L’ascolto del minore nel processo e negli incontri di mediazione familiare alla luce della riforma Cartabia
La disciplina dell’ascolto del minore in ambito giudiziario ha subito significativi cambiamenti con la Riforma Cartabia[1], che ha introdotto modifiche importanti al sistema giuridico italiano, in materia di diritto di famiglia e procedimenti penali, ponendo maggiore attenzione alla protezione dei minori e al loro benessere psicologico.
Per potere compiutamente comprendere la portata delle modifiche introdotte, occorre brevemente ripercorrere i punti salienti della precedente disciplina in materia.
Prima della riforma
Fino alla riforma Cartabia, l’ascolto del minore era disciplinato principalmente dall’articolo 315-bis, comma 3, del Codice civile[2] e dalle disposizioni in materia di separazione e divorzio.
Da tale articolo si ricava, tutt’oggi, un’importante nozione legata alla possibilità di procedere all’ascolto del minore. Per poter ascoltare il minore, questi o deve avere raggiunto l’età legislativamente prevista o gli deve essere accertata la cosiddetta capacità di discernimento: detta capacità corrisponde alla capacità di comprendere le proprie esigenze, di esprimere una decisione consapevole e di operare scelte adeguate al loro soddisfacimento. Essa si distingue dalla capacità di intendere e volere, ovverosia la capacità di autodeterminazione nell’ambito penale, che invece si manifesta temporalmente successivamente rispetto alla prima ed è verificabile come sussistente caso per caso fino al raggiungimento dei 18 anni (momento a partire dal quale è presunta).
Tuttavia, l’ascolto del minore non era sempre sistematicamente attuato, nonostante il principio di ascolto del minore fosse già presente sia a livello internazionale (con la Convenzione sui diritti del fanciullo di New York[3], la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli di Strasburgo[4] e la Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale dell’Aja[5]) che nazionale, ad esempio nella L. n. 54/2006 sull’affidamento condiviso.
La ragione di questa mancata completa attuazione derivava dall’assenza nella precedente disciplina di un obbligo di ascolto: in alcuni casi veniva svolto in modo poco strutturato, senza un adeguato supporto psicologico e senza una formazione specifica degli operatori coinvolti. Inoltre, la valutazione dell’idoneità del minore a testimoniare era lasciata alla sola discrezione del giudice.
Dopo la riforma: in giudizio
Con la Riforma Cartabia si è, invece, cercato di rafforzare e rendere più sistematico l’ascolto del minore nelle diverse situazioni, in particolare nei casi di separazione, divorzio e in ambito penale.
Alcune importanti precisazioni prima di entrare nello specifico delle novità della normativa.
L’ascolto del minore può essere:
diretto: da parte del giudice;
indiretto: da parte di figure ausiliare (CTU, NPI -neuropsichiatra infantile-, psicologo, servizi sociali);
ed è:
obbligatorio: in caso di separazione giudiziale;
facoltativo, in caso di separazione consensuale (in cui si prende atto di un accordo dei genitori relativo alle condizioni di affidamento dei figli) o di mediazione familiare (come si vedrà avanti).
L’ascolto del minore non è equiparabile all’audizione penale, in quanto in quest’ultima il minore rimane un soggetto passivo, chiamato a rispondere a domande predefinite, mentre nell’ascolto ha un ruolo attivo e può essere chiamato a raccontare di sé in un modo più libero, e dialogico.
Non si tratta, dunque, solo di una differenza linguistica, nonostante nella prassi operativa possano esserci delle linee di confine un po’ più labili. La differenza riguarda le modalità e gli obiettivi: non è una testimonianza, in quanto non è funzionale alla ricostruzione dei fatti (come invece l’audizione), ma è uno strumento che serve a dar voce alle emozioni dei figli, a comprendere se i loro desideri e le loro opinioni siano frutto di scelte consapevoli o derivino da pressioni esterne, facendo così entrare nel procedimento ciò che il minore vuole dire in merito a una decisione che inevitabilmente lo riguarda.
La prima novità di precipua importanza introdotta con la Riforma è l’obbligatorietà dell’ascolto del minore in tutte le situazioni in cui è coinvolto, tenuto sempre conto della sua età e del grado di maturità. Qualora il giudice dovesse ritenere che vi siano fattori che non consentano di procedere all’ascolto (quale il manifesto contrasto con l’interesse del minore o la superfluità per il caso specifico), ha il dovere di motivare adeguatamente la decisione. L’omesso ascolto del minore determina, altrimenti, la nullità del procedimento.
