L’asimmetria contrattuale: la (in)sindacabilità dell’equilibrio del contratto?

L’asimmetria contrattuale: la (in)sindacabilità dell’equilibrio del contratto?

Sommario: 1. L’equilibrio del contratto nel Codice civile: il principio di utilità marginale, la curva di indifferenza e l’ottimo paretiano – 2. I principi generali del primo contratto: la non interferenza e l’insindacabilità – 2.1. Le situazioni di asimmetria “patologico-fattuale” del primo contratto – 3. Il secondo contratto Business to Consumer (B2C): l’asimmetria patologico-sociale informativa e lo squilibrio normativo – 3.1. Il rimedio esperibile nel caso di squilibrio del secondo contratto: la nullità di protezione e l’eterointegrazione legale suppletiva – 4. La disciplina del primo e del secondo contratto a confronto – 5. Il controllo giudiziale sul terzo contratto Business to Business (B2B) – 6. L’orientamento progressista della dottrina e della giurisprudenza – 6.1. Il principio di solidarietà, la clausola di buona fede e il principio di proporzionalità – 6.2. La causa in concreto – 7. La nuova frontiera derivante dai Principi di Unidroit

 

1. L’equilibrio del contratto nel Codice civile: il principio di utilità marginale, la curva di indifferenza e l’ottimo paretiano

Il substrato economico della disciplina del contratto contemplata dal Codice civile è rappresentato dal principio di utilità marginale, in forza del quale ciascuna parte deve essere posta nelle condizioni di potere esprimere la propria reale preferenza al contratto.

Il contratto, infatti, quale espressione dell’autonomia negoziale, compone il conflitto di interessi tra le parti, massimizzando l’interesse dell’una nella composizione del conflitto di interessi con l’altra, fino al punto più elevato delle rispettive curve di indifferenza.

Tale punto garantisce la massima soddisfazione dell’interesse del soggetto, in relazione alle caratteristiche del mercato ed alle sue possibilità economiche.

In questo modo si assicura una allocazione delle risorse non solo efficiente, ma anche giusta consentendo, al contempo, di soddisfare i desideri dei contraenti e di massimizzare il valore delle risorse della società civile.

Ciò permette il raggiungimento dell’ottimo paretiano, ossia di un equilibrio economico derivante dalla più efficiente allocazione delle risorse, tale per cui non è possibile migliorare la situazione di taluno senza peggiorare quella di qualcun altro.

2. I principi generali del primo contratto: la non interferenza e l’insindacabilità

Il modello codicistico classico del primo contratto, di matrice liberale, è stipulato tra parti di pari forza, di talché assume una particolare importanza il principio del “pacta sunt servanda”, che postula la indissolubilità del contratto.

Si assiste, pertanto, alla massima esplicazione del principio dell’autonomia negoziale, la quale si sublima nei due fondamentali corollari giuridici del principio di utilità marginale.

Il primo è il principio di non interferenza ordinamentale sulle scelte delle parti, in forza del quale l’ordinamento giuridico non può intromettersi nelle scelte compiute da ciascuna parte, la quale è il migliore giudice del proprio interesse.

Il secondo, invece, è il principio di insindacabilità giudiziale dell’equilibrio del contratto, che impedisce al giudice di sindacare nel merito l’assetto degli interessi divisato dalle parti nel contratto, in ragione della propria libera scelta.

2.1. Le situazioni di asimmetria “patologico-fattuale” del primo contratto

Il Codice civile, in eccezione alle suddette regole, prevede che il giudice possa sindacare lo squilibrio economico del contratto nelle ipotesi di c.d. asimmetria patologico-fattuale.

Ciò accade, per esempio, nei casi di rescissione per stato di pericolo o per stato di bisogno ex artt. 1447 e 1448 c.c.

Più precisamente, tali disposizioni consentono al giudice di operare un sindacato sullo squilibrio economico del contratto, rispettivamente nelle ipotesi in cui vi sia stata una sproporzione conseguente alla conoscenza dello stato di pericolo, o una lesione ultra dimidium derivante dall’approfittamento dello stato di bisogno.

