L’attività di ristorazione e la tutela della incolumità del cliente
Sommario: Premessa – 1. Natura e definizione del contratto di ristorazione – 2. Drittwirkung: la applicabilità ai rapporti tra privati delle norme costituzionali – 3. Colpa e nesso eziologico: il fatto del terzo e il caso fortuito – 4. Conclusioni
Premessa
Degna di rilievo è sicuramente la recente ordinanza della Corte di Cassazione n° 9997 del 28 maggio 2020: la vicenda processuale all’origine dell’intervento della Suprema Corte ha avvio nel 2007, quando i genitori di una minore, premettendo che la stessa, mentre si trovava all’interno di un ristorante, aveva subito lesioni fisiche, nella specie ustioni, a seguito del rovesciamento sul suo braccio da parte di una cameriere di una pizza bollente, citavano in giudizio, innanzi al Tribunale competente, il gestore dell’attività di ristorazione al fine di ottenere il risarcimento del danno patito.
Il Tribunale di Roma adito, ad esito del giudizio, rigettò la domanda; la sentenza di primo grado fu appellata dai genitori della minore innanzi alla Corte di Appello di Roma, la quale accolse il gravame e ritenne il gestore responsabile, condannandolo al risarcimento dei danni. La sentenza di appello fu poi impugnata per Cassazione ed il relativo giudizio si concluse con la ordinanza n° 9997/20, oggetto della presente trattazione.
E’ importante, a questo punto, cercare di analizzare il percorso logico-giuridico adottato dalla Corte di Cassazione al fine di comprenderne meglio le conseguenze e la portata.
1. Natura e definizione del contratto di ristorazione
Preliminarmente la Corte precisa che il contratto di ristorazione, inquadrabile giuridicamente nel genus più ampio del contratto d’opera, si perfeziona normalmente per facta concludentia al momento in cui l’avventore fa ingresso all’interno del locale ristorante e viene ivi accolto dal titolare o da suoi dipendenti.
Dal momento del perfezionamento del contratto determinato dall’incontro delle volontà del ristoratore e dell’avventore, si producono una serie di obbligazioni a carico delle parti: quella di pagare il prezzo del servizio a carico del cliente, mentre in capo al ristoratore incombe non soltanto l’obbligo di fornire cibi preparati, ma anche quello specifico di, ad usare le parole della ordinanza in esame, “dare ricetto ed ospitalità all’avventore.” Quindi la sussistenza dell’elemento della ospitalità in favore del cliente è conditio sine qua non per la esistenza del contratto di ristorazione, tanto che, argomenta la Corte, in assenza di questo ultimo elemento, a rigore, non di contratto di ristorazione si deve parlare, ma di semplice compravendita di cibi.
Nel contratto di ristorazione, pertanto, l’avventore, dal momento in cui fa ingresso all’interno dei locali di pertinenza del ristorante, affida la propria persona al ristoratore, sua controparte contrattuale, e diviene, contestualmente, titolare del diritto di pretendere dal gestore la tutela della sua incolumità fisica.
Come accade anche nei contratti di albergo e di trasporto, il ristoratore, di contro, assume l’obbligo imprescindibile di tutelare l’integrità fisica della persona dell’avventore.
La Suprema Corte precisa che l’assunzione da parte del ristoratore dell’obbligo di tutelare la incolumità del proprio cliente si produce ipso jure in virtù dell’art. 1347 c.c., il quale prevede che il contratto origina non solo le obbligazioni frutto della volontà delle parti, ma anche tutte quelle che derivano dalla legge, o, in mancanza, dagli usi e dall’equità.
Secondo la Corte di Cassazione, quindi, nel contratto di ristorazione, come in ogni altro contratto in cui una delle parti affida la propria persona all’altra, l’obbligazione a carico del ristoratore di garantire l’incolumità fisica del proprio cliente deriva direttamente da una previsione normativa, che in questo caso non è una norma ordinaria, ma una previsione di rango costituzionale, ed in particolare l’art. 32 della Costituzione che tutela la salute sia come fondamentale diritto dell’individuo, sia come interesse generale della collettività.
2. Drittwirkung: la applicabilità ai rapporti tra privati delle norme costituzionali
La Corte di Cassazione, dunque, assume una netta posizione, nell’ambito del vasto dibattito dottrinale in atto, in favore del cosiddetto principio della Drittwirkung, il quale postula la diretta applicabilità ai rapporti tra privati delle norme costituzionali: nello specifico tale affermazione consentirebbe al Giudice di merito di annullare contratti per contrasto con norme costituzionali o quantomeno di integrare direttamente il loro contenuto con principi sanciti da norme di rango costituzionale.
Ad avviso di chi scrive, tale posizione appare certamente condivisibile con riguardo a norme costituzionali dotate di un elevato grado di concretezza e determinatezza, come, a titolo di mero esempio, giust’appunto l’art 32 della Carta Costituzionale che tutela il diritto fondamentale alla salute, o l’art. 36 che sancisce il diritto del lavoratore a ricevere “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia una esistenza libera e dignitosa”, o l’art. 37 che tutela il lavoro delle donne, delle madri lavoratrici ed il lavoro dei minori, ma anche l’art. 47 che “incoraggia” e “tutela” il risparmio dei cittadini.
