Le Autonomie nella giurisprudenza della Corte Costituzionale

Le Autonomie nella giurisprudenza della Corte Costituzionale

Nel 1982 Livio Paladin, in un noto scritto, rilevava la scarsa incidenza della giustizia costituzionale nei rapporti fra Stato e regioni dopo aver sostenuto, solo pochi anni prima, che l’organo di chiusura deputato ad  adeguare  le  disposizioni  del  Titolo  V  della  Costituzione  alla  realtà  costituzionale  dovesse  essere Parlamento, e non la Corte costituzionale.

Se oggi chiedessimo al Professor Paladin di esprimersi nuovamente sul punto non potrebbe che fornire una risposta profondamente diversa.

Larga parte dell’attività della Consulta, infatti, è espressione del contenzioso con le regioni (a statuto speciale, prima e, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, anche ordinarie) e la dottrina, fin da tempi risalenti, ha studiato l’evolvere della giurisprudenza costituzionale, ora cercando le linee direttrici per addivenire ad una sintesi efficace, ora invocando maggiori coerenze interne al sistema.

L’articolazione dei rapporti con le autonomie è ambito in cui il ruolo della Corte pare critico: pare sfumare il campo dell’osservazione giuridica e la Consulta tende a sconfinare nel “campo della scienza politica”, con tutte le implicazioni problematiche che ne derivano.

Come  è  noto,  soprattutto  dopo  la  riforma  costituzionale  del  2001  la  Corte  costituzionale  è  venuta  ad incrementare  il  proprio  ruolo  in  relazione  alla  definizione  dello stato delle  autonomie.  Se  è  vero  che  la Corte si è mossa entro binari costituzionalmente tracciati e legislativamente integrati, è altrettanto vero che la sua giurisprudenza, caratterizzata da una portata politica e a tratti creativa, oltre che dal fatto di concretarsi in una sostanziale “supplenza” del legislatore ordinario, ha operato una complessiva rilettura della novella del Titolo V.

Le lacune del legislatore ordinario e le incongruenze di quello costituzionale hanno, difatti, “costituito i presupposti per consentire alla Corte costituzionale di ridisegnare le linee portanti della forma di stato italiana”. La Corte costituzionale è stata in grado di fornire le coordinate indispensabili per una lettura complessiva (ancorché non sempre pacificamente condivisa dalle forze politiche operanti nei vari livelli di governo coinvolti) del quadro costituzionale al fine di trovare un punto di equilibrio fra le istanze centrifughe e quelle  centripete  variamente  confliggenti  valorizzando,  seppur  secondo  linee  di  tendenza  articolate,  il principio cooperativo. In tal modo, la Consulta ha letteralmente “riempito di contenuto” le disposizioni costituzionali concernenti i rapporti fra Stato e autonomie territoriali. Anche dopo la riforma del Titolo V, infatti, abbiamo assistito ad una legislazione marcatamente centralista che la Corte ha, spesso, fatta salva mostrando come la normativa statale esprima un ruolo strategico nel conformare, in concreto, il quantum dell’autonomia regionale. Già nella notissima sentenza n. 303 del 2003 la Corte costituzionale ha espresso la propria vocazione a sistematizzare “i non sempre congruenti pezzi della riforma costituzionale” assegnando al principio di sussidiarietà “la funzione di criterio ultimo di riparto delle competenze non solo amministrative, ma anche legislative”.

Volendo provare a delineare il modus operandi della Corte costituzionale nella gestione delle tensioni fra unità  e  autonomia,  va  innanzitutto  precisato  che  essa  ha  mostrato  di  assumere  posizioni  articolate.  A fronte di decisioni in cui la crisi economica si fa vero e proprio argomento per la definizione del caso concreto, vi sono casi in cui la Corte pare adottare un approccio diversificato, a seconda che le misure statali  accentratrici  contestate  abbiano  trovato  la  propria ratio in  ragioni  di  mera  riorganizzazione  ed efficientamento degli apparati amministrativi, o in ragioni ascrivibili alle necessità di contenimento della spesa pubblica.

In particolare, in relazione alle esigenze di contenimento della spesa e alle modalità di allocazione delle risorse, si osserva che uno dei filoni giurisprudenziali più ricchi è quello che, invocando necessità connesse al coordinamento della finanza pubblica e alla salvaguardia dei bilanci pubblici, legittima le disposizioni statali che impongono alle Regioni vincoli finanziari inerenti a voci di bilancio anche molto specifiche, quali quelle relative alle spese per il personale, ai livelli salariali, alle progressioni orizzontali o verticali, al blocco del turn over o che impongono la gratuità per alcune tipologie di incarichi conferiti.

