere stata pronunciata in un passato assai remoto; e il giudice della condanna della pena attualmente in esecuzione ben potrebbe avere escluso l’applicazione della recidiva, proprio in considerazione del carattere risalente dei precedenti reati commessi dal condannato, e dunque della loro irrilevanza ai fini di quel giudizio di accentuata pericolosità e colpevolezza che condiziona la stessa applicabilità dell’aggravante”[4].
Tale assunto, richiamato anche da precedenti giurisprudenziali consolidati, porta a concludere che “da ciò discende l’intrinseca irragionevolezza della disposizione censurata, anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte che considera contrarie agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. le preclusioni assolute all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione”[5].
3. Ulteriori profili di incostituzionalità
Relativamente al disposto di cui alla lettera a) dell’art. 47 dell’Ordinamento Penitenziario, la Corte Costituzionale investita della questione, ha esteso “la possibilità di concedere la detenzione domiciliare ordinaria nei confronti della madre condannata, convivente con un figlio portatore di disabilità totalmente invalidante, anche se di età superiore ai dieci anni”[6].
In tale occasione, la Corte Costituzionale, confrontava “le esigenze di cura del figlio minore di dieci anni con quelle del figlio gravemente disabile di qualsiasi età. In proposito, aveva affermato che nel caso del figlio gravemente invalido «il riferimento all’età non può assumere un rilievo dirimente, in considerazione delle particolari esigenze di tutela psico-fisica il cui soddisfacimento si rivela strumentale nel processo rivolto a favorire lo sviluppo della personalità del soggetto. La salute psico-fisica di questo può essere infatti, e notevolmente, pregiudicata dall’assenza della madre, detenuta in carcere, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore”[7].
Sul punto, anche la giurisprudenza di legittimità ha constastato che “l’assenza della madre, per il figlio gravemente invalido, costituisca un pregiudizio ancora più grave”[8].
Questa volta l’illegittimità costituzionale, veniva sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Bari, che riteneva la norma oggetto di disamina “in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, violando quindi il principio di eguaglianza e di ragionevolezza, con la previsione di un trattamento difforme per situazioni familiari analoghe ed equiparabili fra loro, quali sono quella della madre di un figlio incapace perché minore degli anni dieci, ma con un certo margine di autonomia, almeno sul piano fisico, e quella della madre di un figlio disabile e totalmente incapace di provvedere da solo anche alle sue più elementari esigenze, il quale, pur se maggiorenne, ha più necessità di essere assistito dalla madre rispetto ad un bambino di età inferiore agli anni dieci”.[9]
La Corte Costituzionale, nel 2003, ritenendo fondata la questione ha evidenziato che “non è stata presa in considerazione la condizione del figlio gravemente invalido, rispetto alla quale il riferimento all’età non può assumere un rilievo dirimente, in considerazione delle particolari esigenze di tutela psico-fisica il cui soddisfacimento si rivela strumentale nel processo rivolto a favorire lo sviluppo della personalità del soggetto. La salute psico-fisica di questo può essere infatti, e notevolmente, pregiudicata dall’assenza della madre, detenuta in carcere, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore”[10].
Ne discende, come emerge dal tenore della stessa sentenza, “l’esigenza di favorire la socializzazione del soggetto disabile, presa in particolare considerazione dal legislatore sin dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che ha predisposto strumenti rivolti ad agevolare il suo pieno inserimento nella famiglia, nella scuola e nel lavoro”[11].
Alla stregua di tali osservazioni, si deve dunque prendere atto del particolare ruolo della famiglia nella socializzazione del soggetto debole è del resto già stato considerato dal legislatore in relazione alle stesse modalità di esecuzione delle pene detentive che, dalle originarie misure di rinvio dell’esecuzione di cui agli artt. 146 e 147 del codice penale, aventi prevalenti finalità umanitarie, è passato all’attuale disciplina degli artt. 47-ter e 47-quinquies dell’ordinamento penitenziario”[12].
Per concludere, la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 350/2003, ha ritenuto che l’articolo 47ter, Ordinamento Penitenziario, “è in contrasto con il principio di ragionevolezza in quanto prevede un sistema rigido che preclude al giudice, ai fini della concessione della detenzione domiciliare, di valutare l’esistenza delle condizioni necessarie per un’effettiva assistenza psico-fisica da parte della madre condannata nei confronti del figlio portatore di handicap accertato come totalmente invalidante. Ciò determina un trattamento difforme rispetto a situazioni familiari analoghe ed equiparabili fra loro, quali sono quella della madre di un figlio incapace perché minore degli anni dieci, ma con un certo margine di autonomia, almeno sul piano fisico, e quella della madre di un figlio disabile e incapace di provvedere da solo anche alle sue più elementari esigenze, il quale, a qualsiasi età, ha maggiore e continua necessità di essere assistito dalla madre rispetto ad un bambino di età inferiore agli anni dieci”[13].
[1] Art. 47ter, co.1., L. n. 354/1975, di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale con Sentenza della Corte Costituzionale, 9 – 31 marzo 2021, n. 56.
[2] La Corte Costituzionale, con sentenza 25 ottobre – 22 novembre 2018, n. 211 ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 ter, comma 1, lettera b), e 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non limita la punibilità ai sensi dell’art. 385 del codice penale al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47 sexies, commi 2 e 4, della suddetta legge n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all’art. 47 quinquies, comma 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
[3] C. Cost., Sent. n. 56 del 9 marzo 2021, in Giuricost.it.
[4] C. Cost., op.cit.
[5] C. Cost., op.cit.
[6] C. Cost., Sent. 05 dicembre 2003, n. 350, in Giuricost.it.
[7] C. Cost., op. cit.
[8] C. Cass. Pen., Sez. I., 13 ottobre 2015, n. 41190.
[9] C. Cost. op. cit.
[10] C. Cost. op. cit.
[11] C. Cost. op. cit.
[12] C. Cost. op. cit.
[13] C. Cost. op. cit.
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Avv. Emanuele Mascolo
Dal 17 gennaio 2022 Avvocato iscritto presso il COA Trani.
Dall'11 dicembre 2020 Mediatore Civile e Commerciale.
Nell'A.A. 2018/2019 ho frequentato il master di II Livello in Criminologia Clinica presso Unicusano - Roma.
Nell'A.A. 2017/2018 ho frequentato il master di I Livello in Criminologia e sicurezza nel mondo contemporaneo presso Unicusano - Roma.
il 19.04.2012 ho conseguito la Laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Foggia.
Autore di numerose pubblicazioni giuridiche nonchè relatore ad eventi e convegni giuridici.
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