L’assegno di divorzio e il (dis)orientamento dei giudici
«Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi», faceva esclamare B. Brecht ad uno dei suoi personaggi. Ahimè, gli eroi oggigiorno possono anche essere delle sentenze, ritenute rivoluzionarie, eversive o salvifiche, secondo i punti di vista.
La pronuncia a cui si allude (e che in questo commento si cerca di analizzare e annotare, «si parva magnis componere licet») è la (fin troppo) celebre sentenza, venuta agli onori della cronaca, Cass., Sez. I, 10 febbraio-10 maggio 2017, n. 11504, che, in soldoni, ha affermato il principio per il quale, in tema di assegno divorzile, lo stesso non spetterebbe affatto se il richiedente abbia una condizione reddituale e patrimoniale tale da renderlo autosufficiente economicamente, a nulla rilevando che non possa mantenere ex se il tenore di vita (possibile) in costanza di matrimonio.
Detto provvedimento ha catturato particolarmente l’attenzione degli operatori del diritto e non per via del fatto che è sembrato porsi in maniera contraria a quanto fino a quel momento affermato costantemente dalla Suprema Corte in materia. [1]
La pronuncia in esame
La Suprema Corte giunge alla conclusione citata facendo un percorso argomentativo di tipo tecnico-sociologico tutto sommato lineare e anche parzialmente condivisibile, almeno nell’esito. I passaggi sono i seguenti.
Preliminarmente, si sottolinea come con il divorzio il matrimonio si sciolga e i (già) coniugi, liberi dal vincolo coniugale, diventano persone “singole”, scil. si voleva dire “di stato civile libero” (forse la dilagante “anglofilia” fa scrivere all’estensore, in una sorta di lapsus – non si sa mai se freudiano o calami – e in assonanza con il termine single, che il divorzio rende i coniugi “persone singole”, quasi che prima fossero due persone ipostatizzate, abbastanza blasfemamente, in una sola sostanza). Del resto, si aggiunge, se a tanto si è addivenuti, è perché il consortium omnis vitae è fallito e non vi sono elementi che facciano presumere la possibilità di una sua ricostituzione (cfr. artt. 1, 2 e 4, c. 12 e 16, L. 898/1970, d’ora in poi anche semplicemente “L. Div.”).
Se questo è vero, se quindi il matrimonio è da trattarsi alla stregua di un fatto storico ormai passato e non più attuale, ogni ultrattività dello stesso è da escludersi e, nelle ipotesi in cui è testualmente prevista o presupposta, e da interpretarsi restrittivamente e tassativamente.
La attribuzione dell’assegno divorzile è uno di questi casi, in cui si dà rilievo a quella che la dottrina definisce “solidarietà post-coniugale”. E tuttavia in tanto si può ammettere che un soggetto (aggiungo: anche in violazione dei suoi diritti personali ed inviolabili di libertà, ex artt. 2, 3, 13 ss. Cost.) risenta ancora di un vincolo ormai sciolto, in quanto ciò sia funzionale alla soddisfazione di un interesse superiore ancor più pregnante, quale può essere la solidarietà (ex art. 2 e 23 Cost.), che impone – quasi evangelicamente – di sostenere chi non sia in grado di farlo da sé – in tal senso il riconoscimento (ormai pacifico in dottrina e giurisprudenza [2]) della natura assistenziale dell’obbligazione in questione. Del resto, la lettura dell’art. 5, c. 6, L. Div. conforterebbe questo ordine di idee, nella parte in cui prescrive di tener conto solo della “insussistenza di mezzi adeguati” e della oggettiva impossibilità di procurarseli, da parte dell’istante.
Inoltre, il Collegio (in realtà anche la giurisprudenza precedente, in alcune pronunce) rileva che la lettura della norma da ultimo citata rende evidente che il giudizio de quo debba scindersi in due fasi: a) la fase dell’an debeatur; b) la fase del quantum debeatur.
Rientrano nell’ambito della prima fase le considerazioni relative alla necessità di tale solidarietà post-coniugale e, dal punto di vista della lettera della disposizione, quelle valutazioni in ordine alla “sussistenza di mezzi adeguati” e alla impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Solo a valle di tali valutazioni verrebbero in considerazione gli altri elementi richiamati dall’art. 5 L. Div., tra cui possiamo ricomprendere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Ma non prima.
