Le conseguenze penali dell’omessa acquisizione del consenso informato
Il consenso informato rappresenta la consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico e costituisce espressione della libertà di autodeterminazione del paziente, definita come inviolabile dall’art. 13 della Carta fondamentale, nonché del diritto alla salute, previsto e disciplinato dall’art. 32, secondo il quale nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per espressa disposizione di legge e nella necessità di salvaguardare l’interesse alla salute collettiva.
Si consideri inoltre il principio di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione, il quale tutela e promuove i diritti fondamentali della persona, tra cui il diritto alla vita e all’integrità fisica.
Il consenso al trattamento sanitario non può essere considerato alla stregua di una causa di giustificazione, operando piuttosto come presupposto di legittimità dell’intervento.
La formazione del consenso informato presuppone una prima fase avente carattere informativo, nella quale il medico deve rendere edotto il paziente sul trattamento da compiere, specificandone le probabilità di successo, le controindicazioni, i rischi, gli eventuali effetti collaterali e le alternative terapeutiche.
Ad essa segue la fase della decisione, nella quale si assiste alla manifestazione di volontà del malato.
Affinché il consenso possa giustificare l’effettuazione del trattamento sanitario non obbligatorio è comunque necessario che lo stesso, oltre ad essere informato, presenti ulteriori requisiti.
Il consenso deve infatti essere personale, ossia essere manifestato direttamente dal paziente capace di intendere e volere, e specifico, ovvero riguardare il singolo intervento o comunque il trattamento sanitario effettuato; infine, deve essere immune da vizi, nonché reale, effettivo ed attuale, dovendo persistere per tutta la durata del trattamento.
Ci si interroga invece in ordine alla forma del consenso, discutendosi se sia sufficiente una manifestazione tacita per “factia concludentia” o se sia necessaria piuttosto una forma espressa e scritta.
Secondo la giurisprudenza, in ogni caso, il consenso al trattamento sanitario può ritenersi presunto nei casi di incapacità materiale a consentire e in presenza di un’urgente necessità terapeutica, la quale non consenta al medico, senza pregiudizio per la salute del paziente, di attendere la manifestazione di un consenso effettivo.
Sulla base di quanto affermato, si possono così individuare quelle ipotesi nelle quali l’attività del sanitario è suscettibile di assumere rilevanza penale, andando ad integrare il c.d. intervento medico arbitrario.
Tale fattispecie si verifica, in particolare, quando manca del tutto il consenso del paziente, qualora questo risulto affetto da vizi e dunque invalido e, infine, quando sia riferito ad un intervento diverso da quello praticato dal medico.
Secondo quanto ritenuto in passato dalla giurisprudenza, alla mancanza del consenso del paziente avrebbe dovuto corrispondere, a prescindere dal buon esito dell’operazione, la responsabilità penale del medico.
In ossequio a quanto affermato dall’art. 32 della Carta fondamentale, infatti, si riteneva che il consenso del malato fosse presupposto indefettibile di liceità di qualsiasi intervento medico/sanitario, quale naturale ed inderogabile manifestazione della libertà di rifiutare le cure.
Un primo filone interpretativo qualificava l’illecito posto in essere dal sanitario, il quale aveva effettuato l’intervento in assenza di un valido consenso del paziente, in termini lesione personale ex art. 582 c.p., affermando che il reato in questione potesse infatti ritenersi integrato in presenza di qualsiasi alterazione anatomica/funzionale del paziente, indipendentemente da una malattia in senso stretto del termine e quindi dall’esito infausto dell’intervento.
Di diverso avviso era invece un altro orientamento, il quale evidenziava l’impossibilità di considerare, quale evento del reato di lesioni, il miglioramento delle condizioni di salute del paziente, dovuto al buon esito dell’operazione.
Secondo tale concezione, pertanto, la fattispecie avrebbe dovuta essere inquadrata nell’ambito del reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p., derivato dalla sola violazione della libertà di autodeterminazione.
Sul punto sono intervenute le sezioni unite, le quali hanno escluso la sussistenza di entrambi gli illeciti: con riferimento al reato di lesioni, infatti, mancherebbe il fatto tipico, mentre con riguardo a quello di violenza, si osserva, esso potrebbe ritenersi integrato solo nel caso in cui il paziente abbia espresso il proprio dissenso all’intervento.
