L’avvocato low cost e il divieto di accaparramento di clientela previsto dal codice deontologico forense

L’avvocato low cost e il divieto di accaparramento di clientela previsto dal codice deontologico forense

 Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza del 28 dicembre 2017, n. 244[1],  ha ribadito la rilevanza del “divieto di accaparramento della clientela”, evidenziando il seguente principio: “l’accettazione di un incarico professionale comportante un compenso onnicomprensivo irrisorio mortifica la funzione stessa  della professione forense, estrinsecandosi in un comportamento lesivo del decoro e della dignità che devono caratterizzare le attività dell’avvocato”.

Con la predetta pronuncia il C.N.F. qualifica tale pratica come volta “a turbare la corretta concorrenza tra professionisti” e sottolinea “la peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale impone le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione”.

La sentenza in commento opera un rinvio all’art. 37 del codice deontologico forense pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 241 del 16 ottobre 2014, in vigore dal 16 dicembre 2014 e posto a tutela sia della figura del singolo avvocato che dell’intera categoria dell’ordine forense.

L’art 37 del codice deontologico forense, contenuto all’interno del titolo II (rapporti con il cliente e la parte assistita) rubricato “divieto di accaparramento di clientela”, afferma che: “1. L’avvocato non deve acquisire rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi a correttezza e decoro. 2.L’avvocato non deve offrire o corrispondere a colleghi o a terzi provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali. 3. Costituisce infrazione disciplinare l’offerta di omaggi o prestazioni a terzi ovvero la corresponsione o la promessa di vantaggi per ottenere difese o incarichi. 4. E’ vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico. 5.E’ altresì vietato all’avvocato offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per uno specifico affare. 6.La violazione dei doveri di cui ai commi precedenti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura”[2].

Il predetto articolo chiude il titolo II del codice deontologico forense ed è di particolare importanza poiché, oltre ad operare un palese richiamo ai doveri di lealtà e di correttezza verso i colleghi e le Istituzioni forensi  (sancito dall’art. 19), è posto a tutela dell’affidamento della collettività e della clientela e riafferma, con il rilievo sociale della difesa, i valori della dignità e del decoro della professione forense[3].

Dunque la vigente legge professionale, attribuisce alla figura dell’avvocato una funzione di garanzia per la tutela effettiva dei diritti del cittadino; l’esercizio del diritto alla difesa ex. art. 24 Cost., indirizza l’attività del legale orientandola alla valorizzazione dello stesso. Dovrebbe, pertanto, appartenere geneticamente al professionista la convinzione dell’onerosità della propria prestazione come di una componente necessaria per il rilievo sociale della funzione difensiva, per l’indipendenza e l’autonomia con cui deve essere svolta.

A fronte della sopravvenuta abolizione delle tariffe minime la pattuizione sui compensi è oggetto di libera contrattazione (pur con i limiti previsti dal codice deontologico), ma ciò non implica che essa debba rivelarsi instabile e priva di una sua precisa identità economica, bensì che la stessa debba essere regolata dai valori della dignità e del rispetto per il proprio lavoro compiuto.

Così, come confermato dal C.N.F. l’avvocato che accetta un incarico professionale comportante un compenso onnicomprensivo irrisorio prefigura un accaparramento di clientela con modi non conformi a correttezza e decoro.

Costituisce, altresì, accaparramento della clientela ai sensi dell’art. 37 del codice deontologico, l’avvocato che acquisisce rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi a correttezza e decoro, ovvero l’avvocato che offre o corrisponde a colleghi o a terzi provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali.

Il C.N.F. istituzione apicale del sistema dell’ordinamento forense si è pronunciato più volte in merito al predetto argomento, evidenziando l’importanza del divieto di accaparramento di clientela. Difatti, secondo la pronuncia del C.N.F. 13/05/2002, n. 49, pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante l’avvocato che utilizzi per l’assunzione degli incarichi professionali un procacciatore cui riconosca un compenso percentuale.

Altresì, pone in essere una condotta disciplinarmente rilevante l’avvocato che prometta e corrisponda a un terzo assicuratore somme di denaro affinché lo stesso induca i propri assicurati, che avessero subito danni in sinistri stradali, ad avvalersi delle prestazioni professionali dello stesso, perché si tratta di un comportamento lesivo del dovere di correttezza e probità e configurante una vietata ipotesi di accaparramento di clientela (C.N.F. 28/12/2005, n. 186).