E allora, posto quanto detto sulla rigorosità delle valutazioni in tema di solidarietà e vincoli postconiugali, altrettanto rigorosa deve essere l’interpretazione delle condizioni di legge; di conseguenza, è di necessità ritenersi che i mezzi debbano essere adeguati (a norma della L. Div., per escludere l’assegno), non già a continuare a godere del medesimo tenore di vita di cui durante il matrimonio, bensì ad un minimo di sussistenza dignitosa del soggetto de quo: in caso contrario, ogni assegno costituirebbe una ingiustificata e ingiustificabile locupletazione, come tale illegittima.
Ad adiuvandum, si aggiunge che la Rel. alla riforma del 1987 richiamava la volontà di un accertamento sulle condizioni patrimoniale del creditore, piuttosto che su quelle del debitore.
Infine la Cassazione ha ritenuto che si potesse superare l’orientamento precedente – risalente alle fondamentali Cass., Sez. Un., 11490 e 11492 del 1990) – senza ripassare per le Sezioni Unite (come ex art. 374, c. 3, c.p.c. sarebbe stato doveroso), poiché quelle sentenze erano da ritenersi superate e (quasi come se sottoposte ad una clausola rebus sic stantibus) non più efficaci, per vetustà e diversità di contesto socio-culturale (del resto, si rileva nella pronuncia, già in quelle si alludeva al fatto che le conclusioni ivi raggiunte dipendevano dal contesto sociale dell’epoca).
La conclusione è evidente: il parametro cui legare la riconoscibilità dell’assegno divorzile deve essere la assenza di una indipendenza economica [3].
L’orientamento inaugurato ha trovato alterni consensi. Se immediatamente vi hanno prestato adesione vari giudici [4], alcuni dei quali addirittura hanno quantificato la misura della indipendenza economica in circa 1.000 € al mese [5], altri hanno preferito mantenersi sulle posizioni tradizionali [6].
Da ultimo, forse per “sanare” tardivamente il difetto procedimentale di cui all’art. 374, c. 3, c.p.c., il Primo Presidente ha rimesso la questione alle Sezioni Unite che – si prevede – si pronunceranno intorno ad aprile p.v..
Considerazioni sulla sentenza commentata
In limine va detto che non si intende soffermarsi sulle questioni procedurali del caso, ma solo sul nocciolo sostanziale. Ad avviso di chi scrive – mi piace dirlo subito – la sentenza de qua non aggiunge nulla e non toglie nulla a ciò che si sarebbe dovuto dire e concludere in relazione alle vigenti disposizioni di legge e alle specificità del caso concreto e, pertanto, si reputa perfettamente condivisibile la conclusione (forse meno, in alcuni punti, l’iter argomentativo). Piuttosto erano state le applicazioni concrete a dimostrare nella prassi – forse – delle aberrazioni formalistiche.
Infatti, preliminarmente, il riferimento al tenore di vita nell’art. 5 della L. Div. non è mai menzionato, a differenza dell’art. 156 c.c. ove, in materia di separazione, si allude ad un mantenimento che – arg. dal comma successivo dell’art. 156 cit. – è cosa diversa dagli alimenti (peraltro in tal senso la dottrina e la giurisprudenza assolutamente totalitarie sulla nozione di mantenimento e di alimenti).
Ora, con il divorzio si dissolve (come ben ricordato dalla Corte, il più delle volte “consensualmente”, in senso lato – ma oggi neppure tanto lato, considerate le disposizioni del D. L. 132/2014) il matrimonio, che, sciogliendosi, ridona la libertà personale, nel bene e nel male. Verrebbe da dire quasi che quei soggetti diventano nuovamente due perfetti estranei. Se questo è vero, che ragioni può mai vantare l’ex coniuge di partecipare alla ricchezza dell’altro? Se un estraneo è indigente, al di fuori dei membri della sua famiglia (art. 433 c.c.), da chi può pretendere sostentamento?
Il Legislatore, incoerente in linea di principio, ma attento alla equità nella realtà dei fatti, ha imposto – a ragion veduta – questo specifico vincolo di solidarietà tra due soggetti che furono “una sola anima e una sola cosa”, ex artt. 2 e 23 Cost., a tutela della dignità della persona, prevedendo che non si possa ritenere come del tutto insignificante il rapporto che è stato, tanto più se è durato nel tempo e se ha consentito una ripartizione di compiti tali da consentire/imporre ad una sola parte la produzione dei redditi necessari al ménage familiare e di essere – a monte – titolare di un patrimonio (personale e non comune); non trascurabile, poi, neanche il fatto che il divorzio può essere stato “imposto” dalla condotta dell’altro coniuge e sarebbe profondamente iniquo che il soggetto incolpevole, oltre alla beffa, risenta anche del danno, perdendo il sostegno vitale che – nella ripartizione dei compiti ex artt. 143 e 144 c.c. – si era convenuto che l’altro coniuge procurasse.