Nella differente ipotesi in cui dal trattamento sanitario in assenza di consenso fosse derivato un esito infausto, per contro, la giurisprudenza aveva inizialmente ritenuto sussistente la responsabilità del medico a titolo di lesioni personali dolose ex art. 582 c.p. e, nel caso in cui fosse derivata la morte del paziente, aveva ritenuto integrato il reato di omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p.
Tale impostazione è stata tuttavia superata dalla giurisprudenza più recente, secondo la quale il fine di cura perseguito dal medico impedisce la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di lesioni volontarie, per la cui sussistenza sarebbe infatti necessario che il sanitario agisca consapevole del fatto che il suo intervento determini una non necessaria menomazione all’integrità fisica del paziente.
Considerata l’impossibilità di ritenere configurato il reato di lesioni volontarie per mancanza di tipicità del fatto, si osserva, l’imputato non può a fortiori essere ritenuto responsabile di omicidio preterintenzionale.
In caso di esito infausto dell’intervento, dunque, al medico potrà essere imputato un titolo di reato secondo i criteri tradizionali, ovvero procedendo alla verifica dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa sulla base delle circostanze del caso concreto.
Il dolo, chiaramente, non potrà che essere escluso dalla sussistenza del fine di cura, mentre la colpa dovrà essere valutata facendo riferimento alle “leges artis”, ovvero alle specifiche norme che regolano l’esercizio dell’attività medica.
Dalla mancanza del consenso, deve essere mantenuta distinta l’ipotesi in cui il trattamento sanitario sia stato posto in essere nonostante il paziente abbia manifestato un rifiuto specifico in ordine al suo svolgimento.
A tal riguardo, non sorgono particolari problematiche nell’ipotesi in cui il trattamento terapeutico sia prescritto come obbligatorio dalla legge, essendo in tal caso irrilevante la libertà di autodeterminazione del singolo o comunque recessiva rispetto alla preventiva valutazione del legislatore in ordine alla necessità di tutelare la salute collettiva.
La questione, piuttosto, si pone nel caso in cui l’intervento si riveli urgente e necessario per salvare la vita del malato, e non risulti inoltre imposto da nessuna disposizione di legge.
Come osservato da attenta dottrina, infatti, in tale situazione entrano in rotta di collisione due diversi interessi costituzionalmente protetti: da una parte la libertà di autodeterminazione, di cui all’art. 13 della Costituzione, e dall’altra il principio solidaristico, sancito dall’art. 2, il quale impone al sanitario, in ossequio alla posizione di garanzia dallo stesso rivestita, di porre in essere tutti gli interventi necessari per salvaguardare la salute del paziente.
Secondo un orientamento ad oggi minoritario, nonostante l’espresso rifiuto del paziente il medico sarebbe comunque obbligato ad intervenire: il diritto di rifiutare le cure ex art. 32 Cost, si osserva, incontra un limite nella indisponibilità della vita umana, non potendo riconoscersi un diritto di lasciarsi morire.
A fondamento di tale interpretazione si richiamano gli artt. 5 c.c. e 580 c.p., i quali rispettivamente disciplinano gli atti di disposizione del proprio corpo e il reato di istigazione o aiuto al suicidio.
Ai sensi dell’art. 5 citato, in particolare, sono vietati quegli atti di disposizione che determinano una menomazione permanente del proprio corpo.
Secondo quanto previsto dall’art. 580 c.p., invece, assume rilevanza penale la condotta di colui il quale aiuta taluno a porre fine alla propria vita.
L’orientamento attualmente prevalente, per contro, è pervenuto a riconoscere carattere preminente al diritto di rifiutare le cure, ritenendo che un limite ad una fonte costituzionale, come l’art. 32 della Carta fondamentale, non possa certamente essere rinvenuto in una legge ordinaria, quali gli articoli da ultimo citati, ma nemmeno essere rinvenuto nel principio solidaristico di cui all’art. 2 della Costituzione.
Secondo la giurisprudenza più recente, infatti, in presenza di un dissenso alle cure validamente prestato, il paziente è titolare di un vero e proprio diritto a non curarsi, anche nelle ipotesi in cui ciò comporti il rischio di perdere la vita.
In ambito sanitario deve pertanto affermarsi il sopravvento del principio consensualistico, con la conseguenza che il medico dovrà astenersi dall’intervenire, anche qualora ciò possa determinare la morte del paziente, ogni qualvolta il medesimo abbia espresso un lucido dissenso alle cure.