Dall’ esame della giurisprudenza sopra esposta, in punto di autonomia regionale in materia economico – finanziaria, si evidenzia anche la “trasformazione del titolo competenziale riconosciuto allo Stato ex. art. 119, comma 2, Cost.” e come “la competenza concorrente sul riparto verticale” tenda “sempre più ad assumere i caratteri di una competenza finalistica”.  come  recentemente  specificato  nella  decisione  n. 141 del 2016. L’ottica  stato – centrica  che  caratterizza  la  legislazione  nazionale  investe  anche  il  tema  delle  c.d. “liberalizzazioni”. Tema che implica una compressione dello “spazio dell’amministrazione” e delle “regole da amministrare”.

Peraltro, le liberalizzazioni sono funzionali a realizzare pienamente la tutela della concorrenza ambito, quest’ultimo, che coinvolge in modo significativo la sfera europea e la Corte costituzionale è ben consapevole dell’intrecciarsi dei molteplici profili che vengono in rilievo: le norme statali sono spesso attuative di principi europei o di diritto europeo derivato, e della dimensione europea danno conto anche i parametri costituzionali posti a sostegno delle decisioni della Corte. Di fronte ad una gestione centralizzata di molte scelte che coinvolgono i pubblici servizi, o l’esercizio delle attività economiche, o le aperture/chiusure degli esercizi commerciali, le regioni hanno opposto una strenua  resistenza,  soprattutto  negli  anni  passati,  anche  se  parziali  aperture  si  riscontrano  nella  giurisprudenza più recente.

Tuttavia,  la  Corte  ha  mostrato  chiare  aperture  nei  confronti  delle  Regioni  poiché  la  tutela  della concorrenza è intesa nel senso di non precludere “ogni ulteriore intervento normativo regionale sul punto”.  Secondo  i  giudici  delle  leggi, infatti, “occorre osservare che, a differenza di quanto avvenuto con riferimento agli orari degli esercizi commerciali, pure espressione della competenza statale a tutela della concorrenza, la legge dello Stato non pone divieti assoluti di regolazione, né obblighi assoluti di  liberalizzazione,  ma,  al  contrario,  consente  alle  Regioni  e  agli  enti  locali  la  possibilità  di  prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive  e commerciali»,  purché  ciò  avvenga  «senza  discriminazioni  tra  gli  operatori»  e  a  tutela  di specifici interessi di adeguato rilievo costituzionale, quali la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali”. Ne consegue che “in vista di una progressiva e ordinata liberalizzazione delle attività economiche» siano fatte  salve  «le  regolamentazioni  giustificate  da  un  interesse  generale,  costituzionalmente  rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario», che siano «adeguate e proporzionate alle finalità pubbliche perseguite», così da «garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali»”.

In tale prospettiva, le Regioni possono continuare “ad esercitare le proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche», sia pure «in base ai principi  indicati  dal  legislatore  statale»” E  tale  orientamento  ha  consentito  il  formarsi  di  una giurisprudenza costituzionale “che  non  esclude  ogni  intervento  legislativo  regionale  regolativo  delle attività economiche, ma vigila sulla legittimità e proporzionalità degli stessi rispetto al perseguimento di un interesse di rilievo costituzionale: tale è stato ritenuto ad esempio, un precetto regionale, in materia di distribuzione del carburante, contenente un “obbligo conformativo” alla norma statale, di carattere relativo e non assoluto, a tutela di «specifici interessi pubblici» (sentenza n. 105 del 2016)”.

In  relazione,  specificatamente,  al  tema  della  disciplina  degli  orari  degli  esercizi  commerciali,  la  cui disciplina rappresentava uno dei principali domìni della potestà legislativa residuale regionale in materia di  commercio,  la  Consulta  ne  rileva  le  profonde  connessioni  con  la materia  della  «tutela  della concorrenza»,  riservata  alla  competenza  legislativa  dello  Stato.  E  sul  punto,  la  Corte,  chiamata  a pronunciarsi in merito ad una legge della Regione Friuli – Venezia Giulia, con la sentenza n. 98 del 2017, ha  accolto  i  rilievi  del ricorrente secondo cui “l’imposizione generalizzata del divieto di apertura nei giorni festivi indicati dalla legge impugnata, e l’esclusione di quest’obbligo nei soli comuni a prevalente economia  turistica,  contrastano  con  tale  assetto,  «costituente  disciplina  della  concorrenza  e  riforma economica  fondamentale»,  sicché  la  normativa  in  esame  esulerebbe  dalla  materia  «commercio», invadendo la competenza esclusiva statale, per contrasto con il d.l. n. 223 del 2006 e con il successivo d.l. n. 201 del 2011, come convertiti in legge”. Le medesime violazioni si colgono anche in riferimento alle previsioni regionali che consentono “la liberalizzazione totale dei giorni di apertura soltanto nei comuni a  prevalente  economia  turistica,  sotto  il  profilo  della  disparità  di  condizioni  territoriali  di  esercizio  del commercio”.La previsione di un regime differenziato paleserebbe un insanabile “contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera e), Cost., e con i principi di liberalizzazione, uniformità del mercato, par condicio degli operatori e uniformità della disciplina”.

