L’atto lecito dannoso e sua particolare applicazione nel Fallimento

L’atto lecito dannoso e sua particolare applicazione nel Fallimento

La categoria dei c.d. atti leciti dannosi comprende tutti quegli atti che, pur determinando la lesione della sfera giuridica di uno o più soggetti, tuttavia ricevono una regolamentazione del tutto particolare e differente rispetto alla disciplina che la legge prevede per la generalità degli atti illeciti[1]

Il codice civile e le leggi speciali individuano molteplici fattispecie nelle quali ad atti e comportamenti, espressamente autorizzati dalla legge, conseguono obbligazioni di natura sostanzialmente risarcitoria in capo a colui che tali atti o comportamenti ha posto in essere.

Si deve preliminarmente osservare che non tutta la dottrina condivide la definizione, data alla figura giuridica in esame, di «atto lecito dannoso».

Tale definizione, infatti – come, del resto, la stessa configurazione che della disciplina in esame viene prospettata – trova fondamento nella concezione sanzionatoria della responsabilità civile. Invero, se la responsabilità risarcitoria costituisce una conseguenza del comportamento riprovevole di colui che ha causato il danno, è evidente che, ove un giudizio di riprovevolezza non possa essere pronunciato, non sussisterà l’obbligo di risarcimento.

L’atto lecito dannoso costituisce, in una simile prospettiva, un’ipotesi eccezionale limitata, in quanto tale, ai soli casi espressamente previsti dalla legge[2]. Invero, l’atto lecito è privo della qualificazione di antigiuridicità che, secondo l’orientamento in esame, caratterizza la responsabilità risarcitoria. Atto lecito, dunque, che si contrappone all’atto illecito ma che, analogamente a quest’ultimo, produce un danno ingiusto risarcibile.

Altro e più recente orientamento in materia di responsabilità civile, afferma che in realtà, gli atti leciti dannosi di cui si discute, costituiscono una categoria generale, suscettibile di interpretazione analogica e la cui disciplina è pertanto applicabile alle fattispecie simili, nelle quali, cioè, ad un comportamento autorizzato dalla legge, quest’ultima ricollega conseguenze di natura risarcitoria.

Invero, si è detto che spesso la responsabilità sorge indipendentemente dalla colpa del soggetto, per il solo fatto che un evento sia ad esso materialmente imputabile. La legge prevede, altresì, determinati criteri di collegamento che prescindono dalla derivazione materiale dell’evento stesso da colui che è obbligato a corrispondere il risarcimento. In questi casi, cioè, manca una condotta soggettivamente, o anche oggettivamente, imputabile e, tuttavia, è espressamente prevista un’obbligazione risarcitoria.

Ciò che rileva, quindi, è la verificazione materiale del danno e del conseguente pregiudizio che viene arrecato. La risarcibilità del danno stesso non viene determinata dalla qualificazione della condotta, sebbene da una valutazione strettamente attinente alla sfera economica e patrimoniale dei soggetti del rapporto.

Proprio in considerazione delle suindicate valutazioni si deve ritenere che anche la ratio della risarcibilità dei danni conseguenti alle attività cd. lecite debba essere individuata in un’esigenza di salvaguardia delle ragioni che, di volta in volta, l’ordinamento ritiene meritevoli di tutela. Si tratta, quindi, di quel bilanciamento degli opposti interessi, che induce a privilegiare, in presenza di determinate circostanze, alcune posizioni giuridiche soggettive rispetto ad altre.

Mentre l’obbligo di risarcimento dei danni cagionati da atto illecito è previsto dalla norma generale (l’articolo 1218 del codice civile per la responsabilità contrattuale e l’articolo 2043 per quella extracontrattuale), non esiste una norma generale che preveda l’obbligo di indennizzo per pregiudizi da atto lecito, perché gli atti leciti sono, per definizione, consentiti dall’ ordinamento e, come tali, non possono dare luogo a sanzione a carico di chi li compie.

Nondimeno, in alcuni casi l’ordinamento, per motivi di equità, ritiene che chi ha compiuto l’atto, pur lecito, debba farsi carico di una parte delle conseguenze negative che dallo stesso sono sorte a danno di altri, addossandogli l’obbligo di indennizzo[3].

L’esempio più significativo di indennizzo è quello previsto in caso di espropriazione per pubblica utilità. La perdita della proprietà che deriva dal provvedimento espropriativo è di per sé lecita ma chi beneficia dell’espropriazione(di solito, ma non necessariamente, una pubblica amministrazione), deve indennizzare il proprietario espropriato per il sacrificio del suo diritto. Nel nostro ordinamento tale diritto dell’espropriato è riconosciuto a livello costituzionale (articolo 42 Cost.).

La legge contempla inoltre numerose quanto eterogenee altre ipotesi di indennizzo. Si pensi, ad esempio, all’articolo 2045 c.c., il quale dispone che nell’ ipotesi in cui un soggetto compia un fatto dannoso in stato di necessità (ovvero perché costretto dalla necessità di salvare sé o ad altri da un grave pericolo non causato volontariamente da lui e non era altrimenti evitabile), al danneggiato non è dovuto il risarcimento ma un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice.