Ciò in quanto, nella specie, il vizio sostanziale a valle – vale a dire lo squilibrio economico – discende da una ingiustizia procedurale a monte, ossia da un vizio nel procedimento di formazione della volontà della parte, che non le consente di esprimere le proprie reali preferenze al contratto, in aperta violazione del principio di utilità marginale.

In tali ipotesi, il giudice può esperire solamente un rimedio caducatorio, rappresentato dalla pronuncia della sentenza costitutiva di rescissione, la quale provoca lo scioglimento del vincolo contrattuale.

Egli, al contrario, non può attivare dei rimedi conservativi-manutentivi, che sono riservati solamente alla parte avvantaggiata, la quale può avanzare un’offerta di riconduzione del contratto ad equità ex art. 1450 c.c.

Si tratta, nel dettaglio, di un negozio unilaterale, esercizio di un diritto potestativo, tramite il quale la parte avvantaggiata offre di ripristinare totalmente l’equilibrio contrattuale, non continuando a beneficiare, neanche minimamente, dell’abuso commesso.

Laddove ciò accada, la parte che ha subito lo squilibrio si trova in una posizione di soggezione, dovendo accettare l’offerta tale da reintegrare completamente l’equilibrio, in ossequio al principio di conservazione del contratto.

Un’ulteriore ipotesi, più che eccezionale, di sindacato dell’equilibrio del contratto è quella della clausola penale manifestamente eccessiva ex art. 1384 c.c.

Tale fattispecie può essere definita “più che eccezionale”, poiché il giudice, in siffatte ipotesi, può attivare non solo il rimedio caducatorio, ma, andando, oltre anche intervento manutentivo diretto, volto a ricondurre la clausola penale ad equità, equilibrio e giustizia.

3. Il secondo contratto Business to Consumer (B2C): l’asimmetria patologico-sociale informativa e lo squilibrio normativo

L’evoluzione del paradigma normativo, nazionale ed europeo, particolarmente attento all’equilibrio dello scambio, ha indotto a ritenere che oggi esista non già più “il contratto”, bensì “diversi modelli contrattuali”.

In particolar modo, al contratto tra eguali, disciplinato dal Codice civile, è stato affiancato il nuovo paradigma del c.d. contratto asimmetrico, connotato dalla differente consistenza qualitativa dei contraenti.

Il secondo contratto (B2C) concerne, nel dettaglio, i rapporti asimmetrici intercorrenti tra il professionista-parte forte ed il consumatore-parte debole.

In tale contesto, l’asimmetria patologico-sociale discende da ragioni di carattere informativo, atteso che il professionista gode di competenze, conoscenze e informazioni che il consumatore non può possedere.

La disciplina in esame, prevista dal Codice del consumo (D.Lgs. n. 206/2005), è definita transtipica in quanto è applicabile trasversalmente a tutti i contratti che prevedano uno scambio tra un consumatore e un professionista, relegando la disciplina specifica del singolo tipo contrattuale entro i confini della compatibilità.

Tale tessuto normativo è finalizzato ad ovviare all’ipotesi in cui il professionista, abusando della propria maggiore forza informativa, imponga delle condizioni contrattuali inique al consumatore, così ledendo la sua libertà negoziale.

Detto altrimenti, ciò che si teme è che, in ragione dell’asimmetria patologico-sociale informativa, la parte forte (i.e. il professionista) impedisca alla parte debole (i.e. il consumatore) di esprimere le proprie reali preferenze al contratto, in aperta violazione del principio di utilità marginale.

In siffatte ipotesi, l’ingiustizia sostanziale a valle, ossia lo squilibrio, diviene sindacabile proprio in quanto discendente da un’ingiustizia procedurale a monte, ossia dalla sopra descritta violazione del principio di utilità marginale.