Null’altro, del resto dice l’art. 5, c. 6, L. Div., che impone di valutare, ai fini dell’assegno:
a) le condizioni dei coniugi;
b) le ragioni della decisione;
c) il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare (aggiungo: incluso il compito di prendersi cura della prole, in termini sostanziali e non formali, né meramente economici);
d) il contributo dato dai coniugi alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune (anche il risparmio familiare, tutte le volte che le norme sulla comunione non arrivano a ristorare esattamente del proprio apporto o comunque oltre quanto già previsto in materia di comunione legale, ove sia il regime patrimoniale della famiglia);
e) i redditi di entrambi;
f) durata del matrimonio;
g) la mancanza incolpevole di mezzi.
Ma se le esigenze e le evenienze del rapporto possono comportare quanto ricordato sopra, si comprenderà perchè chi scrive, forse in maniera anacronistica, ritiene che assai più corretto sarebbe continuare a sostenere (come prima del 1987 [7]) che l’assegno de quo assuma una valenza multiforme, secondo la funzione che nel caso concreto assuma e, precisamente:
funzione assistenziale (nella parte relativa alla assenza incolpevole di mezzi, alle condizioni dei coniugi e ai loro redditi);
funzione compensativa (per quanto attiene al sacrificio di forze e risorse fisiche e morali che hanno consentito all’altro di accumulare un patrimonio personale e magari di disinteressarsi dell’assistenza familiare di coniuge e prole, potendo così impiegare il proprio tempo in altro);
funzione risarcitoria (nella parte relativa alle ragioni della decisione).
Il riferimento a questa triplice funzione, dunque, consente di meglio rispondere alle istanze del caso concreto, riconoscendo e quantificando l’assegno in ragione di tutte le specificità del caso, con tutte le componenti o (eventualmente) solo alcune. Peraltro, è evidente che rispetto ad ognuna di queste si ponga la necessità di un accertamento dell’an e del quantum, variando però le circostanze da prendersi in considerazione per l’uno e per l’altro aspetto in relazione alle tre finalità.
Se la condotta di entrambi i coniugi ha dato motivo al divorzio, non vi sarà componente risarcitoria (da limitarsi comunque ai soli casi eccezionali in cui sia necessario, posto che chiedere il divorzio assume la fisionomia di un esercizio – in negativo – della propria libertà matrimoniale e familiare, onde difficilmente potrà definirsi “ingiusto” il danno conseguente; in tale prospettiva, peraltro, va sottolineato come talvolta la giurisprudenza abbia sostenuto che possano avere un peso i motivi della separazione, addebitata all’altro coniuge, che è poi sfociata nel divorzio di specie).
Se entrambi hanno contribuito, in pari misura, a creare il patrimonio comune ed entrambi ne hanno beneficiato durante il matrimonio (ad es. ripartendosi equamente il risparmio o accollandosi pariteticamente le spese), allora la componente compensativa può essere insussistente. Ma se – come spesso ancora oggi accade – della cura della famiglia, della casa, dei figli si occupa uno solo dei coniugi, è evidente, oltre che iniquo, che questi non abbia potuto (o voluto, sulla base di accordi ex art. 144 c.c.) dedicare il suo tempo e le sue forze alla creazione di un patrimonio e un reddito propri, consentendolo però al coniuge; e, pertanto, pur a fronte della assenza di indigenza, si tratta di consentire che questi si sia arricchito, ingiustamente e a suo danno (cfr. anche art. 2041 c.c.) che ha rinunciato alla propria realizzazione professionale e patrimoniale.
Infine, ma non meno importante, la funzione assistenziale, alla quale è opportuno dedicare qualche considerazione in più.
La funzione assistenziale dell’assegno
Premesso che riconoscere all’assegno sola funzione assistenziale è ormai dato praticamente acquisito in dottrina e giurisprudenza, anche di fronte all’impostazione di cui sopra non si nega che questo è il profilo più problematico del diritto de quo, posto che si tratta di giustificare (come accennato) una solidarietà, sostanzialmente, tra estranei.
