Le conseguenze penali derivanti dall’inosservanza delle misure limitative dell’epidemia da Covid-19
Sommario: 1. Premessa – 2. Il nuovo reato di violazione della c.d. quarantena obbligatoria per chi è risultato positivo al virus – 3. La casistica giurisprudenziale e il possibile contrasto con la Costituzione – 4. Brevi cenni sul tema delle vaccinazioni obbligatorie (nell’ottica dei vaccini anti-Covid) – 5. Considerazioni finali
1. Premessa
Per contrastare la grave epidemia da Covid-19 il Governo ha adottato una serie di misure limitative fortemente restrittive della libertà di cittadini e imprese.
La base normativa di tali misure è costituita da due decreti-legge, che si sono succeduti nel tempo ossia il d.l. 23 febbraio 2020 n. 6 (convertito dalla legge 5 marzo 2020 n. 13) e, poi, il d.l. 25 marzo 2020, n. 19, intervenuto nell’ottica di riorganizzare e razionalizzare l’intero quadro normativo e sanzionatorio determinatosi nella situazione emergenziale, costituendo la base normativa di riferimento della disciplina dell’emergenza.
Tale ultimo decreto, sostituendo il precedente, ha introdotto un nuovo assetto dei poteri emergenziali che ruota attorno a una serie di principi cardini che possono essere sintetizzati nei termini che seguono.
Anzitutto, regola generale è data dall’estensione delle misure di contenimento del virus all’intero territorio nazionale, esplicitando in tal modo la base legale delle misure introdotte anche al di fuori delle “zone rosse”.
L’art. 2 del decreto in analisi elenca tutte le tipologie di misure limitative che hanno carattere tassativo, evitando il ricorso alla clausola in bianco delle eventuali “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza” presente nel precedente decreto-legge.
Si tratta di una novità intervenuta nell’ottica di garantire il rispetto della riserva di legge che la Costituzione prevede quale condizione e garanzia per limitare l’esercizio di libertà fondamentali, come quelle di cui agli artt. 16 (libertà di circolazione) e 41 (libertà di iniziativa economica) della Costituzione.
Ulteriore cardine di riferimento è dato dall’introduzione di parametri quali l’adeguatezza specifica e la proporzionalità al rischio effettivamente presente, su base locale o nazionale, per legittimare l’adozione delle misure limitative per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili anche più volte secondo l’andamento epidemiologico del virus.
Inoltre, viene affermato il carattere primario e centrale della competenza statale nell’adozione delle misure limitative.
Resta in vigore la regola secondo cui le misure sono adottate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti (o su proposta dei) i presidenti delle regioni interessate, ovvero del Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome (nel caso di misure che riguardino l’intero territorio nazionale).
E viene confermata, altresì, la previsione secondo cui il Ministro della Salute ha il potere di adottare le misure limitative con ordinanza solo nelle «more» dell’adozione dei d.P.C.M. e «nei casi di estrema necessità e urgenza».
Da ciò se ne ricava la competenza eccezionale delle Regioni le quali possono adottare misure di contenimento, solamente nei casi tipizzati appena previsti con riferimento al Ministro della Salute, e in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso.
Inoltre, la potestà è attribuita alle regioni «esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale».
2. Il nuovo reato di violazione della c.d. quarantena obbligatoria per chi è risultato positivo al virus
È previsto un regime sanzionatorio più severo, affidato alla tutela penale, solamente per l’inosservanza di una delle misure limitative introdotte dal decreto-legge n. 19/2020, ossia per la violazione «del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus» (art. 2, co. 1, lett. e).
Diversamente, l’inosservanza della c.d. «quarantena precauzionale» (art. 2, co. 1, lett. d) prevista per i soggetti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva integra un illecito amministrativo introdotto appositamente dal decreto.
È un reato di pericolo per la salute pubblica, il quale si basa su una presunzione ragionevole perché sorretta da evidenze scientifiche, quando viene in rilievo l’allontanamento dal luogo di isolamento di persona positiva al virus; presunzione che esclude che il giudice dovrà accertare a prima facie il concreto pericolo causato da quella persona allontanandosi dalla abitazione.
