L’azienda coniugale e l’impresa familiare

L’azienda coniugale e l’impresa familiare

L’azienda coniugale e l’impresa familiare costituiscono due diverse forme di esercizio di un’attività economica all’interno della famiglia e possiedono differente natura giuridica o comunque si distinguono sulla base del ruolo assunto dal coniuge nell’ambito dell’impresa.

Come previsto dall’art. 177, lett. d), c.c., costituiscono oggetto della comunione le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio; qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.

Nello stesso tempo, ai sensi dell’art. 178 c.c., i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa.

Le norme indicate concorrono a definire l’oggetto della comunione legale nell’eventualità  in cui si assista all’esercizio di un’attività d’impresa da parte di uno o di entrambi i coniugi, attribuendo a tal fine rilevanza al momento in cui è stata costituita l’azienda e alle modalità della gestione, considerando separatamente i beni che costituiscono il complesso aziendale dagli utili e dagli incrementi dell’attività esercitata.

Sulla base di quanto affermato dalle disposizioni menzionate, si suole distinguere sostanzialmente tra azienda coniugale, azienda personale cogestita ed azienda personale gestita dal solo coniuge imprenditore.

Come previsto dall’art. 2555 c.c., l’azienda è costituita dai beni che l’imprenditore organizza per l’esercizio dell’attività d’impresa.

In dottrina si sono sviluppate due diverse concezioni dell’azienda, l’una tendente a negarne il carattere unitario, identificandola nei singoli beni che la compongono, l’altra, invece, propensa a considerarla come un’entità giuridica distinta ed ulteriore rispetto al complesso di beni che la costituisce, avente come tale carattere unitario.

Nell’ambito della concezione unitaria, in particolare, vi è chi ha definito l’azienda come un bene immateriale ovvero chi l’ha inquadrata nel novero delle universalità, di fatto o di diritto.

Posto che la legge disciplina il trasferimento, l’usufrutto e l’affitto di azienda, prevedendo gli effetti di tali atti di disposizione anche con riguardo ai contratti in corso di esecuzione e ai rapporti creditori o debitori facenti capo all’azienda, considerando così la stessa come un complesso unitario di beni e rapporti giuridici, sembra corretto qualificarla in termini di universalità di diritto.

Tanto premesso, l’espressione “azienda coniugale” può essere riferita a due diverse fattispecie: in primo luogo, all’ipotesi espressamente prevista dall’art. 177, lett. d), c.c., ossia all’azienda costituita o acquistata dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi, la quale viene classificata come “azienda coniugale con impresa familiare”.

D’altra parte, si è ritenuto che nell’alveo di applicazione della norma indicata possa essere ricondotta anche una differente ipotesi, ossia l’azienda costituita o acquistata dopo il matrimonio ma gestita da un solo dei coniugi, la quale nel linguaggio giuridico viene denominata “azienda coniugale con impresa personale”. Anche in questo caso, dunque, applicandosi l’art. 177, lett. d), c.c., sia i beni aziendali che gli utili e gli incrementi dell’azienda rientrano nella comunione legale.

Si deve considerare, infatti, che la costituzione o l’acquisto dell’azienda durante il matrimonio, a prescindere dal fatto che la stessa sia o meno cogestita, comporta l’assunzione del rischio di impresa da parte di ambedue i coniugi, facendo presumere che il denaro utilizzato per l’acquisto o la costituzione ovvero i beni dei quali la stessa si compone appartengano ad entrambi, così giustificando l’inclusione immediata nella comunione sia dei beni che degli utili e degli incrementi dell’azienda.

Con specifico riferimento all’azienda coniugale con impresa familiare, la quale presuppone a tutti gli effetti, stante l’elemento della cogestione, l’esercizio di un’attività economica in comune tra i coniugi, la dottrina si è a lungo interrogata in ordine alla possibilità di considerare tale fattispecie come una società di fatto, con conseguente applicazione del diritto societario.

Secondo un prima impostazione, in particolare, la gestione in comune dell’azienda da parte dei coniugi dà luogo ad una società di fatto, alla quale dovrà applicarsi la disciplina propria della società semplice, compresa la responsabilità illimitata dei soci.

Entrambi i coniugi, pertanto, sarebbero chiamati a rispondere illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni contratte nell’esercizio dell’attività di impresa, senza la limitazione prevista dall’art. 189 c.c. per le obbligazioni contratte separatamente.

Di contrario avviso è invece un altro orientamento, il quale esclude la possibilità per i coniugi di costituire una società con i beni rientranti nella comunione legale, ritenendo all’uopo necessaria l’esclusione dei cespiti dal regime di comunione mediante apposita convenzione matrimoniale.

Si osserva, infatti, che l’applicazione del regime proprio della comunione familiare alla gestione in comune di un’azienda coniugale trova il proprio fondamento nell’esigenza di tutelare il coniuge più debole, il quale risulterebbe inevitabilmente pregiudicato dall’applicazione del più gravoso regime societario.

Ragionando diversamente, d’altronde, si finirebbe per eludere la ratio dell’istituto, concepito dal legislatore proprio allo scopo di salvaguardare il lavoro prestato dal coniuge all’interno della famiglia.