Vìola l’art. 37 del codice deontologico forense, l’avvocato presso il cui studio legale sia ubicata una associazione di categoria, così ponendo in essere le condizioni di potenziale accaparramento di clientela, indipendentemente dalla circostanza dell’effettivo raggiungimento di concreti vantaggi economici[4].

Anche la pubblicità e le nuove forme di ricerca della clientela quali siti web e social network costituiscono un punto cruciale nella modernizzazione dell’Avvocatura, difatti l’avvocato può avvalersi di tali mezzi purché nel rispetto delle norme deontologiche e nello specifico dell’art 37 del codice predetto.

Invero, il C.N.F. si è espresso in merito con alcune pronunce dovendo adeguare la disciplina codicistica con le nuove esigenze emergenti, dettando dei canoni che le informazioni sull’attività professionale devono rispettare e posto una serie di limiti abbastanza circoscritti entro cui l’informazione pubblicitaria può legittimamente muoversi.

In precedenza il sostanziale divieto di utilizzo dei social networks ai fini pubblicitari appariva illogico, anacronistico e del tutto privo di sostanziali giustificazioni: così diversi interventi normativi del C.N.F. hanno introdotto una modifica volta ad aprire alla libertà dei canali comunicativi: qualsiasi mezzo è ammesso, purché nel rispetto dei doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale e rispettando i principi di dignità e decoro.

Il D.L. n. 223/2006, art. 2, conv. con L. n. 248/2006, ha abrogato le disposizioni legislative che prevedevano, per le attività libero-professionali, divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa.

Orbene, l’avvocato ha il diritto di poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale; tuttavia, la modalità ed il contenuto di tale pubblicità non devono assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa”, né possono ledere la dignità e il decoro professionale, in quanto i fatti lesivi di tali valori integrano illecito disciplinare e possono configurare una violazione dell’art.37 del codice deontologico forense[5].

Costituisce violazione del divieto di accaparramento di clientela, l’avvocato che curando una rubrica indichi in calce alla stessa i recapiti del proprio studio al fine dell’invio diretto della corrispondenza, in quanto ciò costituisce potenziale strumento di accaparramento o sviamento della clientela e deve perciò considerarsi strumento non conforme alla dignità e al decoro propri di ogni pubblica manifestazione dell’avvocato[6].

Invece, si comporta in modo corretto l’avvocato che indica i settori di esercizio dell’attività professionale e, nell’ambito di questi, eventuali materie di attività prevalente, ma l’affermazione di una propria “specializzazione” presuppone l’ottenimento del relativo diploma conseguito presso un istituto universitario[7].

Non comporta alcuna violazione deontologica l’intervista apparsa su un quotidiano quando si escluda “l’intenzionalità” dell’incolpato di farsi pubblicità in violazione delle norme deontologiche[8].

L’art. 37 cod. deontologico è strettamente collegato con l’art. 35 del codice deontologico rubricato “doveri di corretta informazione” in base al quale: “l’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse, deve rispettare i doveri di lealtà correttezza trasparenza segretezza e riservatezza facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale”[9].

L’informazione sull’attività professionale deve essere, infatti, rispettosa della dignità e del decoro professionale e quindi, deve essere di tipo semplicemente conoscitivo, potendo il professionista provvedere alla sola indicazione delle attività prevalenti o del proprio curriculum.

Pertanto, l’avvocato non è tenuto a dare informazioni comparative, equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti la propria attività professionale.

Inoltre, il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza del 6 giugno 2013, n. 89 ha definito altresì il concetto di accaparramento di clientela attraverso internet: ovvero, l’offerta di prestazioni professionali ad un costo simbolico – low cost, in base alla quale, costituisce illecito disciplinare l’informazione, diffusa anche attraverso siti internet, fondata sull’offerta di prestazioni professionali gratuite ovvero a prezzi simbolici o comunque contenuti e bassamente commerciali, in quanto volta a suggestionare il cliente sul piano emozionale, con un messaggio di natura meramente commerciale ed esclusivamente caratterizzato da evidenti sottolineature del dato economico[10].