Più precisamente è un reato di pericolo astratto, che si differenzia dai reati di pericolo concreto perché l’accertamento del pericolo (quale elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice) avviene tramite un giudizio ex ante, a base parziale, ossia tenendo conto solo delle circostanze conosciute e conoscibili dall’agente, prescindendo quindi dalle circostanze esistenti ma non conosciute.
Ulteriore osservazione va fatta circa la presenza di una espressa clausola di riserva in favore del delitto di epidemia colposa, prevedendo che «salvo che il fatto costituisca violazione dell’art. 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 2, lettera e), è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7».
Parte della dottrina ha ritenuto che la disposizione ha come scopo quello di colmare la lacuna o accorciare la distinzione tra l’illecito amministrativo (originariamente penale) che punisce chi viola le generali misure di contenimento del contagio e il delitto di cui all’art. 452 c.p. che integra il macro evento epidemico.
Sempre tale tesi richiede, ai fini della configurabilità del delitto di epidemia colposa, la dimostrazione che la violazione della quarantena da parte del soggetto positivo ha cagionato il contagio di una o più persone e creato il pericolo di una ulteriore propagazione della malattia rispetto a un numero indeterminato di persone.
Il reato di violazione della quarantena obbligatoria è un reato contravvenzionale che presenta una struttura secondo cui autore dello stesso può ovviamente essere solo chi si trova sottoposto al regime di quarantena a seguito dell’accertamento della sua positività al virus. È, dunque, qualificabile come reato proprio, che discende dall’adozione del provvedimento individuale con il quale l’autorità sanitaria locale dispone l’applicazione della misura della quarantena.
Tuttavia, va detto che la giurisprudenza ammette che il giudice penale può esercitare il proprio sindacato sull’atto presupposto, ossia quello impositivo della quarantena, con conseguenti ricadute sulla configurabilità del reato in questione.
Ed, invero, secondo la giurisprudenza[1], il sindacato sull’atto amministrativo in sede penale, ai fini della configurabilità degli elementi costitutivi del reato, è ammesso solo quando l’atto sia mancante dei requisiti di forma e di sostanza o sia inesistente, perché emesso da un organo privo di potere, oppure frutto di attività criminosa da parte del soggetto pubblico che lo ha adottato; diversamente, è escluso nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l’esercizio del potere di emettere il provvedimento.
Ulteriore vaglio giudiziale è quello riguardante l’offensività in concreto della contravvenzione, con esclusione della rilevanza penale di quei fatti che integrano un allontanamento privo di ogni attitudine a determinare qualsiasi potenziale contatto del soggetto positivo con altre persone.
Sulla scorta di quanto appena detto, ad esempio dovrebbe escludersi la rilevanza penale della condotta di chi, sottoposto a regime di quarantena obbligatoria nella propria abitazione posta in una strada periferica e isolata, si reca in piena notte a gettare l’immondizia nel cassonetto posto di fronte casa.
Infatti, affinché sussista il pericolo di un contagio, il soggetto positivo deve muoversi nell’ambiente al di fuori della propria abitazione diventano veicolo di contagio, con ciò non volendo significare che il contagiato debba attraversare la città con mezzi pubblici o frequentare luoghi affollati, ma deve in ogni caso determinare uno spostamento del contagio, non essendo sufficiente che varchi la soglia di casa[2].
3. La casistica giurisprudenziale e il possibile contrasto con la Costituzione
Premesso che la giurisprudenza sta cominciando pian piano a pronunciarsi sulla sorte delle numerose denunce prodotte all’esito dei controlli delle forze dell’ordine, in questa sede è possibile analizzare i primi, nonché i più importanti-innovativi, arresti giurisprudenziali sul tema.
Aprendo una breve parentesi amministrativa che funge da introduzione alla tematica, il Consiglio di Stato con parere del 13 maggio 2021[3] si è pronunciato per la prima volta sulla legittimità dei d.P.C.M. adottati per imporre le misure di contenimento anti-Covid.
Il principio che si ricava è quello per cui la gestione dell’emergenza attuata con i d.P.C.M. non contrasta con la Costituzione, se non incide su diritti coperti da riserva assoluta di legge.
