Le authorities: un settore ibrido confinato tra la giurisprudenza e la legge

Le authorities: un settore ibrido confinato tra la giurisprudenza e la legge

Sommario: 1. Le origini e la ratio del fenomeno – 2. Il pluralismo delle funzioni ed i dubbi di legittimità – 3. La carenza della “legalità in senso forte”

 

1. Le origini e la ratio del fenomeno

È un principio assodato quello secondo cui, ad oggi, in un contesto ove vige la regola del pluralismo amministrativo, è possibile perimetrare una serie di attività che, sebbene rientrino nella competenza delle autorità pubbliche, sono esonerate dall’operatività della garanzia ex art. 95 Cost. Si tratta, in particolare, di quelle materie la cui regolazione viene devoluta alle cosiddette authorities. Queste ultime, seppure esercitino attività amministrativa, sono sottratte a quei poteri di indirizzo e di controllo che, di regola, spettano al Governo. Si precisa, tuttavia, che le stesse non agiscono secondo una logica di auto-referenzialità. Il Parlamento rappresenta l’organo di riferimento con il quale le predette sono solite interloquire; ciò accade, essenzialmente, mediante la formulazione di proposte e di segnalazioni. I fattori che hanno favorito l’evoluzione del fenomeno in questione sono, per lo più, di matrice sovranazionale. Spesso, infatti, il diritto dell’Unione Europea prevede che gli Stati membri, con riferimento a specifici settori, legiferino ed operino all’interno di un contesto “neutro” ed indipendente da ogni valutazione di stampo politico. In virtù delle ragioni anzidette e della elevata complessità che caratterizza tali ambiti, il parametro che ne orienta la relativa regolamentazione è quello della discrezionalità tecnica. È opportuno evidenziare che, su questo punto, si radicano una serie di conseguenze in rapporto all’essenza del relativo sindacato giurisdizionale (cfr. il paragrafo seguente).

Le autorità amministrative indipendenti, quindi, in quanto soggetti estranei alla logica della discrezionalità pura ed al perseguimento, in via generale, dell’interesse pubblico in re ipsa, meritano una trattazione ad hoc. La complessità e la varierà del fenomeno non consentono di elaborare considerazioni di tipo unitario; tuttavia, in sintesi, si può affermare che queste mostrino una spiccata tendenza verso la tutela di interessi costituzionalmente protetti, quali, ad esempio, quello della concorrenza (AGCM) o della prevenzione della corruzione (ANAC).

2. Il pluralismo delle funzioni ed i dubbi di legittimità

La questione inerente la natura giuridica delle authorities, soprattutto in passato, ha dato origine ad una serie di dibattiti. Acclarata la prevalenza della loro funzione regolatoria rispetto a quelle “ancillari” di consultazione e di segnalazione, di conseguenza, si è giunti ad affermare che queste appartengano al genus delle autorità amministrative.

Tale conclusione, tuttavia, pecca di imprecisione. Non si può ignorare, infatti, che il legislatore, in determinati casi, abbia ritenuto opportuno dotare le predette autorità di poteri giurisdizionali sia in senso stretto che in senso lato. Nella prima categoria vi rientra, in primo luogo, la potestà di irrogare sanzioni pecuniarie e/o interdittive; nella seconda, invece, il più penetrante dovere di risolvere le controversie tra privati,  talvolta anche mediante la previa emissione di un parere vincolante (cfr. d.lgs 50/2016, art. 211, comma 1).

Con riguardo all’esercizio della potestà punitiva “in senso stretto”, si evidenzia che l’espletamento di ambedue le funzioni prodromiche all’esercizio di attività giurisdizionale, ossia di indagine e di giudizio, da parte del medesimo soggetto, hanno sollevato dubbi in merito alla costituzionalità della scelta legislativa de quo. La Corte EDU, con specifico riferimento al caso della Consob[1], ha chiarito che la successiva ed eventuale fase di opposizione sia idonea a radicare un controllo di giurisdizione piena, la quale, di per sé, è in grado di rendere la procedura, nel suo complesso, conforme ai parametri della CEDU.

Del resto, già in passato la medesima Corte[2] si era pronunciata – in senso affermativo – circa la legittimità dell’iter sanzionatorio applicabile in tema di illeciti anticoncorrenziali. In particolare, era stata dichiarata la compatibilità dei poteri dell’autorità giudicante nazionale (AGCM) con la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative de quo, in quanto reputate funzionali sia alla prevenzione che alla repressione dei predetti illeciti. I giudici di Strasburgo, in questa sede, per pronunciarsi circa la sussistenza di legittimità ed esulando da quello che era il petitum originario, si sono focalizzati, principalmente, sui profili inerenti al controllo svolto ex post da parte del giudice amministrativo. Si afferma, in continuità con la linea adottata dalla giurisprudenza nazionale, che gli aspetti relativi alle valutazioni tecniche e di opportunità debbano essere rimessi esclusivamente alla autorità antitrust. Se così non fosse, infatti, verrebbe sradicato il fondamentale principio della tripartizione dei poteri. Si deve confermare, quindi, la validità di quell’orientamento che prevede l’espletamento, da parte del giudice amministrativo, di un sindacato di mera attendibilità e che, pertanto, non penetri nel merito del decisum.