Maggiori perplessità, anche in dottrina, possono sicuramente aversi circa la diretta applicabilità ai rapporti tra privati di norme costituzionali aventi valore di principi fondamentali e generali, quali, ad esempio, l’art. 2 della Carca Costituzionale che: “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” richiedendo “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o il successivo art. 3 che sancisce l’uguaglianza dei cittadini, sia formale che sostanziale.
In senso contrario è, però, certamente opportuno menzionare due ordinanze della Corte Costituzionale, e precisamente la n° 248/13 e la n° 77/14: in esse la Corte Costituzionale, esaminando la fattispecie di un contratto che prevedeva il pagamento di una caparra confirmatoria eccessiva, non equa e gravemente sbilanciata in danno di una delle parti, precisa che il Giudice del merito ben può dichiarare la nullità ex art. 1418 c.c. della detta clausola sia per contrasto con l’art. 2 della Costituzione, sia per violazione del principio di buona fede, cui viene attribuita cogenza normativa.
3. Colpa e nesso eziologico: il fatto del terzo e il caso fortuito
Esaurita la disamina della natura giuridica del contratto di ristorazione, la Corte di Cassazione passa ad esaminare la questione relativa alla colpa ed al nesso eziologico tra la condotta del danneggiante e l’evento dannoso, con particolare riferimento alla vicenda concreta che ha portato alla esaminata pronuncia della Corte di Cassazione:
la vicenda, come detto, trae origine dalla richiesta di risarcimento danni avanzata dai genitori di una minore per le ustioni da questa subite nel corso di una cena tra amici all’interno dei locali del ristorante gestito dal convenuto. Materialmente le lesioni furono provocate alla minore perché la cameriera addetta ai tavoli, mentre era intenta a servire, veniva urtata da un commensale della vittima, il quale, stando in piedi e dimenandosi in modo scomposto, colpiva la cameriera, la quale perdendo l’equilibrio inevitabilmente lasciava cadere sul braccio della vittima un pizza bollente.
Innanzitutto l’ ordinanza in esame precisa, da un punto di vista concettuale, che il danno in esame non è stato provocato dal terzo, ma, materialmente, dal personale dipendente del gestore del ristorante, trattandosi di un classico esempio di danno corpore corpori illatum.
Ciò precisato, la Corte chiarisce che, sebbene il danno sia stato materialmente provocato dal ristoratore, come detto a mezzo dei suoi dipendenti, il fatto del terzo può ben essere qualificato come caso fortuito e pertanto, in quanto tale, escludere la colpa del danneggiante, solo se la condotta del terzo non possa essere prevista, né evitata.
Conseguentemente, la Corte precisa che tale prevedibilità o evitabilità del caso fortuito, quando questo sia costituito dal fatto del terzo, non può essere oggetto di presunzione astratta, ma va valutata ed accertata in concreto.
Nello specifico ed in facto occorre che il Giudice del merito accerti se il debitore medio, nella specie il ristoratore medio, adottando la diligenza richiesta per l’esercizio della sua attività professionale di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, avesse potuto prevedere l’evento dannoso; e se sempre il ristoratore, professionista medio, avrebbe potuto materialmente e concretamente adottare modalità diverse di svolgimento della propria attività tale da apparire “salvifica”, cioè sicuramente idonea ad evitare il danno prodotto.
Si tratta di principi pacifici ed indiscussi da ormai due millenni: la Corte, infatti, riporta un caso simile descritto dal famoso giureconsulto Ulpiano, e cioè, il caso di un barbiere che, mentre faceva la barba ad un proprio cliente, lo ferì alla gola perché colpito al braccio, che teneva in mano il rasoio, da un pallone violentemente scagliato da ragazzi che giocavano a palla nei pressi. Ulpiano ritenne il barbiere colpevole per avere scelto di esercitare la propria attività in un luogo in cui notoriamente i ragazzi giocavano a palla.
4. Conclusioni
In definitiva la Corte di Cassazione sostiene che, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte di Appello di Roma, si sarebbe dovuto accertare in facto e concretamente: se la agitazione scomposta della persona che urtò la cameriera fu improvvisa o si protraeva da tempo, ed in questo caso, da quanto tempo; si sarebbe dovuto accertare concretamente in cosa consisteva questa “esagitazione”; si sarebbe dovuto, inoltre accertare, se fu la cameriera ad avvicinarsi incautamente a colui che si dimenava scompostamente o se fu quest’ultimo, subitaneamente, ad abbandonare il proprio posto ed a raggiungere la cameriera; se, infine, vi erano stati precedenti inviti del ristoratore a tenere un comportamento corretto, o se questi lo abbia tollerato e per quanto tempo.
Solo l’accertamento di tali elementi concreti in fatto, non essendo ammissibile il loro postulato in astratto, può consentire di valutare correttamente gli elementi della prevedibilità e della evitabilità ai fini della valutazione della responsabilità del danneggiante.
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