Principi ribaditi da ormai consolidata giurisprudenza costituzionale siccome formalizzati nell’ “art. 3, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006, come convertito in legge, che stabilisce la necessità di «garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di parità e il corretto e uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai beni e servizi sul territorio nazionale».

Il breve excursus svolto ci conferma la scivolosità dei rapporti fra Corte costituzionale e le Autonomie. Inoltre, la decennale giurisprudenza del Giudice delle leggi ha toccato pressoché ogni aspetto del nostro modello di stato regionale secondo traiettorie difficilmente sintetizzabili o riconducibili ad unità. Il caleidoscopio delle questioni coinvolte, il costante asse di tensione fra unità e istanze autonomistiche, la presenza di meccanismi concertativi che non sempre sono in grado di creare una reale cooperazione e limitare  le  occasioni  di  conflitto,  la  presenza  di  un  legislatore  nazionale  che  si  mostra  talvolta  poco sensibile  verso  le  istanze  delle  autonomie,  il  cui  operato  è  comunque  significativamente  vincolato  a obblighi europei e che non sempre è all’altezza del ruolo che è chiamato a svolgere, sono tutti elementi contribuiscono a creare un quadro estremamente complesso e a geometria variabile.

Se per Paladin il Parlamento avrebbe dovuto essere la sede della definizione e sviluppo delle disposizioni costituzionali  dedicate  alle  regioni, l’evoluzione normativa e la prassi giurisprudenziale l’avrebbero, probabilmente, profondamente deluso.

La  Corte  costituzionale  ha  esercitato,  e  a  tratti  esercita,  un  ruolo  di  supplenza  rispetto  al  Parlamento, palesando un’anima creativa e politica che, per quanto in parte ad essa ontologicamente connaturata, talvolta non ha mancato di introdurre elementi distonici nel sistema.

L’analisi di molte decisioni c.d. di spesa, specie quando coinvolgono  le  autonomie,  palesa  in  modo evidente come i giudici siano chiamati, e talvolta forse costretti, a ricalibrare gli strumenti decisori a loro disposizione al fine di individuare il punto di equilibrio e di bilanciamento fra il rispetto dell’autonomi a costituzionalmente definita, la (scarsa) disposizione di risorse finanziarie dello Stato e delle Regioni e la protezione dei principi e diritti fondamentali, come l’eguaglianza, la ragionevolezza, la proporzionalità e, più in generale, la protezione dei diritti sociali, ambito in cui, tradizionalmente, il margine di discrezionalità politica è piuttosto ampio. I giudici tentano, inoltre, un difficile bilanciamento fra la ragionevolezza delle scelte politiche, tanto statali quanto regionali, e le esigenze finanziarie espressione a tratti solo parzialmente della sovranità statale, in quanto riconducibili ad obblighi assunti (e talora imposti) a livello sovranazionale.

Infine,  considerando  le  decisioni  che  coinvolgono contemporaneamente  i  rapporti  fra  stato  centrale  e autonomie, la tenuta dei conti pubblici e la tutela dei diritti fondamentali, il quadro pare farsi ulteriormente complesso. A tal proposito, si concorda con quella dottrina secondo cui “se c’è un crinale, pur scosceso, su cui costruire il punto di snodo” fra le questioni coinvolte, esso va individuato nelle risultanze della pur problematica (per le autonomie) sentenza n. 275 del 2016, “impedendo sempre che l’equilibrio di bilancio possa condizionare la doverosità dell’erogazione di quelle prestazioni  che  innervano  il  contenuto  dei diritti che, nella loro essenzialità, sono impossibili da soggiogare”.

In  questo  quadro  articolato  e  complesso,  una  reale  riacquisizione  di  spazio  per  la  politica  e  una implementazione dell’efficacia dei meccanismi concertativi è, forse, più che desiderabile.


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Avv. Gianluca Galofaro

Si laurea nel 2005, presso l’università degli studi Catania, con tesi sperimentale in Informatica giuridica. Consegue nel 2008, l'abilitazione alla professione di avvocato. E’ iscritto all'Ordine degli Avvocati di Siracusa dal 2009. Si occupa prevalentemente di diritto civile, tributario, del lavoro, ambientale e marittimo. Avvocato fiduciario di diverse aziende ed Enti pubblici. Ha frequentato un Master di II livello in diritto della navigazione e dei trasporti. Ha frequentato un master di I livello in discipline economiche, statistiche e giuridiche. Esperto in management della Pubblica amministrazione. Consulente dell’ufficio affari legali del Ministero dell’Ambiente negli anni 2009/2011. Membro della camera arbitrale internazionale. Abilitato all’insegnamento, è attualmente docente di corsi in diritto della navigazione.

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