Le condizioni ostanti alla pena perpetua, all’alba dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 97 del 2021

Le condizioni ostanti alla pena perpetua, all’alba dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 97 del 2021

Premessa. Il presente scritto intende ripercorrere i tratti salienti dell’ordinanza n. 97 del 2021 pronunciata dalla Consulta, la quale trae la stura dall’ordinanza del 3 giugno 2020 con la quale la prima sezione penale della Corte di Cassazione, in qualità di giudice a quo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 – “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”- nonché dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 – “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativi”- convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia.

La base normativa. Sorvolando sulle specifiche circostanze concreto-fattuali che hanno sollecitato il collegio di legittimità a determinarsi nella direzione innanzi esplicitata, e volendo prediligere aspetti in diritto, appare speculare, onde tracciare il giusto perimetro giudico, eseguire una breve digressione proprio in merito al tormentato istituto del c.d. ergastolo ostativo.

All’indomani del periodo stragista, dei primi anni Novanta, architettato con cruenta lucidità ed eseguito con inaudita ferocia dalla criminalità organizzata mafiosa, la risposta dello Stato non poteva che manifestarsi con analoga asprezza, tant’è che si decise di incidere pesantemente sui c.d. benefici penitenziari, irrigidendo i parametri legittimanti l’accesso.

A tal uopo doverosa è la menzione all’introduzione, nell’alveo dell’ordinamento penitenziario, istituito con la legge n. 354 del 1975, dell’art. 4 bis, mediante l’art. 1, comma 1, del d.l. 13.05.1991 n. 152, convertito in l. 12.07.1991 n. 203.

La disposizione testé menzionata nella sua originaria versione stabiliva per una “prima fascia” di delitti – rappresentati dai delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, dall’art. 416-bis c.p., dai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste da detto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni da questo previste, nonché da quelli previsti dagli artt. 630 c.p. e 74 d.p.r. n. 309/90-  che l’accesso ai benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione era ammissibile a condizione che fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; mentre per una “seconda fascia” di delitti – rappresentati dagli artt. 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, c.p. e art. 73-80, comma 2, d.p.r. n. 309/90 – che i predetti benefici potevano invece essere concessi solo se non fossero stati acquisiti elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva.

Era, ordunque, bastevole dimostrare di aver reciso il “cordone ombelicale” che legava il reo agli ambienti della malavita organizzata, per poter beneficiare di un trattamento penitenziario di maggior favore.

Benevolenza che viene subitaneamente spazzata via dalla prima modifica legislativa incidente sulla norma de qua, attuata per il tramite dell’art. 15, comma 1, del d.l. 08.06.1992 n. 306, convertito in l. 07.08.1992 n. 356, il quale introdusse l’istituto della collaborazione con la giustizia nel testo dell’art. 4-bis o.p., con un richiamo all’art. 58-ter o.p., quale essenziale condizione di accesso ai benefici penitenziari per i delitti di “prima fascia”, lasciando invariata la condizione della non sussistenza di elementi probanti la sussistenza di collegamenti criminosi per quelli della “seconda fascia”.

Viene, di tal guisa, positivizzata una presunzione assoluta di intraneità, o comunque di mancata recisione dei legami con la criminalità organizzata al diniego di offrire allo Stato un “leale” apporto collaborativo, che ha legittimato, nel corso degli anni, il giudice di sorveglianza ad arrestare alla soglia della inammissibilità le richieste dei detenuti, orientate all’accesso dei benefici menzionati, senza che le stesse potessero essere vagliate in concreto e nel merito.

Pertanto, per il condannato all’ergastolo non collaborante, la pena perpetua de iure si trasformerebbe, così in una pena perpetua de facto (cfr. ord. n. 97/2021)

Equiparazione che entra, fin da subito, in palese e netta collisione con i principi fondamentali sanciti tanto dalla Carta Costituzionale, quanto dalla Convenzione EDU, generando la causazione dei problemi applicativi che di qui a poco si dirà.

Il contesto Costituzionale e Convenzionale. Prediligendo una analisi gerarchicamente orientata, merita, prima facie, menzione l’art. 3 della Convenzione EDU, il quale proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante. Tale principio, come confermano le pronunce giurisprudenziali partorite in seno alla Corte di Strasburgo, risulta astrattamente compatibile con la pena perpetua, al ricorrere di specifiche condizioni.