Altro esempi sono rappresentati dagli articoli 924 c.c. (“il proprietario di sciami di api ha diritto di inseguirli sul fondo altrui; ma deve indennità per il danno cagionato al fondo”), 925 c.c. (“gli animali mansuefatti possono essere inseguiti dal proprietario nel fondo altrui, salvo il diritto del proprietario del fondo a indennità per il danno”), o, ancora, 937 c.c., dettato in tema di accessione, in cui il terzo e il proprietario in mala fede che abbiano utilizzato materiali altrui per eseguire le costruzioni sul suolo, sono tenuti in solido, nel caso in cui non sia possibile la separazione, al pagamento in favore del proprietario dei materiali stessi, di una indennità corrispondente al valore dei materiali. In definitiva, l’indennizzo è una prestazione patrimoniale che vale a compensare il soggetto a seguito di un pregiudizio patito, ovvero del sacrificio di un diritto. In ossequio al principio di integrale riparazione del danno, il risarcimento svolge invece una funzione essenzialmente riparatrice, mirando alla reintegrazione di un equilibrio alterato dall’illecito.

In questo quadro di rinnovato interesse per la categoria dell’atto lecito dannoso da parte della dottrina, sul fronte giurisprudenziale si registrano invece pochi interventi. In particolare quello della Suprema Corte di Cassazione, sez. II Civile, con la sentenza n. 25292/15, in tema di avvenuta realizzazione di “plinti e travature” all’interno di un fondo di proprietà esclusiva di un singolo condomino, senza il previo consenso di quest’ultimo.

Attraverso una particolare applicazione del principio di giustizia distributiva, in forza del quale, quando una determinata attività volta alla realizzazione di un’utilità collettiva implica un costo, in termini di danno o onere, lo stesso deve essere sopportato da tutti coloro che beneficiano di tale utilità. Applicando il suddetto principio al peculiare caso posto alla propria attenzione, la Corte osserva che “l’onere necessario alla produzione di un’utilità collettiva nell’interesse di tutti i condomini deve essere proporzionalmente distribuito tra tutti i comunisti e non deve finire per gravare esclusivamente sul singolo condomino, la cui proprietà esclusiva sia risultata menomata a seguito e per effetto della realizzazione delle opere dirette a consolidare l’edificio condominiale pericolante”.

La Suprema Corte sul c.d. danno da atto lecito giunge a tali conclusioni considerando altresì che “in una situazione di coesistenza di due diritti – quello del condominio ad eseguire le opere, imposte dalla pubblica amministrazione, di consolidamento delle strutture portanti della proprietà comune, da una parte; e quello del singolo condomino a non vedersi menomato nel godimento del proprio diritto di proprietà esclusiva sulla unità immobiliare posta nello stesso edificio condominiale, dall’altra – l’obbligo di indennizzare il condomino danneggiato dall’esecuzione dell’opera costituisce la soluzione adottata dall’ordinamento giuridico per contemperare e comporre i due interessi in contrasto, nessuno dei quali appare interamente sacrificabile all’altro. Infatti, dalla coesistenza dei due diritti e dalla necessità di tutelarli entrambi deriva che, ogniqualvolta l’esercizio dell’uno provochi una menomazione dell’altro, al soggetto danneggiato nella sua proprietà esclusiva deve essere accordato un compenso equivalente al sacrificio sopportato, al fine di evitare che il peso del pregiudizio gravi interamente sulla sua sfera giuridica”.

Altra particolare applicazione dell’indennizzo da atto lecito dannoso si è avuta in ambito fallimentare. Nello specifico sull’art 79 della Legge Fallimentare del 1942,  rubricato “Contratto di affitto d’azienda” secondo cui: << il fallimento non è causa di scioglimento del contratto di affitto d’azienda, ma entrambe le parti possono recedere entro sessanta giorni, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo,che, nel dissenso tra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. L’indennizzo dovuto dalla curatela è regolato dall’art 111, n.1.>>

L’art 79 l.f. pone a carico del recedente, chiunque esso sia, l’obbligo di corrispondere alla controparte un equo indennizzo, che nel dissenso tra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. La determinazione dell’indennizzo è rimessa, in prima battuta, alle parti ed in mancanza di accordo al giudice delegato, con la conseguenza che l’accordo comunque qualificato, costituendo atto di straordinaria amministrazione, va per la parte fallita, autorizzato dal comitato dei creditori a norma dell’art 35 l.f.[4] e la quantificazione del giudice delegato, sostanziandosi in un decreto che incide sui diritti soggettivi, è impugnabile a norma dell’art 26 l.f.

L’espressa e specifica disposizione legislativa che demanda al giudice delegato la determinazione dell’indennizzo esclude che sia necessario per la parte che deve ricevere l’indennizzo ricorrere alle modalità di cui al Capo V l.f., quale credito prededucibile contestato[5]. Non a caso l’art 79 richiama l’art 111, allo scopo di riconoscere al credito per indennizzo la collocazione prededuttiva, ma non l’art 111 bis, che regolamenta l’accertamento dei crediti in prededuzione con rinvio (e non per tutti) al sistema dell’accertamento del passivo quando siano contestati.