Se si tiene conto di ciò (come ampiamente e pienamente chiarito dalla sentenza commentata), risulta evidente la condivisibilità delle conclusioni raggiunte dalla Cassazione – in relazione a tale funzione dell’assegno (lo si ripete).
Infatti, riferire l’adeguatezza dei mezzi al tenore di vita, piuttosto che alle condizioni minime di sussistenza diventa arbitrario [8].
A favore di questo ordine di idee militano una serie di ragioni.
Innanzi tutto, l’art. 438 c.c. disciplina i presupposti (oltre che il contenuto) della prestazione alimentare in termini sostanzialmente equivalenti: si richiede uno stato di bisogno (per assenza di mezzi, evidentemente) e l’impossibilità (per ragioni oggettive, si aggiunge) di provvedere al proprio mantenimento. Se questo vale tra soggetti legati da relazioni specifiche, in particolar modo, di parentela (salvo il donatario, che può essere chiunque), a fortiori deve valere con riferimento ad un estraneo.
Ancora, i riferimenti fatti dalla Cassazione agli artt. 155-quinquies e 337-septies c.c. sono del tutto appropriati ed è sufficiente richiamarli, rinviando alle parole della pronuncia sul punto.
Si aggiunga inoltre il riferimento al trattamento del coniuge separato. Al coniuge separato viene riconosciuto un mantenimento, qualora non abbia mezzi e redditi propri – ma il soggetto in questione è comunque coniuge. Anzi, il soggetto separato può ottenere ancora meno: è il caso di addebito, che gli dà – ricorrendone i presupposti – diritto alla pretesa alimentare (art. 156, c. 3, c.c.). Ma pur sempre coniuge è, donde – a fortiori – chi non è (volontariamente più) coniuge non può ritenersi che abbia diritto di essere mantenuto più di quanto ne abbia il diritto un coniuge (per quanto colpevole di mancanze coniugali).
Non solo, ma anche la disciplina di un caso molto simile, vale a dire quello del matrimonio (“sciolto” perché mai validamente sorto, in quanto) nullo/annullato, è illuminante in merito. A norma degli artt. 129 ss. c.c., infatti, chi non è (più?) coniuge, a seguito di annullamento/declaratoria di nullità del matrimonio, può confidare: a) nella corresponsione per massimo tre anni di somme di denaro in proporzione delle sostanze dell’altro e sempre che non abbia adeguati redditi propri (in caso di buona fede per entrambi i soggetti) [9]; b) in b.1) un risarcimento pari al mantenimento triennale; e b.2) gli alimenti, questa volta sine die (in assenza di altri obbligati). Come si vede, ancora una volta, comunque nulla più che alimenti.
Ma si può azzardare anche qualche ulteriore conclusione. Infatti, tenuto conto che sostanzialmente la separazione ormai è sempre più assimilabile ad un divorzio (o comunque ne è l’anticamera) o – come pare a chi scrive – che la situazione di due ex coniugi è assai più affine a quella di due “non coniugi” a seguito di matrimonio putativo [10], comunque la conclusione è la stessa:
se il matrimonio è fallito per colpa (anche) del soggetto indigente, questi non potrà pretendere più che gli alimenti, non essendo sistematicamente coerente e legittima alcuna lettura maggiormente estensiva dell’art. 5 L. Div., oltre che per le cose dette (anche dalla Cassazione), alla luce del confronto con la situazione del soggetto colpevole – ma ancora coniuge – che non può subire un trattamento deteriore: art. 156, c. 3, c.c. (addirittura, il soggetto ritenuto dallo scrivente più “omologo” al divorziato, cioè l’ “ex” coniuge di un matrimonio nullo, in caso di mala fede, non riceve nulla);
se, invece, il matrimonio è fallito per colpa dell’altro o “di nessuno”, comunque non si potrebbe pretendere più di quanto si riconosca ad un coniuge putativo, considerata la analogia di situazione riferita – e dunque, di nuovo, al massimo gli alimenti, laddove la disciplina migliore dell’art. 156 c.c. trova ampia spiegazione nel fatto che si tratta di una solidarietà che ancora è coniugale a tutti gli effetti (di legge).