Lo squilibrio che si intende prevenire o elidere è, di regola, lo squilibrio normativo e solo eccezionalmente quello economico.

Ciò si evince chiaramente dall’art. 33, co. 1, Codice del consumo, che, nel definire la clausola vessatoria, la qualifica come una clausola che provoca un “significativo squilibrio tra i diritti e gli obblighi” derivanti dal contratto.

Il sindacato sull’equilibrio normativo del contratto, talvolta, è ulteriormente agevolato dalla presunzione di vessatorietà e, dunque, di squilibrio normativo iuris tantum – se la clausola rientra nella c.d. lista grigia – o, addirittura, iuris et de iure, ove la clausola sia ricompresa nella c.d. lista nera.

Si tratta, nel dettaglio, di clausole che sono difformi rispetto a delle norme che sono derogabili-dispositive, ma la cui deroga risulta essere abusiva, iniqua e sproporzionata.

Più precisamente, si presumono vessatorie le clausole di sbilanciamento, che sono quelle che rendono sproporzionata la posizione delle parti[1], e le clausole di sorpresa, le quali espongono il consumatore a subire delle condizioni contrattuali imprevedibilmente diverse rispetto a quelle che si sarebbe potuto attendere al momento della stipulazione del contratto.

Di regola, dunque, l’oggetto dell’indagine non è rappresentato dalla congruità del corrispettivo pagato rispetto al valore del bene.

Ciò in quanto normalmente il consumatore è ben informato sul valore del bene – onde non necessita di una tutela sotto tale profilo – essendo la disinformazione limitata solamente alla cornice normativa che si pone attorno al prezzo richiesto.

Occorre, tuttavia, precisare che l’art. 34, co. 2, Codice del consumo prevede una, sia pur residuale, ipotesi di sindacato sullo squilibrio economico, disponendo che il giudice non può sindacare la determinazione dell’oggetto del contratto né l’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, “purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile”.

Da ciò si evince, a contrario, che il sindacato del giudice può eccezionalmente investire anche l’equilibrio economico, nel caso in cui il prezzo del bene non sia indicato in modo chiaro e trasparente.

3.1. Il rimedio esperibile nel caso di squilibrio del secondo contratto: la nullità di protezione e l’eterointegrazione legale suppletiva

In tali ipotesi il rimedio esperibile è quello della nullità di protezione ex art. 36 Cod. cons., la quale è una nullità testuale, essendo prevista dalla legge, a regime virtuale risentendo, in punto di disciplina, della particolarità degli interessi ivi sottesi[2].

Questo perché è vero che viene tutelato l’interesse particolare del soggetto debole, ma è altresì innegabile che tale tutela non è fine a se stessa[3], essendo preordinata – coerentemente con la logica propria della nullità – al perseguimento di un fine superiore di tutela di un interesse generale, qual è quello della eguaglianza sostanziale ex art. 3, co. 2, Cost. e del corretto funzionamento del mercato ex art. 41, co. 1, Cost.  (c.d. ordine pubblico di protezione ed economico).

Nel dettaglio, i professionisti scorretti, che abusano sistematicamente dei deficit informativi dei consumatori, non solo ledono l’interesse individuale di questi ultimi, ma, andando oltre, ottengono, in ragione del proprio abuso, un vantaggio competitivo non meritorio e non meritato rispetto agli altri operatori economici, così alterando la concorrenza e provocando il fallimento del mercato.

Da ciò si evince la ratio del particolare regime delineato dalla Corte di Giustizia UE[4], la quale ha evidenziato che si tratta di una nullità a legittimazione relativa, ossia rilevabile d’ufficio – in quanto posta a presidio della concorrenza e del mercato – ma dichiarabile solo su richiesta e del consumatore e nel suo interesse.