Nonostante tali censure possano in parte ritenersi condivisibili, ad assumere rilevanza decisiva in ordine all’inquadramento della fattispecie in parola in termini di società di fatto è l’acclarata impossibilità nel nostro ordinamento di esercitare collettivamente un’attività economica in una forma diversa da quella societaria, stante la mancanza di forme alternative suscettibili di regolare adeguatamente i rapporti con i terzi.

D’altra parte, deve considerarsi che una società può certamente costituirsi a prescindere  da una specifica manifestazione di volontà in tal senso da parte dei soci e dunque venir in essere in via di mero fatto, ossia desumendosi dai comportamenti concludenti posti in essere dalle parti, le quali hanno intrapreso l’esercizio in comune di un’attività economica.

Detto questo, con specifico riferimento alla fattispecie dell’azienda coniugale con impresa familiare, la quale, come precisato, non può che integrare una società di fatto, non resta che distinguere i rapporti interni tra i coniugi, concernenti la proprietà dei beni aziendali e la ripartizione degli utili o degli incrementi eventualmente conseguiti, regolati dalle norme sulla comunione, da quelli esterni con i terzi, riguardanti la responsabilità dei consorti per le obbligazioni contratte nell’esercizio dell’azienda, i quali sono invece disciplinati dalle norme in materia di società semplice.

Dall’azienda coniugale, ossia costituta da uno o da entrambi i coniugi dopo il matrimonio,  deve distinguersi quella personale, la quale è invece quell’azienda di cui un coniuge è già proprietario prima del matrimonio ovvero ne è diventato proprietario o titolare successivamente a titolo personale, trattandosi, per esempio, di un’impresa costituita con beni personali, ricevuta per successione o donazione ovvero acquistata con i proventi derivanti dalla vendita dei beni personali.

Si suole definire “azienda personale cogestita”, nello specifico, quella gestita da entrambi i coniugi, mentre è “azienda personale gestita dal solo coniuge imprenditore” quella nella quale è solo il coniuge titolare ad esercitarne la gestione.

In caso di azienda personale perché acquistata o costituita prima del matrimonio e cogestita da entrambi i coniugi, si applica il capoverso dell’art. 177 c.c., in base al quale sono oggetto di una comunione immediata solo gli utili e gli incrementi dell’impresa, mentre sono esclusi dalla comunione i beni aziendali.

Qualora l’azienda personale perché acquistata o costituita prima del matrimonio sia invece gestita esclusivamente dal coniuge imprenditore, si applicano l’art. 178 c.c., per quanto riguarda gli incrementi dell’impresa, e l’art. 177, comma 1, lett. c), per quanto concerne gli utili, dovendo questi essere considerati come proventi di un’attività separata; in tale ipotesi, dunque, gli incrementi e gli utili dell’impresa sono oggetto di una comunione de residuo e restano altrettanto esclusi dalla comunione i beni aziendali.

Per contro, nella diversa ipotesi in cui l’azienda sia stata acquistata o costituita dopo il matrimonio ma ciò nonostante abbia carattere personale (rientrando in una delle fattispecie previste dall’art. 179 c.c.), occorre ulteriormente distinguere: se gestita da entrambi i coniugi, non può applicarsi l’art. 177, comma 1, lett. d), c.c., il quale disciplina il diverso caso dell’azienda coniugale, e sarebbero oggetto di comunione immediata solo gli utili e gli incrementi dell’impresa, mentre i beni aziendali rientrerebbero nella comunione de residuo; viceversa, nel caso di azienda personale acquistata o costituita dopo il matrimonio ma gestita dal solo coniuge imprenditore, si applicano nuovamente gli artt. 177, comma 1, lett. c) e 178 c.c., e quindi sono oggetto della comunione de residuo sia gli utili e gli incrementi che i beni aziendali.

Ciò chiarito in merito all’azienda coniugale, dovrebbero risultare evidenti le differenze rispetto all’analogo istituto dell’impresa familiare, la quale costituisce un’impresa personale in cui il coniuge dell’imprenditore, l’unito civilmente, il convivente o altro familiare (parente entro il terzo grado od affine entro il secondo) prestano il proprio lavoro in modo continuativo, senza tuttavia assumere la cogestione dell’azienda.

L’impresa familiare risponde a molteplici esigenze: essa, infatti, consente di superare la presunzione di gratuità che caratterizzava in passato il lavoro prestato nell’ambito della famiglia, assicurando al familiare lavoratore il diritto alla retribuzione così come sancito dall’art. 35 Cost., superando altresì le diseguaglianze tra uomo e donna nei rapporti patrimoniali in ossequio ai principi di solidarietà e uguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 della Carta fondamentale.

Per espressa previsione legislativa l’istituto ha carattere residuale, trovando applicazione solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia inquadrabile in una diversa fattispecie giuridica, come per esempio un contratto di lavoro subordinato o autonomo ovvero un contratto di società o di associazione in partecipazione.