Nello specifico, la Corte EDU, con la sentenza della Grande Chambre 17 gennaio 2017, Hutchinson v. Regno Unito, ha chiarito che l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante ovvero inumano, a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società.

Potrebbe (rectius dovrebbe) operare in tale direzione il regime della liberazione condizionale, di cui all’art. 176 c.p., il quale, per tradizione giuridica, assolve una efficace funzione di contemperamento, attenuando il rigore di cui all’art. 22 c.p., disciplinante il fine pena mai, garantendone conseguentemente la compatibilità con la finalità rieducativa e risocializzante, che, ai sensi dell’art. 27 comma 3 cost., la pena deve necessariamente assolvere.

Asserzioni, quelle anzidette, che trovano conferma nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, sul punto sconfinata ed ormai granitica, la quale con la sentenza n. 161 del 1997 giunge alla seguente conclusione: “[s]e la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o più esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale”.

Il quadro radicalmente muta non appena viene travalicato il perimetro della ostatività di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, il quale, stante il formale rinvio dell’art. 2 d.l. n. 152 del 1991, esercita una vis attractiva sul beneficio della liberazione condizionata, ragion per cui rientra, seppur di riflesso, nelle censure di legittimità oggetto del procedimento incidentale di cui si discorre.

Infatti, per i condannati all’ergastolo per reati connessi alla criminalità organizzata, la presunzione assoluta di pericolosità, generata dalla clausola di equivalenza della mancata utile collaborazione e della persistenza del legame di appartenenza al gruppo criminale, esclude in radice dall’accesso ai benefici penitenziari e, appunto, fra questi, alla liberazione condizionale.

Le pronunce giurisprudenziali prodromiche all’ordinanza n. 97 del 2021. Per ben oltre venticinque anni, dalla sentenza n. 306 del 1993 alla n. 253 del 2019, confessa la Corte Costituzionale – con la sentenza in analisi- che si è dovuta costantemente occupare della peculiare condizione dei condannati alla pena perpetua per reati connessi alla criminalità organizzata, verificando, in particolare, se tale disciplina collida con la ricordata necessità costituzionale di “riducibilità” dell’ergastolo.

Nel compendio motivazionale delle ricordate pronunce, la Consulta non si è espressa nella direzione della incompatibilità con l’assetto costituzionale del combinato normativo di cui agli artt. 4 bis e 58 ter dell’ordinamento penitenziario, valorizzando l’aspetto che l’inaccessibilità ai benefici penitenziari, per il detenuto non collaborante, non derivi iuris et de iure dalle menzionate disposizioni, ma dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo, il quale così facendo decide di non annientare la consequenzialità prevista dalle disposizioni censurate.

Ciò, nonostante, vi fossero sullo sfondo argomenti, che, oculatamente attenzionati, avrebbero fin da subito potuto condurre a conclusioni antipodiche.

Innanzitutto, va evidenziato come la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento (cfr. sentenze n. 253/2019 e n. 306/1993), dovendo vagliare tanto le vere ragioni che orientano la scelta del condannato nell’una o nell’altra direzione, quanto le alternative concrete modalità con le quali si possa appalesare la dissociazione dello stesso con l’ambiente mafioso.

Sotto il primo profilo, non può non evidenziarsi come la scelta che si pone al cospetto dell’ergastolano, onde poter beneficiare di un regime esecutivo più “mite”, nella quasi totalità dei casi, assuma una connotazione tragica, dovendo essere parametrata su due principi fondamentali, che potrebbero risultare lesi, quali la propria libertà personale e la tutela della vita e dell’integrità fisica dei familiari dello stesso, da prassi criminale bersaglio preferito di ritorsioni per frenare le “gole profonde”.

Sullo stesso piano, giova sottolineare il mero carattere di convenienza che, non di rado, assume la decisione di collaborare del condannato, il quale animato dalla sola ambizione di riacquistare al più presto la libertà, offre contributi narrativi che si rivelano del tutto superflui o addirittura depistanti.