I due approdi della Corte di Strasburgo inducono a ritenere che, oramai, l’inclusione delle sanzioni irrogate delle authorities nell’alveo del contesto penalistico e delle garanzie che il medesimo comporta, rappresenti un dato certo. Nonostante ciò, tuttavia, residuano tuttora margini di perplessità.

Si pensi, a titolo esemplificativo, al potere sanzionatorio esercitato da parte della Consob, su cui si è già espressa la Corte EDU del 2014.

In tale occasione, sebbene si sia affermata l’esistenza di un controllo (posteriore) idoneo a permeare di legittimità l’intera procedura; i giudici non si sono astenuti dal denunciare la sussistenza di un deficit di tutela in relazione alla pienezza del contraddittorio dinnanzi alla Consob.  In altri termini, dalla sentenza emerge chiaramente il concetto secondo cui il privato, destinatario di una sanzione avente una natura formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale, la quale è correlata alla violazione della normativa in tema di  abusi di mercato, vede soddisfatto il proprio diritto ad un equo processo solo nel caso in cui il medesimo decida opporsi alla sanzione comminata in prima battuta. Viceversa, nel caso in cui, per qualsiasi ragione, non vi sia tale opposizione, i presidi sanciti ex art 6 CEDU, nonché, più in generale, quelli intrinseci al diritto di difesa, verrebbero definitivamente sacrificati. È evidente che una soluzione di questo genere, in ragione della pregnanza costituzionale dei valori in gioco, rischia di collidere con i principi fondamentali dell’ordinamento. Si auspica, quindi, anche alla luce delle perplessità emerse nel dictum in esame, il legislatore intervenga al fine di calibrare la disciplina de quo ai canoni del giusto processo.

Una ipotetica operazione di riforma potrebbe essere utile anche in una prospettiva di “ricollocazione” della regolamentazione in esame; nel senso che la potestà sanzionatoria della Consob, oggi disciplinata in forza di un Regolamento interno adottato nell’esercizio di una delega legislativa, potrebbe essere trasposta in una legge di fonte primaria. In questo modo, verrebbe pienamente soddisfatta la regola enucleata nell’art 25, comma 2, Cost.

L’essenza penalistica dell’attività punitiva svolta da parte della Consob, peraltro, è stata di recente ribadita dalla Corte Costituzionale[3]. Quest’ultima, sulla scorta di quanto già enunciato da parte dei giudici di Lussemburgo[4], ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187– quinquiesdecies del Testo unico sulla finanza (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”. L’esplicita tutela del diritto al silenzio, il quale, peraltro, pecca di un espresso riconoscimento a livello costituzionale[5], potrebbe far presumere la ragionevolezza delle obiezioni da ultimo riportate in questa sede.

3. La carenza della “legalità in senso forte”

Un complessivo ripensamento in ordine alla disciplina delle autorità amministrative indipendenti sembra essere divenuto indispensabile. Si segnala che questo potrebbe giovare, oltre che in un un’ottica di maggiore organicità e, quindi, di certezza del diritto, anche in rapporto ad un supplemento di legittimazione in sede normativa. Gli atti emanati da parte delle authorities, infatti, a differenza di quanto stabilito in via generale per quelli la cui paternità è imputabile ai pubblici poteri, si sottraggono all’applicazione del principio di legalità nella sua accezione di conformità-deducibilità ex lege. Da qui trae linfa la teoria dei cosiddetti “poteri impliciti”, ossia di quei poteri che vengono esercitati in assenza di un diretto e specifico referente normativo. La giurisprudenza, sebbene in un primo momento abbia manifestato alcune perplessità al riguardo, si è pronunciata a favore del trend in analisi. In particolare, si sostiene che il summenzionato deficit di formalità, viene compensato, nella prassi, nella fase immediatamente antecedente l’adozione dell’atto – vale a dire – mediante il coinvolgimento dei presunti soggetti destinatari. Una visione trasversale e complessiva del fenomeno suggerisce di riscontrare forti analogie con gli approdi, raggiunti da parte della giurisprudenza, in relazione al potere di irrogare sanzioni. In entrambe le ipotesi, infatti, la carenza, sul piano astratto, di garanzie e di prescrizioni, viene colmata, sul piano concreto, attraverso un meccanismo di “sanatoria” operante ex post ed avallato in sede pretoria.  L’esigenza di una maggiore puntualità sul piano legislativo, anche alla luce di tale ulteriore aspetto, diviene ancor più insistente.

 

 

 

 

 


[1] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Stevens e altri vs Italia, 4 marzo 2014.
[2] Corte europea dei diritti dell’uomo,  A. Menarini Diagnostics S.r.l. vs Italia, 27 settembre 2011.
[3] Corte Cost., sentenza n. 84, 13 aprile 2021.
[4] Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza 2 febbraio 2021, Causa C-481/19.
[5]Tale diritto è fondato, assieme, sull’art. 24 Cost., sull’art 6 CEDU e sugli artt. 47 e 48 CDFUE, questi ultimi nell’interpretazione che ne ha fornito la Corte di giustizia; e può essere ricavato altresì dall’art. 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP, laddove alla nozione di reato contenuta nell’incipit del paragrafo 3 venga assegnato un significato sostanziale”.

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