L’intento del legislatore è infatti quello di garantire al familiare una specifica tutela qualora le parti non abbiano convenuto diversamente.

Una volta riconosciuta la riconducibilità del rapporto lavorativo nell’ambito dell’impresa familiare, la relativa disciplina assume carattere imperativo, non consentendo all’imprenditore di ricorrere ad uno schema negoziale suscettibile di attribuire al familiare una posizione deteriore rispetto a quella garantitagli dagli artt. 230 bis  e 230 ter c.c.

Secondo l’opinione maggioritaria, la costituzione dell’impresa familiare non ha fondamento contrattuale, avvenendo automaticamente nel caso in cui i familiari prestino continuativamente, anche se non esclusivamente, attività di lavoro a favore dell’imprenditore.

Per l’orientamento dominante, l’impresa familiare conserva il carattere di impresa individuale: è solo l’imprenditore, dunque, ad assumere una responsabilità illimitata per le obbligazioni contratte nell’esercizio dell’impresa e, in caso di insolvenza, ad essere dichiarato fallito. I familiari, per contro, rischiano esclusivamente la quota di utili e di incrementi ad essi spettanti per la partecipazione all’impresa.

Con riferimento al coniuge e all’unito civilmente, in particolare, ci si interroga in ordine alle conseguenze che il venir meno del vincolo può determinare sul rapporto di lavoro costituito nell’ambito dell’impresa: a fronte di chi sostiene l’immediato scioglimento del rapporto, si colloca chi ritiene che la cessazione integri solamente una giusta causa di scioglimento.

Escludendo la peculiare posizione del convivente di fatto, la partecipazione all’impresa familiare riconosce al compartecipe una serie di diritti e facoltà.

Come espressamente previsto dall’art. 230 bis c.c., il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato.

Mentre il diritto al mantenimento è rapportato alla condizione patrimoniale della famiglia,  dunque, quello agli utili e agli incrementi è invece proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Sotto forma di utili, in particolare, sarà attribuito al familiare quanto residui dopo la deduzione dei debiti dell’impresa e il soddisfacimento del diritto al mantenimento.

Dalla partecipazione all’impresa familiare, d’altra parte, derivano anche importanti diritti amministrativi, spettando alla maggioranza dei compartecipi la decisione circa l’impiego degli utili, i quali potranno essere distribuiti, accantonati od impiegati, nonché degli incrementi.

Oltre alle decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, vanno adottate a maggioranza dei familiari partecipanti all’impresa le decisioni concernenti la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell’attività.

Quanto alle modalità di esercizio dei suddetti diritti, in particolare, la legge non prevede formalità particolari, escludendo la necessità di una riunione in assemblea ovvero della redazione di un verbale.

A conferma della natura e del fondamento giuridico dell’istituto in parola, i diritti di partecipazione non possono essere ceduti ad un soggetto che non riveste la qualifica richiesta dalla legge per la partecipazione all’impresa; per la cessione ad un familiare, in ogni caso, è necessario il consenso di tutti i compartecipi.

A tal riguardo, la giurisprudenza ha ritenuto nullo il trasferimento dei suddetti diritti ad un estraneo, mentre ha considerato inefficace quello avvenuto a favore di un familiare ma senza il consenso degli altri partecipanti.

Tutto ciò presupposto, nonostante le analogie sussistenti tra i due istituti dell’azienda coniugale e dell’impresa familiare, accomunati dall’esercizio in ambito familiare di un’attività in forma di impresa, notevoli sono le differenze che li caratterizzano.

L’azienda coniugale con impresa familiare, in particolare, intesa come tale quella costituita dopo il matrimonio e gestita da ambedue i coniugi, è a tutti gli effetti un’impresa collettiva, ovvero una società di fatto, nella quale entrambi, partecipando alla gestione dell’impresa, assumono la qualità di soci imprenditori, come tali illimitatamente responsabili per le obbligazioni contratte nell’esercizio dell’attività aziendale; l’impresa familiare, al contrario, è come detto un’impresa individuale, nella quale solo il coniuge titolare assume la qualifica di imprenditore, mentre l’altro, non partecipando alla gestione dell’impresa, ma fornendo solamente continuativamente il proprio apporto lavorativo allo svolgimento della stessa, conserva la qualità di familiare collaboratore, acquisendo il diritto di partecipazione agli utili e di gestione dell’impresa.

Anche l’azienda coniugale con impresa personale, d’altra parte, risulta facilmente distinguibile dall’impresa familiare, trattandosi comunque di un’azienda costituta dopo il matrimonio e dunque con il presumibile apporto di entrambi i coniugi.

Al contrario, l’azienda personale cogestita si distingue dall’impresa familiare solo per il diverso ruolo svolto dal coniuge, il quale assume la gestione dell’impresa, non limitandosi semplicemente a fornire il proprio apporto lavorativo.

Quanto all’azienda personale gestita dal solo coniuge imprenditore, invece, essa può  certamente essere considerata come un’impresa familiare qualora il coniuge, sebbene non abbia la cogestione dell’impresa, presti continuativamente il proprio lavoro all’interno dell’azienda.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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