Quanto alla determinazione dell’equo indennizzo contemplato dall’art 79 l.f., questo analogamente all’equo indennizzo previsto dall’art 80, comma 2, l.f.[6] per il recesso dal contratto di locazione, ha a secondo concorde dottrina e giurisprudenza, natura indennitaria (equitativa) e non risarcitoria, costituendo il corrispettivo dell’esercizio della facoltà di recesso concessa dalla legge, per cui non può che consistere in un obbligo mitigato rispetto all’obbligo di risarcire il danno da inadempimento, perché altrimenti non vi sarebbe alcuna distinzione di effetti tra fatto illecito ed atto lecito[7].

Pertanto, tale indennizzo va quantificato, non con l’intento di compensare l’intero pregiudizio subito dalla controparte calcolando il danno emergente ed il lucro cessante, ma attraverso un bilanciamento degli interessi in gioco in cui l’equità assume un ruolo determinante, visto che la legge prevede come dovuto non solo un indennizzo, ma un indennizzo equo, che equivale al giusto indennizzo previsto dall’art 104 bis l.f. per il recesso del curatore dall’affitto di azienda da lui stipulato.

Ovviamente, se il danno emergente e il lucro cessante non possono costituire il pregiudizio da ristorare, essi possono comunque essere utilizzati come parametri di riferimento per la determinazione dell’equo indennizzo, adattandoli alla specifica situazione.

E così, se nel recesso dell’affittante l’equo indennizzo non va esattamente commisurato al danno emergente, relativo al pregiudizio derivante dall’interruzione delle lavorazioni in corso, dalle eventuali penalità da pagare a terzi e dall’entità degli investimenti effettuati, né al lucro cessante derivante dal mancato incasso degli utili netti che possono maturare nel periodo rimanente di vigenza del contratto; è anche vero che questi elementi vanno tenuti presenti nella valutazione equitativa dell’indennizzo, in modo che questo, seppur non avente carattere risarcitorio non sia sganciato dalla realtà ma tenga conto dell’interesse che le parti hanno all’adempimento delle reciproche prestazioni cui ciascuna ha diritto, valutando le ripercussioni dell’anticipata cessazione del rapporto sull’equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta[8].


[1] In generale, sul punto, D. RUBINO, Osservazioni in tema di stato di necessità e concorso di persone nel fatto colposo, in Riv. giur. circ. trasp., 1953, p. 204 ss.; G. TUCCI, La risarcibilità del danno da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 229 ss. Parla, in questo caso, di danno non antigiuridico A. DE CUPIS, Il danno, cit., p. 25, il quale, qualificando l’antigiuridicità quale «espressione della prevalenza accordata dal diritto ad un interesse opposto», individua ipotesi di danno che mirano «non già a garantire la prevalenza di un interesse, ma, bensì, a compensare il soggetto dell’interesse da esso stesso sacrificato».
[2] A. DE CUPIS, Il danno, cit., p. 34, il quale afferma che «il danno, il quale non sia contra ius, solo eccezionalmente assume senso giuridico».
[3] C. BOUNAURO, Responsabilità da atto lecito dannoso, Milano, 2012, pp. 139 ss. secondo cui il risarcimento ruota intorno alla ingiustizia del danno, mentre l’indennità presuppone atti e comportamenti leciti e l’assenza di antigiuridicità della condotta eziologicamente produttiva di nocumento, sicché «alla lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento non si accompagna la violazione del parametro normativo di riferimento».
[4] La dottrina è concorde sul punto. Ove sia il fallimento ad esercitare il recesso, il curatore dovrà essere autorizzato sia al recesso sia alla determinazione dell’indennizzo, con separati o anche con unico provvedimento.
[5]In tal senso A.ROSSI, Sub art. 79 l.f., in Commentario alla legge fall., diretto da C.CAVALLINIi, Milano,2010,491; F,MURINO, op. cit.,834; Trib. Roma 15 maggio 2012 che ritiene che la norma di cui all’art 79 disciplini l’ipotesi fisiologica del mero dissenso delle parti sull’entità del giudizio, nel mentre l’accertamento del passivo si renderebbe necessario quando venga contestato in radice il diritto all’indennizzo.
[6]L’attuale art 80 utilizza la stessa dizione di equo indennizzo nel caso di recesso del curatore dal contratto di locazione, mentre il vecchio testo  ante riforma parlava di “giusto compenso”. Questa terminologia , pur evocando una forma di ristoro a favore del conduttore per l’anticipata fine del contratto, veniva comunque intesa come espressiva di un obbligo non risarcitorio a carico della curatela. Cfr Cass. 29 gennaio 1999, n.684.
[7] Trib. Udine 11 settembre 2017,cit; Trib. Udine 3 maggio 2013.
[8] Criteri esposti da Cass. 4 aprile 2006, n. 7835, in Not. giur.lav., 2006,5,723, ripresa da Cass. 9 maggio 2007, n.10626 in Giust. civ, 2008,9, I, 2013, con riferimento al potere di riduzione della penale.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti