L’attività sportiva e il rischio “consentito”
Le cause di giustificazione, anche dette scriminanti, consentono la non punibilità dell’agente in assenza del carattere antigiuridico del fatto posto in essere dallo stesso.
Detto diversamente, il nostro ordinamento ammette ipotesi in cui il soggetto attivo possa essere assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, laddove al compimento di un fatto di reato e al successivo giudizio di bilanciamento fra gli interessi in gioco, possa ritenersi prevalente l’interesse sotteso alla causa di giustificazione su quello individuale concretamente leso. Orbene, si ha una causa di giustificazione in tutti quei casi tipizzati ex artt. 50 e ss. c.p., e non, in cui manca un danno sociale e, per l’appunto, l’ordinamento opta per la tolleranza della condotta del reo. Guardando alla sua accezione oggettiva, la causa di liceità, rende, appunto, lecito un fatto tipico. Il fondamento delle cause di esclusione della pena risiede nel bilanciamento degli interessi in conflitto all’interno dell’ordinamento e si basa sul principio di non contraddizione secondo cui, così come ribadisce una tesi dottrinale, un medesimo fatto non può, al contempo, essere consentito e vietato.
In materia di scriminanti, prima di passare in rassegna la questione sorta con specifico riferimento all’ambito sportivo, a lungo si è dibattuto sul problema delle scriminanti non codificate. Dottrina e giurisprudenza si sono chieste se fosse possibile lasciare spazio applicativo a cause di esclusione della pena, per così dire, tacite.
Sul tema sono emerse differenti posizioni. La prima impostazione, basandosi su un concetto di antigiuridicità sostanziale, rispondeva positivamente prendendo in riferimento la dottrina tedesca. Orbene, sull’assunto secondo cui un comportamento, pur se in apparente illecito, può non rivestire rilevanze penale laddove risulti quale azione socialmente adeguata in quanto conforme a finalità sociali perseguite in un dato momento storico. Tale tesi non trovò il consenso unanime perché in evidente contrasto con il principio di legalità, in particolare di legalità formale del nostro sistema. Invece, la dottrina tradizionale, poi suffragata dalla giurisprudenza, preferiva ammettere le cause di liceità includendole nello spazio applicativo di quelle tipizzate, in specie quella dell’ ”esercizio del diritto” ex art. 51 c.p. che ricorreva nell’ipotesi in cui fosse constatabile il consenso individuale.
Tale risultato trova conferma nelle fattispecie agonistiche, di cui se ne ammette l’operatività con riferimento alla ratio e alla funzione della disciplina delle cause di giustificazione sopra delineate.
L’ipotesi applicativa più frequente nella prassi giudiziaria è senz’altro quella delle pratiche sportive che ammettono un contatto fisico.
La giurisprudenza già nel 2000, si interrogava sulla possibilità di ricondurre siffatte ipotesi alla causa di giustificazione atipica oppure se fosse meglio optare per il riconoscimento della stessa come scriminante data dal consenso dell’avente diritto di cui all’art.50 c.p. ovvero esercizio del diritto (art. 51 c.p.).
Ebbene, alla luce del fondamento delle cause di esclusione della pena, si è preferito concludere per il riconoscimento di suddetta scriminante inquadrandola nelle cause di giustificazione non codificate.
E invero, bisogna tenere in considerazione che lo sport, inteso in senso lato, consente l’esplicazione della personalità del soggetto, rectius, della collettività.
In tali ipotesi, dunque, la causa di liceità non codificata trova la sua giustificazione nel fatto che la competizione sportiva non solo è ammessa, ma del tutto incoraggiata dallo Stato che ne rileva gli effetti positivi che ne derivano sulla coscienza sociale e sull’intera collettività. Per meglio dire, l’azione apparentemente illecita, in realtà si rivela non contrastante con gli interessi della comunità. Addirittura, la giurisprudenza all’unisono sostiene che l’azione contribuisce a raggiungere questi stessi interessi. Si pensi, ad esempio, agli aspetti favorevoli che discendono dallo sport per quei giovani tendenti ad atteggiamenti devianti. Quanto detto è macroscopicamente visibile negli sports di squadra che inducono alla socializzazione, nonché al coordinamento e al rispetto delle regole tecniche del gioco.
Pertanto, sia che si tratti di cause di giustificazione codificate sia che si tratti di quelle del tipo non codificate, il fondamento appare essere lo stesso: un fatto tipico può essere ritenuto lecito per assenza del danno sociale.
Si assiste in tal modo al superamento di quella tesi dottrinale che riteneva non ammissibili le cause di giustificazione per contrasto con il principio di legalità formale. E invero, la giurisprudenza riconosce l’esistenza della scriminante in ambito sportivo, c.d. scriminante del rischio consentito, proprio sull’assunto secondo cui tale atipicità non è per nulla ostativa trattandosi, anzi, di un procedimento di interpretazione analogica in bonam partem.
Spesso, però, sono sorti dubbi con riguardo all’individuazione della soglia del c.d. “rischio consentito”.