Più precisamente, afferma la giurisprudenza che la legittimità dei decreti attuativi è coerente con il sistema delle fonti per due principali motivazioni: anzitutto, la disciplina di dettaglio e analitica delle fattispecie regolate nell’atto-fonte di necessità e urgenza, non essendo obbligatoriamente riservata alla norma primaria, può essere colmata da fonti secondarie; in secondo luogo, si è ritenuto che il decreto-legge, ancorché caratterizzato da un procedimento di approvazione celere, non avrebbe consentito la versatilità e flessibilità richieste dalla situazione emergenziale, in continuo mutamento e con significative diversificazioni territoriali, tale da presupporre interventi brevi e necessari nell’arco di un mese o addirittura settimane.
Il parere al contempo evidenzia, tuttavia, come da un lato fossero possibili altre soluzioni già previste dal sistema normativo (come le ordinanze contingibili e urgenti previste in capo al Dipartimento della protezione civile o in capo al Ministro della Salute) e, dall’altro lato, la compatibilità del d.P.C.M. nelle materie ricoperte solo da riserva relativa di legge.
Ed, invero, afferma esplicitamente il Consiglio di Stato che «il modello innovativo adottato con il sistema imperniato sul rinvio ai decreti attutivi non presenta i denunciati profili di incostituzionalità e di dissonanza rispetto al sistema delle fonti (avendo riferimento precipuo, in questa sede, deve ripetersi, all’incidenza, qui denunciata, sui diritti al lavoro e alla libera iniziativa economica privata, e non anche ad altre libertà individuali presidiate da riserva assoluta di legge)».
Tanto premesso, come per gran parte della normativa finalizzata al contenimento del rischio da contagio, anche con riferimento all’obbligo di quarantena, ci si è chiesti in primo luogo se tale imposizione fosse conforme al dettato costituzionale.
Sul tema si registra un primo orientamento giurisprudenziale del quale è, in primis, espressione il Tribunale di Reggio Emilia[4] con una sentenza avente ad oggetto il reato di falso nelle autocertificazioni.
Secondo tale tesi il d.P.C.M. non sarebbe conforme a Costituzione in quanto prevederebbe delle illegittime limitazioni alla libertà personale ex art 13 Cost., e non alla libertà di circolazione ex art 16 Cost. Infatti, come sostenuto anche dalla Corte Cost.[5] la libertà di circolazione riguarda esclusivamente i limiti di accesso a determinati luoghi (ad esempio, il divieto di accedere a determinate zone circoscritte) ma non anche un obbligo di permanenza domiciliare.
In altre parole, è necessario effettuare una distinzione tra libertà di circolazione, le cui limitazioni possono riguardare il divieto di accesso a luoghi specifici, e libertà personale che viene in rilievo quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone.
Al riguardo afferma il tribunale «quando il divieto di spostamento è assoluto, come nella specie, in cui si prevede che il cittadino non può recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione, è indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale».
In tal caso l’inammissibilità delle restrizioni discenderebbe dal fatto che la fonte delle stesse è un atto amministrativo, provvedimento emesso dall’autorità sanitaria, sottraendosi in tal modo alla riserva di giurisdizione ex art 13 Cost.
Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale sostiene che la condotta di falso nelle certificazioni, poiché discendente da un obbligo incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittimo, integri una condotta non punibile.
Più precisamente viene definito “falso inutile”, configurabile quando «la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere in relazione alla situazione giuridica che viene in questione».
A conclusioni opposte giungono coloro che sostengono che in questi casi non si avrebbe un decisivo contrasto con le garanzie e i limiti costituzionali, in quanto, se da un lato la fonte della compressione dei diritti andrebbe individuata direttamente nella legge, dall’altro e soprattutto, non sarebbe possibile assimilare questa misura (l’obbligo di permanenza domiciliare) a quelle limitative della libertà personale e dunque non si porrebbe un problema di contrasto con l’art. 13 Cost[6].
Altra pronuncia che merita attenzione è quella del Tribunale di Pisa del 17 marzo 2021[7], con la quale viene affermata l’illegittimità di tutti i dpcm adottati per gestire l’emergenza pandemica.