In merito al secondo profilo, come sostenuto dalla Corte EDU, in particolar modo nella sentenza Viola c. Italia, considerare la collaborazione con le autorità quale unica dimostrazione possibile della dissociazione del condannato conduce a trascurare gli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto, soprattutto a fronte di un lungo percorso carcerario, nonché le trasformazioni in melius della personalità dello stesso.

Tali considerazioni rendono nitida la irragionevolezza della presunzione assoluta di pericolosità a carico del non collaborante, poiché basata su generalizzazioni che i dati dell’esperienza possono smentire (cfr. sent. 253/2019), correlativamente alla manifesta tensione con i principi costituzionali di rieducazione e risocializzazione, laddove la collaborazione sia l’unica strada da percorrere per il riacquisto della libertà.

Il traguardo dell’ordinanza n. 97 del 2021. L’epilogo narrativo, cui giunge la Consulta, con la decisione in commento, surrogato ed avvalorato dalle argomentazioni che precedono, deve indubbiamente identificarsi con la necessità di riconoscere alla ormai nota presunzione di pericolosità – supra descritta- il carattere delle relatività, potendo ergo essere vinta da prova contraria, valutabile in concreto dal tribunale di sorveglianza. Essa prova, da un lato, non può certamente identificarsi con la sola regolare condotta carceraria o con la mera partecipazione al percorso rieducativo, dall’altro, non può discendere sic et simpliciter soltanto da una dichiarata dissociazione.

Ordunque, la Consulta, come si evince dall’impianto motivazionale offerto con l’ordinanza n. 97 del 2021, ritiene che per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino.

Si tratta, dunque, non di escludere aprioristicamente per i condannati per delitti connessi alla criminalità organizzata hic et hunc la possibilità di accedere a qualsivoglia forma di beneficio penitenziario, le cui istanze de libertate sono state falciate dalla mannaia della inammissibilità, ma di accompagnare le decisione emesse in tal senso del Tribunale di Sorveglianza, con una valutazione, per così dire individualizzata, che dimostrasse la sussistenza – o meno- delle condizioni ampiamente illustrate, presupposto imprescindibile per il riacquisto anzitempo della libertà.

Di conseguenza, la Corte Costituzionale, rinnegando l’utilità di un intervento “demolitorio”, il quale rischierebbe con alta probabilità – quasi certezza- di ingenerare delle falle nel sistema di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, con la inevitabile concretizzazione di episodi che potrebbero costituire il volano per esternare sentimenti di dubbia moralità giuridica e di risentimento etico-sociale, scientemente auspica – come sollecitato già da Strasburgo- un intervento di politica criminale, rientrante nel perimetro della discrezionalità legislativa, finalisticamente orientato alla rimozione dei profili di criticità che il Giudice delle leggi, nel perimetro delle sue attribuzioni, ha mostrato con eloquenza.

Considerazioni conclusive. Da ultimo, giova evidenziare come il giudice delle leggi, sulla scorta delle argomentazioni passate in rassegna, dopo essersi limitato ad assolvere il suo primario ruolo di vagliare la compatibilità, con l’assetto Costituzionale e sovranazionale, dell’impianto normativo sotto-ordinato, ed avendone palesato le criticità, “passa la palla” al Legislatore, sospendendo il giudizio e riponendo piena fiducia nello stesso nell’arduo compito di ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo.

Emerge, da tale modus operandi, uno spirito di leale collaborazione istituzionale tra organi apicali dell’ordinamento giuridico italiano, nonché il rispetto delle attribuzioni di ciascuno. Ergo, viene mitigata la necessità di dissolvere vizi di legittimità costituzionale, da un lato, e di non straripare nella sfera del potere legislativo, dall’altro lato.

Si appalesa, in tal modo, la volontà di aderire ad una prassi, in via di consolidamento in ambito europeo, funzionale ad una costruttiva sinergia tra Corte Costituzionale e Legislatori, onde assicurare il rispetto e lo sviluppo dei principi costituzionali.

La ratio della convergenza su tale linea di indirizzo non può non essere rintracciata nella efficace tutela della persona umana, quale preminente centro di interessi all’interno dell’intero ordinamento giuridico, evitando che sulla stessa possano gravare vulnus generati da una nefasta conduzione dei rapporti istituzionali e funzionali, tra l’organo giurisdizionale e quello legislativo.


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