Quanto detto vale anche nel caso in cui il dissenso del paziente concerna la prosecuzione di un trattamento già in atto; anche in tale ipotesi, infatti, si è al cospetto di un legittimo rifiuto ad un trattamento medico, e non invece di fronte ad una fattispecie di eutanasia attiva, come tale vietata dall’ordinamento, posto che il sopraggiungere della morte avviene per effetto della malattia e del decorso naturale della stessa.
Anche il dissenso, tuttavia, deve essere attuale: come ritenuto dalla S.C., in particolare, qualora il paziente non si trovi nella condizione di capacità necessaria per esprimere un valido dissenso, il rifiuto alle cure precedentemente manifestato può applicarsi al caso concreto solo qualora ricorrano una serie di indici presuntivi che consentano di deporre in tal senso, quali per esempio le testimonianze raccolte, la ricostruzione della personalità del soggetto e i convincimenti etici, storici e religiosi del medesimo.
Per la Corte, il giudice può autorizzare l’interruzione del trattamento sanitario soltanto laddove ricorrano due circostanze: in primo luogo, è necessario che lo stato vegetativo del paziente sia assolutamente irreversibile, ovvero senza alcuna possibilità di recupero della coscienza e della capacità di percezione; in secondo luogo occorre accertare, sulla base degli elementi poc’anzi indicati, che il paziente, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.
Quanto affermato è stato di recente tradotto in legge con la recente riforma in materia sanitaria: la l. n. 219/17 ha infatti riconosciuto al consenso informato un portata tale da ricomprendere il diritto del paziente a lasciarsi morire, negando invece cittadinanza al diverso e vietato diritto di morire.
La fonte normativa indicata ripropone la distinzione operata dalla giurisprudenza tra eutanasia attiva, nella quale è il medico a cagionare direttamente la morte del paziente, come tale sempre vietata, ed eutanasia passiva, alla quale si riconduce invece l’ipotesi di omissione o interruzione di terapie funzionali a tenere in vita il paziente, e nella quale la morte va dunque ricondotta all’evoluzione della malattia, limitandosi il sanitario a non far nulla per impedirne il decorso.
Tanto premesso, nel caso in cui l’intervento del sanitario integri un fatto penalmente rilevante ci si interroga in ordine all’individuazione della scriminante che può dallo stesso essere eventualmente richiamata al fine di escludere la propria responsabilità penale.
A tal riguardo si è sostenuto che il medico potrebbe invocare una esimente tipica differente a seconda di tre diversi fattori, ovvero la tipologia di attività medica effettuata, la situazione fattuale in cui l’intervento medico/chirurgico è stato effettuato ed il quadro normativo che connota la singola operazione.
Con riferimento al tipo di attività medica esercitata, si suole distinguere tra quella volta alla cura del paziente e quella avente invece finalità meramente estetica.
L’attività terapeutica, infatti, al contrario di quella estetica, è autorizzata dall’ordinamento per la sua evidente utilità sociale, consentendo di conseguenza al sanitario, che abbia agito nel rispetto dell’ ”ars” medica ed in presenza del valido consenso del paziente, di invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p.
In questo caso, si osserva, il consenso del paziente opererebbe quale condizione necessaria per invocare l’applicabilità dell’art. 51 c.p.ri
Qualora il medico si trovasse a dover agire al cospetto di una situazione di urgenza terapeutica, d’altra parte, potrebbe dallo stesso essere invocata la causa di giustificazione dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. ovvero, secondo alcuni, anche quella dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p., alla luce della posizione di garanzia rivestita dal medico nei confronti del paziente.
Nel caso in cui l’intervento sia posto in essere per fini esclusivamente estetici, invece, al fine di poter scriminare la condotta medica sarà sempre necessario il consenso dell’avente diritto, che opererebbe quale causa di giustificazione ex art. 50 c.p.
Infine, l’esimente invocabile può altresì distinguersi in base alla sussistenza di disposizioni normative che impongono al medico di agire indipendentemente dal consenso del paziente; in tal caso, infatti, l’intervento sanitario potrebbe certamente ritenersi scriminato richiamando l’art. 51 c.p., ovvero riconducendolo nell’ambito dell’adempimento di un dovere.
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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo.
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Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori.
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