D’altronde, costui, nel corso del processo, essendo assistito da un Avvocato, perde la propria posizione di debolezza, onde potrebbe legittimamente decidere di non chiedere la declaratoria di nullità, ove ritenga la caducazione non confacente al proprio interesse

Tale nullità, inoltre, è necessariamente parziale, trattandosi di un rimedio caducatorio con effetto manutentivo, conservativo e di ripristino dell’equilibrio del contratto.

Più precisamente, una volta eliminata la clausola vessatoria, il contratto resta valido ed efficace, per il resto, così come depurato dalla clausola squilibrante e, pertanto, riequilibrato.

Una rilevante problematica può porsi, nel contesto della c.d. post-vessatorietà, nelle ipotesi in cui la clausola vessatoria e squilibrante sia essenziale, nel qual caso tale nullità parziale, a mente dell’art. 1419, co. 1, c.c., dovrebbe provocare la nullità totale del contratto, in spregio all’interesse manutentivo del consumatore.

Dal momento che la clausola vessatoria, come visto, è sovente una clausola che deroga a una norma derogabile-dispositiva in modo abusivo e sproporzionato, ci si è chiesti se fosse possibile evitare la nullità totale, tramite un intervento del giudice volto a eliminare l’abuso, riconducendo la deroga entro i limiti della proporzione.

Sia la dottrina[5], sia la Corte di Giustizia UE[6] hanno recisamente escluso la eterointegrazione giudiziale.

A fondamento dell’assunto, si è premesso che anzitutto verrebbe meno la forza deterrente pretesa dalla direttiva 2009/22/CE a tutela dei consumatori.

Per il professionista, infatti, sarebbe sempre più conveniente tentare l’abuso, atteso che la conseguenza peggiore alla quale potrebbe andare incontro sarebbe la riduzione giudiziale della sproporzione e, dunque, del vantaggio, che comunque, seppur ridotto, resterebbe fermo.

In ossequio alla necessaria efficacia deterrente imposta a livello euro-unionale, al contrario, è indefettibile che il professionista sia consapevole del fatto che, ove apporrà una clausola abusiva, perderà qualsivoglia beneficio.

A ciò si è aggiunto il rischio di diseguaglianze, atteso che tali contratti vengono stipulati in serie con molteplici consumatori, con il conseguente pericolo che ciascun giudice, nel procedere con l’eterointegrazione giudiziale equitativa, corregga lo squilibrio in maniera differente.

Pertanto, la giurisprudenza comunitaria ha affermato che, ove la clausola vessatoria sia essenziale, al fine di evitare la caducazione totale del contratto, debba procedersi non già con l’eterointegrazione giudiziale, bensì con la eterointegrazione legale suppletiva.

Ciò è coerente con la previsione di cui all’art. 1374 c.c., che prevede che l’eterointegrazione del contratto può avvenire in forza della legge e, in mancanza, degli usi e dell’equità.

Quindi, l’integrazione giudiziale mediante equità sarebbe ammissibile solamente nell’ipotesi in cui difettasse una legge che possa intervenire in via suppletiva.

Nella specie, la legge alla luce della quale operare l’eterointegrazione e ricondurre il contratto ad equilibrio è presente, ed è rappresentata proprio dalla norma che è stata derogata in modo abusivo, iniquo e sproporzionato.

Tale interpretazione evolutiva, pertanto, presenta una rilevante portata sistematica, poiché amplia l’ambito di operatività dell’eterointegrazione legale suppletiva, la quale opera non solo quando non sia presente alcuna clausola – che è l’ipotesi originariamente contemplata dal legislatore – ma anche nei casi in cui la clausola abbia derogato a una norma derogabile in modo abusivo, eccessivo e sproporzionato.

4. La disciplina del primo e del secondo contratto a confronto

 Nel contesto del primo contratto si presume che i contraenti versino in una posizione formale di eguaglianza, economica e informativa.

Il nuovo paradigma dei contratti asimmetrici, al contrario, postula l’asimmetria delle parti e tende a correggerla.

Da qui l’esigenza di una disciplina volta a riequilibrare la posizione delle parti e il contenuto del contratto, tenendo conto delle qualità soggettive e del contesto socio-economico di riferimento, la quale è speciale e derogatoria, ponendosi spesso agli antipodi rispetto a quella propria del contratto codicistico.

Ciò si evince, anzitutto, dalla regolamentazione prevista con riferimento agli obblighi informativi precontrattuali.

Nella disciplina generale del Codice civile la fase precontrattuale è contemplata solamente dagli artt. 1337 e 1338 c.c., i quali, attesa l’eguale forza delle parti, si limitano a prevedere, rispettivamente, un dovere generico di buona fede e correttezza, e l’obbligo, per la parte che conosceva o avrebbe dovuto conoscere la causa di invalidità, di comunicarla all’altra, pena altrimenti la condanna a risarcire il danno precontrattuale.

Al contrario, la disciplina consumeristica contempla degli obblighi precontrattuali, comportamentali e informativi, molto dettagliati che il professionista deve adempiere nei confronti del consumatore, al fine di compensare l’asimmetria patologico-sociale informativa.

Peraltro, si assiste ad un frequente fenomeno di conversione delle regole di condotta in regole di validità.

Nella disciplina codicistica, infatti, l’inosservanza dei doveri informativi dà la stura ad una responsabilità risarcitoria precontrattuale da contratto valido, ma svantaggioso (salvi i casi di vizi del consenso, che comportano l’annullabilità).

Il Codice del consumo, invece, spesso prevede che la violazione degli obblighi informativi – particolarmente importanti per le ragioni suddette – comporti la radicale nullità del contratto.

Si assiste, in altri termini, al fenomeno della trasformazione delle regole comportamentali in regola di validità.

Sul punto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[7], con riferimento alla responsabilità degli intermediari fìnanziari da omessa informazione, hanno recisamente negato che l’importanza degli obblighi informativi nel secondo contratto fosse talmente forte da provocare la nullità virtuale del contratto, anche ove non testualmente prevista.

Nel dettaglio, la giurisprudenza di legittimità, nella sua composizione più autorevole, ha evidenziato che la trasformazione delle regole di condotta in regole di validità, per quanto frequente in ambito consumeristico, resta pur sempre un’eccezione, che deve essere testualmente prevista dalla legge.

Ne consegue che in mancanza di una normativa testuale espressa, non è possibile ricavare una regola generale di nullità virtuale conseguente alla violazione di obblighi comportamentali-informativi.

Pertanto, torna ad operare il principio generale secondo il quale la violazione delle regole di comportamento determina la sola responsabilità precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso.

Una rilevante differenza emerge anche sotto il profilo della regolamentazione del recesso.

Nella disciplina generale del Codice civile si ravvisa una particolare forza del principio del “pacta sunt servanda”.

Se è vero, infatti, che talvolta è ammesso il recesso ad nutum, è altresì innegabile che il medesimo non costituisce mai l’esercizio di uno ius poenitendi, non potendo essere qualificato come penitenziale, in ragione della sua considerevole onerosità.

Si pensi, ad esempio, alle ipotesi di recesso concernente i contratti tradizionalmente ricondotti alla locatio operis (come, ad esempio, l’appalto), per il cui esercizio è necessario eseguire il pagamento di tutti i lavori già eseguiti e risarcire il lucro cessante con riferimento a quelli ancora da eseguire.

Nella disciplina consumeristica, invece, la forza del principio del pacta sunt servanda è notevolmente attenuata, essendo ammesso, nei casi previsti dalla legge, il recesso penitenziale, immotivato e gratuito, da intendersi quale vera e propria forma di ius poenitendi.

Ciò accade o in ragione della particolare rilevanza economica del contratto (si pensi alla multiproprietà), o in considerazione delle modalità di conclusione del contratto, come nel caso dei contratti conclusi a distanza o fuori dai locali commerciali.

Questo perché se si ritiene che vi sia il rischio che il consumatore sia disinformato quando si reca egli stesso, di propria iniziativa, dal professionista, a fortiori si reputa che sia forte il pericolo che il consumatore sia disinformato nell’ipotesi in cui sia stato contattato e, lato sensu, “sorpreso” dal professionista a distanza, fuori dai locali commerciali per la stipula di un contratto che non aveva ponderato in precedenza.

Infine, sotto il profilo della forma, nel contesto del primo contratto l’imposizione dell’obbligo di forma ha la sola funzione di richiamare l’attenzione delle parti sull’importanza economica del contratto o sugli interessi pubblici presidiati dal medesimo.

Al contrario, nel secondo contratto la forma assume una pregnanza assai differente, dovendo essere intesa nell’ottica del neoformalismo e della trasparenza.

Non è sufficiente, infatti, che il contratto sia redatto per iscritto, ma è necessario che la forma rappresenti un veicolo informativo, contenendo tutti gli avvisi e le indicazioni che il Legislatore vuole assicurarsi che il professionista-parte forte fornisca al consumatore-parte debole, al fine di colmare l’ontologica asimmetria patologico-sociale di carattere informativo.

 5. Il controllo giudiziale sul terzo contratto Business to Business (B2B)

Il “terzo contratto”, Business to Business (B2B), concerne i rapporti asimmetrici intercorrenti tra un’impresa parte forte e un’impresa parte debole.

Si tratta, pertanto, di due soggetti parimenti professionali – e, dunque, aventi uguali competenze – la cui asimmetria patologico sociale discende da ragioni di carattere economico.

Non si tratta, tuttavia, della dominanza assoluta di cui alla Legge Antitrust (L. n. 287/90), che vieta l’abuso della posizione dominante, ossia la condotta dell’impresa forte, che domina oggettivamente il mercato, compiendo degli abusi, assoluti e immanenti, nei confronti delle altre imprese.

La dipendenza economica tipica del terzo contratto, al contrario, è quella “relativa”, descritta dalla Legge sulla subfornitura (L. n. 192/98).

In siffatte ipotesi, invero, la dominanza non è intrinseca, ma deriva dalle particolari condizioni contrattuali convenute a monte.

Più precisamente, si fa riferimento al caso in cui, in base ad una relazione contrattuale, un’impresa –  che diviene debole – effettua un investimento specifico e non riconvertibile sul mercato, che richiede un certo periodo di ammortamento (ad esempio triennale) attribuendo all’altra impresa controparte contraente – che diviene parte forte – dei particolari poteri, come quello di non rinnovare il contratto o di recedere ad nutum dal medesimo prima della scadenza del periodo di ammortamento (ad esempio, dopo un solo anno).

È evidente che l’impresa divenuta forte potrebbe abusare della posizione di forza acquisita al fine di operare una c.d. estorsione post-contrattuale.

Quest’ultima, invero, potrebbe imporre una modifica delle condizioni contrattuali, tale da farle divenire squilibrate a livello normativo o economico, minacciando, altrimenti, il mancato rinnovo o il recesso dal contratto prima del periodo di ammortamento.

Ciò, nel contesto di un investimento specifico e non riconvertibile, comporterebbe l’inevitabile espulsione dal mercato dell’impresa divenuta debole.

Sotto il profilo rimediale, il Legislatore ha introdotto una disciplina transtipica[8], con la predetta Legge 18 giugno 1998, n. 192, la quale si occupa genericamente dell’abuso di dipendenza economica e tecnologica – in ragione dell’impiego di materie prime, semilavorati e know how di un’altra impresa – e all’art. 9 dell’abuso della sola dipendenza economica relativa, sopra descritta.

Più precisamente, nella specie è possibile ovviare allo squilibrio, normativo e/o economico, imposto dall’impresa forte in danno di quella debole per il tramite di due strumenti di tutela.