Considerazioni finali
Dunque, piuttosto che andare alla ricerca di una definizione onnicomprensiva del diritto all’assegno, con ciò rischiando pericolose ed errate generalizzazioni, tanto meglio sarebbe riscoprire questa pluralità di profili funzionali dell’assegno divorzile, riuscendo a dare una risposta calibrata, tecnicamente in linea con la norma di legge, equitativamente ineccepibile.
Di fronte ad un coniuge benestante, che non ha dovuto sacrificare sé stesso e che non ha molto da lamentare in termini di ingiustizia del divorzio, l’assegno – insussistenti i presupposti e/o azzerate tutte le voci di ogni componente – non potrebbe che essere negato.
Al coniuge provvisto di patrimonio e reddito, ma che ha contribuito alla ricchezza personale dell’altro (salvo che si voglia riconoscere solo una blanda azione generale di arricchimento) sarebbe senz’altro da negarsi la componente assistenziale, ma da riconoscere quella perequativa di tale contributo, a prescindere dal bisogno per la sussistenza (e fermi restando i profili di “responsabilità” per il fallimento del matrimonio, ove – eccezionalmente – riscontrabili).
Infine, se il coniuge non ha alcunché da vantare in termini di contributo al risparmio familiare e personale dell’altro, delle due l’una: o è autosufficiente – e allora manca il presupposto per la componente assistenziale (donde il rigetto totale della pretesa); ovvero non è autosufficiente e, per le cose dette, andrà riconosciuto l’assegno, nei limiti del profilo assistenziale e di quanto necessario ad un decoroso stile di vita, ma senza fronzoli; un assegno, dunque, limitato agli alimenti, espunto, perché ultroneo, ogni riferimento ad un tenore di vita che fu e che, però, non è più, soprattutto se fu per impiego e sacrificio dell’altro soggetto.
Nel frattempo, si attende il pronunciamento delle Sezioni Unite, auspicandosi un po’ di maggiore e più rigorosa chiarezza sul punto.
[1] V. per tutte Cass. 18539/2013: “Il riconoscimento dell’assegno non è precluso nè dall’autosufficienza economica del richiedente, occorrendo soltanto che quest’ultimo non disponga di mezzi adeguati alla conservazione del precedente standard di vita, nè dall’addebito della separazione, che può incidere solo sulla misura dell’assegno, per effetto della valutazione demandata al giudice di merito in ordine alle cause del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita fra i coniugi”. Per un analogo riferimento al tenore di vita, v. anche Cass. 16598/2013. Sulla stessa scia e altresì aggiungendosi il riferimento alle aspettative di vita e alle potenzialità economiche, v. Cass. 23442/2013, Cass. 11686/2013, Cass. 20582/2010, Cass. 15610/2007, Cass. 4764/2007, Cass. 6541/2002. Nega espressamente la rilevanza dello stato di bisogno Cass. 4021/2006. A tal punto che, seppur l’assegno consenta di tenere un alto tenore di vita, ma inferiore a quello “altissimo” tenuto in costanza di matrimonio, è legittima una azione di revisione in aumento: Cass. 2747/2011.
[2]Per tutti, v. BIANCA, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2014, pp. 297 ss. In giurisprudenza v. per tutte Cass. 15 gennaio 1998, n. 317, oltre alla giurisprudenza citata alla nota precedente. Per il riferimento alla “solidarietà postconiugale” e all’art. 2 Cost., v. BIANCA, ibidem e Cass., 17 luglio 2009, n. 16789.
[3] Peraltro la Corte richiama, a conforto, l’art. 337-septies, c. 1, c.c. e il previgente (e coincidente) art. 155-quinquies c.c., ove lega la solidarietà “post-potestale” (per usare un neologismo) alla non indipendenza economica del figlio: se dunque, in presenza di tale indipendenza, può cessare addirittura l’obbligo di mantenimento per un figlio, a fortiori dovrebbe cessare quello verso un ex coniuge, tanto più che spesso la causa di divorzio è la previa separazione e, dunque, in ultima istanza, la volontà degli stessi coniugi.
[4] V. ad es. Trib. Torino, decr. 23 ottobre 2017; Trib. Milano, ord. 22 maggio 2017; Cass., 22 giugno 2017, n. 15481, della medesima Sez. I, quasi a consolidare l’orientamento e così creare un succedaneo – invano – di una pronuncia a Sezioni Unite.