Tendenzialmente, quando il minore ha più di 12 anni, il giudice procede all’ascolto diretto. A tal proposito, due sono le norme da tenere in considerazione:
l’art. 473-BIS.6 C.P.C. (Rifiuto del minore a incontrare il genitore): quando il minore rifiuta di incontrare uno o entrambi i genitori, il giudice procede all’ascolto senza ritardo, assume sommarie informazioni sulle cause del rifiuto e può disporre l’abbreviazione dei termini processuali. In eguale modo il giudice procede quando sono allegate o segnalate condotte di un genitore tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l’altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e gli altri parenti di ciascun ramo familiare.
l’art. 473-BIS.4-5 C.P.C. (Ascolto del minore in caso di abusi o violenze): il giudice procede personalmente e senza ritardo all’ascolto del minore, evitando ogni contatto con la persona indicata come autore degli abusi o delle violenze. Non si procede, tuttavia, all’ascolto quando il minore è stato già sentito nell’ambito di altro provvedimento, anche penale, e le risultanze dell’adempimento acquisite agli atti sono ritenute sufficienti ed esaustive: l’obiettivo è evitare di ripetere l’esperienza traumatica di racconto, creando il fenomeno della vittimizzazione secondaria.
Un’altra innovazione concerne la maggiore attenzione data al minore, alla sua protezione e vulnerabilità, prevedendo che l’ascolto avvenga in modo protetto, riservato e, quando possibile, in assenza delle figure genitoriali che potrebbero influenzare la sua testimonianza o coartare il suo punto di vista. Prima di procedere all’ascolto, il giudice indica i temi oggetto dell’adempimento ai genitori, agli esercenti la responsabilità genitoriale, ai rispettivi difensori o al curatore speciale (id est l’avvocato del minore), i quali possono proporre argomenti e temi di approfondimento e, su autorizzazione del giudice, partecipare all’ascolto.
L’udienza è fissata in orari compatibili con gli impegni scolastici del minore e, ove possibile, in locali idonei alla sua età, anche diversi dal tribunale: vi è, dunque, un’attenzione particolare a mettere il minore a proprio agio.
Ai minori viene, altresì, garantito un maggiore supporto psicologico, con l’introduzione di figure specialistiche (psicologi, assistenti sociali, CTU…) che affiancano il minore durante l’ascolto, per evitare traumi e difficoltà emotive durante il processo. Gli assistenti sociali svolgono funzioni di assistenza, sostegno e aiuto per la genitorialità, nonché funzioni concernenti la vigilanza, la protezione e la tutela dei minori di fronte a carenze di gestione del ruolo genitoriale. I CTU (consulenti tecnici di ufficio), invece, vengono chiamati a intervenire dal giudice tendenzialmente quando il bambino ha meno di 12 anni, ma in lui si rileva la capacità di discernimento. Grazie all’ascolto del CTU è possibile acquisire con precisione un quadro relazionale e storico nell’ambito del quale contestualizzare “la parola del minore”, comprendendo con maggiore facilità il senso più autentico della comunicazione e della posizione esplicitata dallo stesso.
Quando il procedimento giudiziario riguarda più minori, di regola, il giudice li ascolta separatamente (mentre in sede di mediazione familiare spesso sono gli stessi minori -fratelli/sorelle- che chiedono di essere sentiti insieme).
La Riforma ha poi previsto modalità più strutturate e rispettose per l’ascolto, come l’uso di tecniche informatiche o audiovisive per garantire una testimonianza più serena. L’ascolto del minore è effettuato con la sua registrazione audiovisiva. Tuttavia, se per motivi tecnici non è possibile procedere alla registrazione, il processo verbale descrive dettagliatamente il contegno del minore. E’ prevista, inoltre, la possibilità di sospensione o di rinvio dell’ascolto in caso di riscontrata situazione di trauma o disagio che potrebbe compromettere il suo benessere psicologico.
Da ultimo, la Riforma ha ribadito con forza il principio del best interest del minore, da cui ne discende che le decisioni giudiziarie debbano essere prese nel suo superiore interesse.
Dopo la riforma: in mediazione
Premettendo che anche sul tema dell’ascolto del minore in mediazione a livello internazionale diversi sono gli approcci (principalmente sussumibili in due categorie: chi ritiene inderogabile e indispensabile l’ascolto e chi, invece, propende per una maggiore flessibilità), anche la mediazione familiare, in quanto processo volto a risolvere i conflitti tra i genitori in modo non contenzioso, ha il compito di preservare l’interesse del minore: qualificato come priorità assoluta. Pertanto, egli ha il diritto di essere ascoltato in tutte le situazioni che lo riguardano, compresi gli incontri di mediazione, con le stesse cautele e la stessa tutela prevista in giudizio, ma anche con alcuni quid pluris che ora si andranno ad analizzare.
Nell’ambito della mediazione familiare, la Riforma ha rafforzato l’importanza dell’ascolto del minore, riconoscendo che il bambino ha diritto di essere sentito nelle questioni che riguardano la sua vita, in modo che il suo punto di vista possa essere preso in considerazione nelle decisioni sulla custodia, sulla residenza e sulle visite. Il minore, anche in mediazione, non è dunque più un mero spettatore, ma diventa parte attiva, pur sempre con modalità che tengano conto della sua età, della maturità e della capacità di esprimere opinioni.