Degno di biasimo è l’avvocato c.d. “a domicilio”, il quale offra le proprie prestazioni professionali, direttamente o per interposta persona, direttamente al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavori, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico.

È altresì vietato offrire senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata rivolta ad una persona determinata per uno specifico affare.

È doveroso citare una recentissima sentenza del Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 69/18 la quale ha sancito che l’avvocato non può offrire patrocinio gratuito per accrescere la propria popolarità, affermando il disvalore della condotta del legale che trascurando e superando i colleghi destinati quali difensori, si rivolga ad un soggetto prospettando interventi forse risolutivi a carattere gratuito.

Secondo il Consiglio, tale comportamento comporta un’indebita intrusione con sostanziali intenti denigratori in una pratica altrui che si risolve in un tentativo di acquisizione di clientela attraverso l’offerta di una prestazione ad un determinato soggetto[11].

Alla luce di quanto predetto, concludo il presente saggio evidenziando che in questo periodo storico l’avvocatura ha il dovere di riconquistare la fiducia della collettività e di ristabilire, nel sentimento comune, l’importante ruolo sociale svolto dall’avvocato. Uno strumento per perseguire tale obiettivo è quello di conoscere le regole deontologiche e di auspicarne, in modo serio e convinto, il rispetto[12].

 

 


[1]Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Picchioni, rel. Merli), sentenza del 28 dicembre 2017, n. 244 – Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Picchioni, rel. Merli), sentenza del 28 dicembre 2017, n. 245 – Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Picchioni, rel. Marullo Di Condojanni), sentenza del 28 dicembre 2017, n. 246.
[2]Nuovo Codice deontologico forense (in vigore dal 16/12/2014) – Approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 31 gennaio 2014,GU Serie Generale n. 241 del 16-10-2014.
[3] Relazione illustrativa, Codice deontologico forense, approvato dal Consiglio Nazionale forense nella seduta del 31 gennaio 2014.
[4] In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Florio), sentenza del 16 aprile 2014, n. 46, Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Tacchini), sentenza del 29 novembre 2012, n. 170, nonché CNF n. 137/2008.
[5] Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Pasqualin), sentenza del 20 marzo 2014, n. 39: Nel caso di specie, in un’intervista pubblicata da un quotidiano, l’incolpato aveva dichiarato “il mio studio è specializzato in responsabilità̀ medica ed ospedaliera, famiglia, casa e contratti, infortunistica stradale, consulenza alle aziende, immigrazione, recupero credito e consulenza bancaria”, senza tuttavia essere in possesso dei relativi diplomi universitari, ed invocando l’uso atecnico del termine “specializzato”. In applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha ritenuto congrua la sanzione disciplinare della censura.
[6] Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Pisano), sentenza del 10 giugno 2014, n. 83.
[7] Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Pasqualin), sentenza del 20 marzo 2014, n. 39.
[8] Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Pasqualin), sentenza del 20 marzo 2014, n. 39.
[9] Art. 35 Nuovo Codice deontologico forense (in vigore dal 16/12/2014) – Approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 31 gennaio 2014,GU Serie Generale n. 241 del 16-10-2014.
[10] Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 6 giugno 2013, n. 89, Pubblicato in Giurisprudenza CNF.
[11] Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 69/18. Nella fattispecie il comportamento dell’avvocato sanzionato oltre a violare il divieto di accaparramento della clientela (art.37 codice deontologico) ha violato altresì il dovere di colleganza nei confronti dei difensori delle detenute, nonché gli artt. 19 e 22 del codice deontologico compromettendo così il prestigio del Consiglio Nazionale Forense.
[12] P. Panetta, Deontologia forense: dai “cacciatori di ambulanze” all’accaparramento di clienti sui social, in www.dirittoegiustizia.it, 2018.

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Avv. Marinella Distaso

Nata a Barletta nel 1989, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza Magistrale presso l'Università degli Studi di Foggia nel 2014 con tesi in Diritto Amministrativo dal titolo "l'imparzialità impossibile della pubblica amministrazione", ha svolto la pratica forense in ambito civile e penale. Nel mese di settembre 2017 consegue il titolo di abilitazione all'esercizio della professione forense. Dal 2018 è iscritta all'albo dell'Ordine degli Avvocati di Trani ed esercita la professione forense.

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