L’atto amministrativo contrario al diritto dell’UE ed alla Costituzione: quali i rimedi esperibili?
L’atto amministrativo rappresenta l’espressione dell’azione della p.a., che è finalizzata alla cura dell’interesse pubblico (art. 97 Cost.). Tre sono le tipologie di atto amministrativo individuabili: il regolamento (o altro atto di natura normativa, quale lo statuto degli enti locali), l’atto amministrativo e il provvedimento.
Ciascuno dei suddetti tipi di atto amministrativo si pone talora in contrasto con la legge, rispetto alla quale l’atto emesso dall’amministrazione si trova in un rapporto di subordinazione.
Qualora tale eventualità si verifichi, l’atto amministrativo risulta invalido, e più precisamente (al di là dei limitati casi in cui può dirsi nullo ex art. 21septies l. 241/1990: sul punto si tornerà più avanti) annullabile per violazione di legge ai sensi dell’art. 21octies l. 241/1990. Ciò significa che l’atto in questione può essere rimosso dall’ordinamento a seguito di impugnazione effettuata entro il consueto termine di decadenza di 60 gg, alla quale segua la pronuncia di annullamento del giudice amministrativo (art. 29 cpa). In alternativa, l’atto viziato da violazione di legge potrà essere annullato d’ufficio dall’amministrazione che lo ha emanato, tramite l’adozione di un provvedimento di secondo grado (art. 21nonies l. 241/1990). Va precisato che le norme sopra citate, sebbene facciano riferimento al solo provvedimento, si applicano in realtà anche all’atto amministrativo generale e al regolamento; rispetto a quest’ultimo, peraltro, la giurisprudenza ha ammesso il ricorso alla disapplicazione in luogo dell’annullamento giudiziale.
Se queste sono le coordinate generali in tema di invalidità dell’atto amministrativo, si osserva tuttavia che maggiormente discusse e controverse sono state le peculiari ipotesi dell’atto amministrativo anticomunitario e anticostituzionale, le quali verranno ora esaminate separatamente.
Quanto all’atto amministrativo in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, va preliminarmente evidenziato che le fonti di derivazione europea fanno ingresso nell’ordinamento italiano in posizione sovraordinata rispetto alla legge interna ordinaria. Così stabilisce la Carta costituzionale in due differenti articoli: da una parte all’art. 11, collocato tra i principi fondamentali, a tenore del quale l’Italia soggiace alle limitazioni di sovranità necessarie al fine di garantire la pace e la giustizia tra gli Stati (si tratta a ben vedere di una norma pensata con riferimento all’ONU, ma adesso ritenuta il fondamento della supremazia del diritto UE su quello nazionale); dall’altra parte, all’art. 117 così come riscritto dalla legge costituzionale 3/2001, a detta del quale l’esercizio della potestà legislativa ad opera dello Stato e delle Regioni è sottoposto ai vincoli di derivazione comunitaria.
Pertanto, in virtù degli artt. 11 e 117 Cost., si ritiene che la Costituzione sancisca la primazia del diritto europeo su quello nazionale – come peraltro messo in luce anche dalla giurisprudenza: si veda innanzitutto C. cost. “Granital”, 5 giugno 1984 n. 170 -).
Ebbene, la supremazia della fonte comunitaria da un lato impone che la normativa UE direttamente applicabile (cioè regolamenti e direttive c.d. self-executing) comporti la disapplicazione della norma interna con essa in contrasto, mentre dall’altro lato fa sì che la legge e la giurisprudenza UE dotate di mera efficacia indiretta possano rendere la norma interna ad esse contraria incostituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. Peraltro, va sottolineato che il Giudice delle leggi può opporre alla prevalenza della fonte europea su quella nazionale i c.d. controlimiti, cioè principi costituzionali considerati inderogabili anche da una normativa sovraordinata in quanto caratterizzanti l’essenza e la fisionomia dello Stato italiano.
Si è detto finora specificamente della primazia dell’ordinamento comunitario rispetto alla legge; una tale posizione di sovraordinazione si registra tuttavia anche rispetto alle fonti sottoordinate alla legge, cioè agli atti amministrativi (sub specie di regolamenti, atti amministrativi generali e provvedimenti). Se ciò è pacifico, è però anche vero che il rimedio utilizzabile nei confronti della norma contrastante con la normativa UE è stato, negli anni, diversamente individuato.
Secondo una teoria ormai superata, l’atto amministrativo anticomunitario sarebbe nullo ex art. 21septies l. 241/1990 in quanto affetto da un vizio radicale e insanabile. Tale infatti, si sosteneva, è quell’atto che viola l’ordinamento europeo, ordinamento prevalente sulla norma nazionale per espresso disposto costituzionale.
Viceversa, in base ad una diversa opzione ermeneutica, l’atto amministrativo in contrasto con le disposizioni e la giurisprudenza europee è annullabile per violazione di legge in forza degli artt. 21octies e 21nonies l. 241/1990. La normativa UE, si afferma infatti, ha valore di legge, anche se si tratta di legge sovraordinata rispetto a quella ordinaria: ne deriva la riconducibilità della stessa nella nozione di “legge” a cui si riferiscono i sopra citati articoli della Legge sul procedimento amministrativo.
La tesi favorevole all’annullabilità per violazione di legge del provvedimento anticomunitario è stata tuttavia avversata da coloro che ritenevano l’atto in parola non annullabile, bensì passibile di disapplicazione.
Si opinava infatti che, se la legge contrastante con il diritto europeo è suscettibile di essere disapplicata (senza che vengano in rilievo termini di decadenza), a maggior ragione doveva essere disapplicabile l’atto amministrativo, dotato di un grado di cogenza inferiore rispetto alla fonte normativa primaria. Non si ammetteva infatti che l’atto amministrativo violativo del diritto UE, a differenza della legge, potesse rimanere valido ed efficace se non impugnato entro 60 gg.
A tale argomento si è però obiettato con un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, si è fatto notare che anche gli atti amministrativi di matrice europea (come i regolamenti europei) sono soggetti al regime dell’annullabilità: conseguentemente, a fortiori, ben potrebbero considerarsi annullabili gli atti amministrativi emanati (non dagli organi europei ma) dagli Stati membri.
In secondo luogo, si è affermato che il rimedio dell’annullabilità soddisfa i parametri di equivalenza ed effettività richiesti dalla giurisprudenza europea: infatti da una parte il rimedio dell’annullamento è stabilito anche nei confronti dell’atto amministrativo interno, e dall’altra parte il termine di 60 gg non risulta eccessivamente breve ed assicura quindi una tutela effettiva al ricorrente che si assume leso dall’atto anticomunitario.
Oggi, pertanto, si ritiene che l’atto amministrativo in contrasto con la normativa UE sia annullabile per violazione di legge. In relazione al tema de quo, si pongono poi due ulteriori questioni.
Innanzitutto, quella dell’intangibilità o meno di quel giudicato che presuppone la validità di un atto amministrativo violativo dell’ordinamento eurounitario. Alla domanda si deve rispondere richiamando la soluzione prospettata rispetto al giudicato antieuropeo tout court: la sentenza divenuta irrevocabile è cioè intangibile, salvo che ricorrano simultaneamente le seguenti condizioni: esaurimento dei gradi di ricorso interni; mancata disapplicazione, da parte, del giudice della norma (nel nostro caso, dell’atto) contrastante con la normativa UE; mancata proposizione del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE da parte del ricorrente; successiva giurisprudenza della Corte di giustizia che sancisca il contrasto della norma interna (qui atto interno) col diritto europeo.
Al di fuori di tali presupposti, il giudicato nazionale anticomunitario rimane in vita, attesa l’assenza, nell’ordinamento interno, di uno specifico rimedio volto alla sua caducazione: infatti, la revocazione, disciplinata dall’art. 360 e ss. c.p.c., opera solo in caso di errore di fatto (e non invece in caso di errore di diritto, quale sarebbe la mancata applicazione della normativa UE). La ratio di siffatto orientamento dei giudici europei va rinvenuta nella volontà di garantire la stabilità di una (anche se errata) decisione definitiva, idonea ad ingenerare l’affidamento delle parti.
Occorre poi, in secondo luogo, segnalare un fenomeno a cui si sta assistendo di recente, cioè la tendenza della Corte di Cassazione ad ampliare la nozione di “limiti esterni della giurisdizione” a cui fa riferimento l’art. 111 c.8 Cost.
A mente di tale norma, la decisione irrevocabile adottata dal giudice amministrativo è suscettibile di essere sindacata dalla Cassazione qualora oltrepassi i limiti esterni della giurisdizione devoluta al g.a. ex art. 103 Cost. Orbene, di recente la Cassazione ha rivendicato la possibilità di sindacare la sentenza del g.a. passata in giudicato qualora questi sia incorso in un error in procedendo di particolare gravità, quale la mancata disapplicazione della norma interna antieuropea (tale tendenza, peraltro, è stata criticata dalla Corte costituzionale, a parere della quale un errore di diritto non può dar luogo a violazione dei limiti esterni della giurisdizione soltanto perché grave).