Nel rispondere a tale questione, la giurisprudenza ha da subito chiarito che bisogna distinguere le diverse tipologie di attività sportive. E invero, le pratiche sportive possono distinguersi in due categorie: da un lato quelle che escludono il contatto fisico, ergo, l’eventuale violenza (si pensi all’atletica leggera); dall’altro, quelle che, invece, il contatto fisico lo prevedono. Nell’ambito di queste ultime si possono distinguere due sottocategorie di attività sportiva con riguardo la certezza che da tale contatto può derivarne: di tipo eventuale (si pensi al calcio o all’hockey sul ghiaccio) o di tipo necessaria (pugilato).
La questione che si è posta in riferimento alla soglia del rischio consentito è chiaro che attiene più da vicino i giudici di merito. Gli stessi, infatti, sulla scorta degli indici forniti dal diritto vivente, dovranno interrogarsi con riguardo al fatto concreto e tenendo in considerazione non solo le tipologie di sports sopra descritte, bensì le regole tecniche vigenti per quel determinato settore e, soprattutto, i doveri di lealtà e correttezza posti alla base di qualsiasi attività sportiva, richiamati dai regolamenti federali. Di fatto laddove venissero travalicati i limiti della lealtà e della correttezza nessuna scriminante potrebbe ritenersi operante, anzi, bisognerà interrogarsi sulla volontà del soggetto (da sé solo non decisivo come si vedrà a breve), verificare il momento preciso in cui l’azione è avvenuta e così via.
Guardando ai criteri che indirizzano l’organo giudicante, la giurisprudenza ha passato in rassegna alcuni indici ritenuti importanti al fine di assolvere o meno l’agente atleta.
Principale discrimen tra fatto lecito e fatto penalmente rilevante non può che inquadrarsi nel rispetto delle regole tecniche che presiedono lo svolgimento di ciascuna pratica sportiva. Tali regole limitano l’area del rischio consentito. Dunque, si sottrae alla responsabilità penale quella condotta che, seppur pregiudizievole per l’avversario, sia rispettosa delle regole cautelari. Eppure, la violazione delle misure cautelari non impone un automatismo della responsabilità dell’agente. Invero, l’infrazione integrerà sicuramente un illecito sportivo, ma non ogni illecito sportivo sarà qualificabile come reato.
Pertanto, con riferimento agli indici cui deve far riferimento l’organo giudicante, sicuramente è bene ricordare: la contestualizzazione dell’azione violenta, l’indagine sull’elemento soggettivo, il criterio finalistico, la particolare situazione di gioco (si pensi all’uso dei gomiti tollerato nel basket con esclusivo riguardo alla lotta a ribalzo non anche in fase di palleggio). Con riguardo al primo indice appena citato, si ritiene che la causa di liceità potrà operare solo nell’ipotesi in cui l’azione sia posta in essere nella fase del gioco, non anche in quella di fermo. All’esito positivo di tale criterio, il giudice dovrà accertare se l’agente abbia o meno profittato della circostanza del gioco, ossia se l’azione violenta abbia come fine la messa in pericolo dell’altrui incolumità o il perseguimento dell’obiettivo agonistico. Laddove, poi, si constati che l’agente mirava a volgere un’azione diretta alla persona dell’avversario, bisognerà chiedersi se tale gratuita azione di messa in pericolo dell’altrui incolumità venga posta in forma diretta o intenzionale (dolo diretto o eventuale) ovvero con mera accettazione del rischio di arrecare pregiudizio (colpa).
Pertanto, sulla base di tali indici, si concluderà per la responsabilità dell’atleta quando ricorrano i presupposti dell’abnormità della condotta e della volontarietà del fatto.
Alla luce di ciò si può concludere per il carattere, per così dire, relativo del rischio consentito.
La scriminante del rischio, seppur non codificata, viene accolta unitariamente dalla giurisprudenza purché dal contro-bilanciamento degli interessi in gioco ovvero dal contatto fisico, trasmutato in forza fisica, derivi un vantaggio per la collettività.
In tale prospettiva, si coglie la valenza positiva dello sport nostro ordinamento, che specie nei giochi di squadra affianca al benessere fisico quello della socializzazione, nel rispetto dei principi costituzionali, in particolare di quello contenuto all’art. 2 della Carta Costituzionale, che nel richiamare le formazioni sociali non può che intendere implicitamente anche le associazioni sportive. Pietra angolare dei valori succitati è senz’altro il principio di lealtà-correttezza codificato tramite regole tassative, proprie dei regolamenti federali, che ciascun atleta accetta consapevolmente al momento dell’iscrizione o tesseramento.
In ultimo, è bene richiamare la nozione di illecito sportivo cui la giurisprudenza è giunta all’esito dell’intero dibattito. Secondo le elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali più recenti nell’illecito sportivo suole ricomprendersi tutti quei comportamenti che pur violando le regole cautelari di settore non sono perseguibili penalmente laddove, pur ledendo l’integrità fisica dell’avversario, non superino la soglia del c.d. rischio consentito. In tali ipotesi l’impunità troverà il suo fondamento in una causa di giustificazione non codificata abbracciata dal nostro ordinamento.
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Daniela Restivo
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