Il primo, analogo a quello proprio del secondo contratto, è rappresentato dalla nullità parziale della clausola squilibrante, che rappresenta un rimedio caducatorio che produce un effetto manutentivo, determinando la caducazione della clausola squilibrante e mantenendo in vita il contratto depurato dalla medesima, in ossequio all’interesse della parte debole all’esecuzione di un contratto riequilibrato.

Nel caso in cui ciò non sia possibile – poiché, ad esempio, la clausola è essenziale, ovvero ratione temporis per le fattispecie antecedenti rispetto all’introduzione della legge sulla subfornitura – la giurisprudenza di legittimità[9] ha riconosciuto la sindacabilità del mancato rinnovo o del recesso dal contratto alla luce del divieto di abuso del diritto.

Si osserva, infatti, che se è vero che l’impresa dominante gode del diritto di non rinnovare il contratto o di recedere dal medesimo, è altresì innegabile che la medesima non può abusarne, minacciando di esercitarlo, al sol fine di imporre delle condizioni contrattuali inique, sotto il profilo economico e/o normativo.

Tale rimedio, tuttavia, presenta delle criticità, in quanto rischia di divenire un importante disincentivo dall’investire in uno Stato, quale il nostro, il cui ordinamento consente che una previsione contrattuale, come il recesso o il mancato rinnovo, per ottenere la quale l’impresa divenuta forte può avere compiuto dei forti sacrifici in termini di corrispettivo o compensazione, possa essere intensamente sindacata dal giudice.

Ciò avverrebbe, andando oltre, in ragione di una clausola generale, quale è il carattere abusivo o meno dell’esercizio di tali diritti, che finirebbe per creare degli inevitabili profili di incertezza, in aperta deroga al principio del pacta sunt servanda.

6. L’orientamento progressista della dottrina e della giurisprudenza

 Nelle fattispecie fino ad ora esaminate, il sindacato del giudice sull’equilibrio contrattuale è giustificato da una asimmetria patologico-fattuale (primo contratto) o patologico-sociale (secondo e terzo contratto), che ha alterato e leso la libertà negoziale di una parte, in violazione del principio di utilità marginale.

Ad ogni modo, occorre evidenziare che l’orientamento ermeneutico più progressista[10] ammette, a vario titolo, il potere giudiziale di sindacato della congruità e dell’equilibrio dello scambio anche nelle ipotesi di contrattazione avvenuta in condizioni di fisiologia fattuale e sociale.

6.1. Il principio di solidarietà, la clausola di buona fede e il principio di proporzionalità

Il sindacato del giudice sulla giustizia contrattuale può fondarsi, anzitutto, sul principio della solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost.

Il medesimo, nel dettaglio, penetra all’interno del regolamento contrattuale per il tramite della clausola generale di buona fede, che gli attribuisce una vis normativa.

In altri termini, il principio della solidarietà sociale, alla luce della buona fede, orienta, limita e vincola l’autonomia privata, in ossequio alla reciprocità, imponendo a ciascuna parte di massimizzare il proprio interesse non già in modo egoistico, bensì tenendo in debita considerazione anche l’interesse della controparte.

Un effetto analogo di sindacato sullo squilibrio negoziale, in condizioni di fisiologia, è garantito anche dal principio di proporzionalità, da intendersi come rapporto di congruità dello scambio contrattuale, tenendo conto degli interessi dedotti e dell’entità delle prestazioni.

6.2. La causa in concreto

 Un’ulteriore deroga alla insindacabilità giudiziale dell’equilibrio contrattuale risiede nella nullità del contratto.

Invero, si osserva che in tanto vige il principio di insindacabilità giudiziale dell’equilibrio contrattuale, in quanto il contratto, a monte, sia valido e munito di una causa, da intendersi in concreto, alla luce della costituzionalizzazione del Diritto civile, quale funzione economico-individuale e ragione concreta dell’affare.

Quest’ultima, in un’ottica paternalistica, risiede nella razionalità economica dell’operazione, in termini di corrispettività formale o, per lo meno, sostanziale (c.d. gratuità economicamente interessata), rientrante nella logica del do ut des o del facio ut facias.