Il tema della revocabilità del giudicato anticomunitario da parte della Cassazione viene qui in rilievo poiché ad essere in contrasto con la normativa eurounitaria può essere non solo la legge interna, ma anche l’atto amministrativo interno ad essa conforme.
Terminata l’analisi riguardante l’atto amministrativo anticomunitario, occorre a questo punto esaminare l’ipotesi dell’atto amministrativo incostituzionale.
In proposito, si sostiene che l’atto adottato dalla p.a. possa violare la Costituzione in via diretta oppure in via indiretta: la prima eventualità si riscontra di rado, mentre capita più frequentemente che un atto amministrativo sia incostituzionale perché conforme ad una legge o norma incostituzionale (in altre parole, in questa seconda ipotesi dall’illegittimità costituzionale della norma nazionale deriverebbe anche l’incostituzionalità dell’atto amministrativo rispettoso di tale norma).
Sia in caso di incostituzionalità diretta dell’atto amministrativo, sia in caso di incostituzionalità mediata, comunque, si reputano applicabili il rimedio annullatorio di cui all’art. 21octies l. 241/1990 e l’annullamento in autotutela di cui all’art. 21nonies l. 241/1990. La Costituzione, si afferma infatti con riferimento all’incostituzionalità immediata, è una legge (seppur di rango superiore a quella ordinaria); quanto all’ipotesi di incostituzionalità mediata, invece, la conformità dell’atto amministrativo alla legge ordinaria non pone l’atto amministrativo al riparo dal vizio di violazione di legge: la normativa violata, infatti, è qui quella costituzionale.
Quanto alla causa di invalidità che attinge l’atto amministrativo incostituzionale, giova peraltro ricordare che secondo un orientamento affermatosi in tempi recenti (si veda ad esempio TAR Veneto Sez. I, 22 luglio 2019 n. 890), verrebbe in rilievo non il vizio dell’annullabilità per violazione di legge, bensì quello della nullità di cui all’art. 21septies l. 241/1990. In particolare, l’atto sarebbe nullo quando rappresenterebbe l’attuazione di una norma attributiva del potere (quale ad esempio l’art. 43 dpr 327/2001 in tema di acquisizione sanante di immobile costruito in assenza di decreto di esproprio o dichiarazione di pubblica utilità), poi dichiarata incostituzionale. Il rilievo della nullità sarebbe esercitabile d’ufficio dal giudice.
Ricordiamo poi che in relazione all’atto amministrativo contrastante con la Costituzione, in giurisprudenza sono stati affrontati due profili problematici. Il primo attiene alla possibilità per il g.a. di emanare provvedimenti cautelari nelle more della decisione della Corte costituzionale riguardante una legge a cui l’atto amministrativo è conforme. Si è sostenuto infatti che la concessione della tutela cautelare potrebbe fondarsi su una legge costituzionalmente illegittima, il che non sarebbe accettabile.
La giurisprudenza ha allora elaborato la seguente soluzione: nelle more del giudizio di costituzionalità, il g.a. può concedere una tutela interinale, o “precautelare”; qualora poi il Giudice delle leggi dovesse dichiarare inammissibile o rigettare la questione di costituzionalità, innanzi al g.a. si svolgerà il processo cautelare vero e proprio.
Il secondo profilo controverso concerne invece la compatibilità della domanda di incostituzionalità con il principio dispositivo, enunciato dall’art. 112 c.p.c. e valido anche nel processo amministrativo in forza del rinvio esterno ex art. 39 cpa.
Nel dettaglio, si è ritenuto che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato impedirebbe al g.a. di sollevare d’ufficio questione di costituzionalità della norma sulla cui base è stato emanato l’atto amministrativo rilevante nel caso di specie. Questo è anche l’orientamento seguito dalla giurisprudenza, secondo la quale il g.a. non può proporre questione di costituzionalità in mancanza di un’apposita richiesta di parte, pena la violazione dell’art. 112 c.p.c.
Bibliografia e sitografia:
– F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, VIII ed., Dike, 2015;
– E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, XIX ed., Giuffré, 2017;
– Lezioni prof. L. S. Bertonazzi tenute nell’ambito del Corso teorico-pratico in diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo di preparazione al concorso in magistratura ordinaria, organizzato dalla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali delle Università degli Studi di Milano, di Milano Bicocca e dell’Insubria in collaborazione con Fondazione Istud, frequentato nel periodo 10/2016-06/2017;
– Lezioni Cons. Roberto Giovagnoli tenute nell’ambito del Corso teorico-pratico in diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo di preparazione al concorso in magistratura ordinaria, frequentato nel periodo 10/2018-06/2019;
– https://www.filodiritto.com/nuove-tendenze-nel-regime-di-invalidita-dellatto-amministrativo-incostituzionale-0.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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