[5] Il riferimento è a Trib. Milano cit. nella nota precedente, che si è richiamata ai limiti reddituali previsti dal D.P.R. 115/2002 per la fruizione del patrocinio a spese dello Stato.
[6] Trib. Udine riportata su www.ilfamiliarista.it del 13 luglio 2017. In materia di separazione, invece, Cass. 12196/2017.
[7] L’orientamento cui si allude è quello rinvenibile in BIANCA, op. cit., p. 297 e riferimenti ivi citati. In giurisprudenza, invece, per tutte, v. Cass., 5 luglio 1978, n. 3316 e Cass., 17 ottobre 1977, n. 4425. Peraltro le stesse Sezioni Unite del 1990 alludono ad una possibile funzione risarcitoria dell’assegno in esame.
[8] Peraltro, altra autorevole dottrina (GAZZONI, Manuale di diritto privato, XVI ed., Napoli, 2013, p. 405), pur criticando la tripartizione delle funzioni dell’assegno (segnatamente la funzione risarcitoria), in relazione alla sua finalità assistenziale, con la consueta icasticità e incisività, ricorda come in giurisprudenza si ritenga «contro ogni logica, anche giuridica, che l’adeguatezza dei mezzi vada valutata non in assoluto, con riferimento cioè ad uno standard medio di vita dignitosa, ma con riguardo al tenore di vita goduto (o che si sarebbe potuto godere – ma non si è goduto, magari per avarizia – in base alle disponibilità economiche [C. 09/7614, NGCC 09, I, 907; C. 05/19446, FI 06, 1362]) in costanza di matrimonio alla luce anche delle aspettative esistenti e poi realizzate». Anzi, la medesima dottrina prosegue ricordando quell’assurdo orientamento secondo il quale l’assegno andrebbe rivisitato (in aumento) non solo qualora il tenore di vita sarebbe potuto essere migliore, se il matrimonio non si fosse sciolto, per via di miglioramenti patrimoniali e reddituali del coniuge obbligato e che fossero al livello di mere aspettative al momento del divorzio; anzi, la giurisprudenza ha escluso solo i fatti del tutto imprevedibili ed eccezionali, ritenendo per converso valutabile tutto il resto (laddove invece – e al limite – si sarebbe potuto tener conto delle aspettative certe, relative a sviluppi in nuce, rectius, in fieri al momento del divorzio – ammesso che si debba sottoscrivere il parametro del tenore di vita), quasi che sposarsi sia «come acquistare un pacchetto azionario, che dà dividendi fino a quando si possiede, anche durante la separazione, e poi, se del caso,plusvalenze, quando cessa l’appartenenza, per il divorzio [Gazzoni, DFa 09, 596]» (GAZZONI, ibidem). Nel senso criticato, v. Cass. 23442/2013, Cass. 10210/2005, Cass. 6541/2002, Cass. 4038/2002, Cass. 6660/2001.
[9] E’ evidente, ma vale la pena ricordarlo, che l’obbligo in questione viene qualificato come “alimentare” in senso stretto da tutti. V. ad es., BIANCA, op. cit., p. 179, che parla di “rendita alimentare”.
[10] Infatti, è vero che il divorzio scioglie un matrimonio che c’è stato, mentre nel caso di nullità o annullamento il matrimonio non c’è affatto stato; tuttavia, è altrettanto noto che la nullità/annullabilità matrimoniale non produce effetti se non dal giorno della pronuncia, salvo a retroagire (quindi fino a quel momento i soggetti sono come uniti da matrimonio a tutti gli effetti e, del resto, tali si considerano) e la dottrina non ha mancato e non manca di sottolineare la efficacia distruttiva del divorzio che, ex post, anche se in maniera non retroattiva, produrrebbe sostanzialmente gli stessi effetti della nullità/annullamento, tanto da affermarne spesso una equiparazione. E infatti la dottrina ha anche auspicato la equiparazione totale del trattamento economico del coniuge debole in entrambi i casi: cfr. BIANCA, op. cit., pp. 163 ss.
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Salvatore Pepe
Avv. Salvatore Pepe,
Laurea Magistrale in Giusprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, conseguita in data 16 luglio 2014 con votazione di 110/110 e lode, discutendo una tesi di Laurea in Diritto Processuale Civile con titolo “Le impugnazioni incidentali”
Cultore della materia in "Diritto Notarile" presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II"
Autore di ulteriori pubblicazioni su questa rivista e su altre.
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