Strumenti indispensabili per ascoltare il minore possono essere il disegno sia cosiddetto “simbolico dello spazio di vita familiare”[6] che “congiunto”[7], oppure la Lausanne Trilogue Play (LTP). Tale ultimo strumento, ideato negli anni ’80 da un gruppo di Losanna, consiste in un gioco familiare, che consente l’osservazione delle relazioni familiari nella prima infanzia al fine di valutare come la triade madre-padre-bambino interagisce nello svolgimento di un compito, evidenziando “alleanze” funzionali o disfunzionali[8].
Così come nel corso di un giudizio, anche in mediazione l’ascolto non deve avvenire in modo invasivo o traumatico. Il mediatore deve adottare tecniche appropriate per raccogliere le opinioni del minore, senza influenzarlo o forzarlo. La modalità di ascolto, dunque, dipende dall’età e dalla capacità del minore di comprendere la situazione ed è svolta in un ambiente protetto, confidenziale e rispettoso. Per tale ragione e stante la delicatezza del compito dalla legge affibbiato, il mediatore familiare deve essere qualificato e formato per gestire il coinvolgimento dei minori durante gli incontri. La Riforma ha sancito che il mediatore debba essere in grado di gestire situazioni delicate e complesse. Per questo si prevede che lo stesso ottenga il consenso scritto da parte dei genitori affinché il bambino sia presente, che svolga un lavoro preparatorio con i genitori, discutendo su quali possano essere i possibili vantaggi e svantaggi del coinvolgimento, deve valutare con loro come, in quale momento, con quali obiettivi e i possibili effetti dell’incontro con i bambini (che devono essere informati e accettare di venire in mediazione).
Di solito, l’incontro con i bambini da parte del mediatore viene suddiviso in tre momenti:
1° fase: incontro congiunto del mediatore con genitori e figli;
2° fase: incontro con i soli figli, facendo uscire i genitori (che restano in sala d’attesa);
3° fase: i genitori rientrano in seduta e si congiungono con bambini e mediatore.
Tutte le cautele previste dalla normativa permettono di prevenire tutta una serie di rischi derivanti dalla presenza o “presentificazione” dei figli in mediazione: dal coinvolgimento emotivo e l’ansia dei genitori al maggiore stress dei figli per una possibile strumentalizzazione, da possibili schieramenti, alleanze e manipolazioni sui figli al carico di responsabilità eccessivo “scaricato” su di loro con conseguente deresponsabilizzazione dei genitori, dallo loro precoce adultizzazione allo sviluppo di illusioni e fantasie di riconciliazione dei genitori fino al rischio di una totale chiusura nei figli alla partecipazione e al dialogo.
A conclusione di questa rassegna, occorre precisare un aspetto di circolarità tra la mediazione e il giudizio: sebbene la mediazione familiare sia un processo alternativo al contenzioso giudiziario, la Riforma ha, infatti, cercato di integrare le decisioni prese in mediazione con le possibili risoluzioni giudiziarie, specialmente quando vi è disaccordo sulla custodia dei figli.
Si può, pertanto, constatare che la Riforma Cartabia ha sicuramente segnato un passo importante nel miglioramento del sistema giuridico italiano sul tema dell’ascolto del minore. Introducendo un ascolto più sistematico, protetto e supportato da figure professionali adeguate, si cerca di proteggere maggiormente il minore e garantire che la sua voce venga davvero ascoltata. Il minore, è bene ribadire, non è solo una parte in un processo o un soggetto passivo dell’accordo raggiunto dai genitori in mediazione, ma una persona con diritti e necessità che devono essere sempre ascoltati e tutelati in ambito giudiziario.
[1] Legge del 26 novembre 2021, n. 206: “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”, entrata in vigore il 24 dicembre del 2021.
[2] “Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.”
[3] In particolare, l’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (altrimenti ricordata come CRC, CROC, o CRC) del 20 novembre del 1989, ratificata anche dall’Italia.
[4] Risalente al 25 gennaio del 1996, è stata ratificata ed eseguita dall’Italia con la L. 20 marzo 2003, n. 77.
[5] Del 1993, ratificata dall’Italia ed eseguita dalla L. del 31 dicembre 1998, n. 476.
[6] Si tratta di uno strumento grafico-simbolico per mezzo del quale si chiede alla famiglia di rappresentare attraverso un simbolo grafico di immediata comprensione le posizioni reciproche e le comunicazioni all’interno della stessa tra le persone e gli eventi riconosciuti come significativi dai suoi componenti.
[7] Con questa tecnica si chiede alla famiglia di fare un unico disegno tutti insieme su un cartellone (di solito 50×70 cm) in cui il mediatore si limita a fare solo il cerchio e gli altri presenti si devono rappresentare come sono hic et nunc, mentre stanno facendo qualcosa. Ognuno può disegnare sia se stesso che gli altri, come preferisce, in qualsiasi posizione del foglio, con l’unica limitazione di tenere lo stesso pennarello per tutto il corso del disegno, in quanto le persone vengono identificate tramite il colore scelto.
[8] Il gioco si svolge secondo un preciso schema: un genitore gioca con il bambino e l’altro sta in disparte; i genitori si scambiano i ruoli; i genitori interagiscono insieme con il figlio; i genitori parlano tra loro senza coinvolgere il figlio.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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