Talvolta può accadere che lo squilibrio tra le prestazioni sia talmente forte da fare divenire l’operazione economicamente irrazionale e, dunque, da non lasciare trasparire la causa, rendendola opaca, con conseguente eccezionale sindacabilità giudiziale, per il tramite del rimedio caducatorio della declaratoria di nullità del contratto[11].

7. La nuova frontiera derivante dai Principi di Unidroit

Da ultimo, occorre evidenziare che l’art. 3, par. 10, dei Principi Unidroit, rubricato “eccessivo squilibrio” prevede che nel commercio internazionale se, anche a prescindere da una patologia fattuale o sociale, un contratto o una clausola provoca un eccessivo ed ingiustificato squilibrio, normativo o economico, la parte può chiedere: la caducazione parziale della clausola, la caducazione totale del contratto, o l’intervento giudiziale di conformazione del contratto.

In quest’ultima ipotesi, il giudice può esercitare un potere correttivo, volto a conformare il contratto ai criteri ordinari di correttezza nel commercio.

L’eccezionalità di tale rimedio risiede non solo nel fatto che il medesimo preveda un sindacato su contratti non affetti da alcuna asimmetria patologica, sociale o fattuale, ma, altresì, nella circostanza che lo faccia contemplando un potere manutentivo diretto del giudice.

Tale tendenza, ove confermata anche a livello interno, andrebbe ben oltre gli orientamenti ermeneutici formatisi nella giurisprudenza nazionale, anche più progressista, i quali, come visto, pur ammettendo il sindacato nelle ipotesi di fisiologia, hanno autorizzato il ricorso ai soli rimedi giudiziali caducatori, produttivi di un effetto manutentivo solo indiretto.

 

 

 

 

 


[1] Si pensi, ad esempio, alle clausole che impongono degli oneri e/o degli aggravamenti di responsabilità a carico del solo consumatore o, specularmente, a quelle che contemplano dei vantaggi e/o delle esclusioni o limitazioni della responsabilità in favore del solo professionista.
[2] Cass., Sez. Un., 4 settembre 2012, n. 14828, con nota di S. Pagliantini, La rilevabilità d’ufficio della nullità secondo il canone delle Sezioni Unite: «Eppur si muove?», in Giur. it 2013, p. 299 ss, con nota di M. Rizzuti, Il problema dei limiti alla rilevabilità officiosa della nullità, in Nuova giur. civ. comm., 2013, p. 15, con nota di C. Scognamiglio, il giudice e le nullità, punti fermi e problemi aperti nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.
[3] come accade, invece, nei casi di annullabilità.
[4] Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza 04/06/2009 n° C-243/08 Pannon GSM Zrt. contro Erzsébet Sustikné Győrfi.
[5] G. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto a mezzo del diritto dispositivo, in G. D’Amico, S. Pagliantini, La tutela del consumatore nell’interpretazione delle Corti, Torino, 2012, p. 198 ss.;
[6] Corte di Giustizia UE, 14 giugno 2012, C-618/10 e Corte di Giustizia UE, 30 maggio 2013, C-488/11, in curia.europa.eu.
[7] Cass, Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26725
[8] Così come quella prevista nel contesto del Codice del consumo.
[9] C. Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106 (c.d. caso Renault).
[10] Cfr., tra le altre, Cass., sez. I, 6 dicembre 2012, n. 21994.
[11] Si pensi, ad esempio: ad alcune ipotesi di clausole claims made (specie impure), alla vendita a prezzo vile o irrisorio, all’usura reale e pecuniaria in concreto, ai principi della retribuzione equa e proporzionata e dell’equo canone, alla risarcibilità dell’interesse positivo differenziale nel caso di vizi incompleti del contratto, e alla più recente giurisprudenza formatasi sia in materia di swap, sia con riferimento alla riduzione della caparra confirmatoria manifestamente eccessiva.

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