Anche in tal caso viene evidenziata la compressione della libertà personale che rappresenta un diritto fondamentale dell’individuo, facente parte del c.d. “nucleo duro” della Costituzione, al punto che parte della dottrina ritiene che tali diritti fondamentali non siano revisionabili neppure con il procedimento di revisione costituzionale ex art 138 Cost.
Se da un lato, alla base della normativa di contenimento del Covid vi è l’esigenza di tutelare un altrettanto diritto fondamentale, quale il diritto alla salute dell’individuo, nell’ottica anche di tutelare un interesse della collettività, come da art. 32 Cost., dall’altro lato va detto che la massimizzazione dell’istanza di sicurezza, in funzione di tutela del diritto alla vita e alla salute, determina un abbandono del principio di proporzionalità che imporrebbe un bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti e, così, delle limitazioni di diritti costituzionali. In altre parole, la nostra Costituzione non conosce valori assoluti che come tali meritano una tutela incondizionata, anche a fronte del sacrificio di ulteriori diritti fondamentali, essendo sempre necessario procedere ad un bilanciamento degli interessi in gioco, non potendosi riconoscere un dominio assoluto riconosciuto a taluni diritti fondamentali.
Ancora una volta la giurisprudenza propende per la tesi della illegittimità dei d.P.C.M. perché «con tale provvedimento, avente per altro natura amministrativa, si è stabilito un divieto generale e assoluto di spostamento, salvo alcune eccezioni, divieto che si configura, perciò, in un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare come tale limitativo del diritto di libertà (…), che a mente dell’art 13 Cost., richiede una specifica disposizione legislativa e un atto motivato dell’autorità giudiziaria».
Nel caso di specie ne conseguiva l’inesistenza di alcuna condotta criminosa ascrivibile agli imputati, con conseguente formula di assoluzione “perché il fatto non sussiste” o “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.
Da ultimo, altra sentenza che ha sollevato tanto clamore è quella resa dal Tribunale di Milano[8] in ordine al reato di falso nell’autodichiarazione.
Premessa è che «il delitto previsto dall’art. 483 c.p. sussiste solo qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati, e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale».
Infatti, l’art 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale «fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità».
In altre parole, il concetto è che non rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 483 c.p. una dichiarazione che non riguardi «fatti di cui può essere attestata la verità ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi».
Conseguenza è che in tutti gli altri casi, in cui l’autodichiarazione infedele è resa dal privato all’esito di un controllo casuale sul rispetto della normativa emergenziale, appare complicato stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele è destinata a confluire con tutte le conseguenze previste dalla legge.
Del resto, in questi casi il controllo sulla veridicità di quanto dichiarato dai privati è successivo, eventuale e, quindi, anche non realizzabile da parte della pubblica amministrazione, con la conseguenza che ciò che il privato ha dichiarato potrebbe restare privo di qualsiasi conseguenza giuridica.
Facendo un esempio pratico: una cosa è dire “sto andando a lavoro”, altro è dire “sono andato a lavoro”. Solo nel secondo caso, venendo in rilievo un fatto già compiuto del quale è possibile verificare la veridicità del racconto, potrà sussistere il reato di falso ideologico.
Inoltre, ulteriore argomentazione a sostegno della predetta tesi fa leva sul fatto che non sussisterebbe alcun obbligo giuridico di dire la verità sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta, posto che il nostro sistema giuridico non conosce alcuna norma che «ricolleghi specifici effetti ad uno specifico atto-documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale».
La previsione di un simile obbligo porrebbe dubbi di compatibilità con il diritto di difesa del singolo ex art 24 Cost. e con il principio nemo tenetur se detegere, in quanto «il privato scegliendo legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative, verrebbe comunque assoggettato a sanzione penale per false dichiarazioni rese».
Ciò avverrebbe, come appena detto, in pieno contrasto con la regola secondo cui nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale (auto-incriminazione).
4. Brevi cenni sul tema delle vaccinazioni obbligatorie (nell’ottica dei vaccini anti-Covid)
Si tratta di un tema caldo alla luce dei recenti dibattiti, sul quale è opportuno ribadire che il diritto di non curarsi (desumibile dall’art 32 Cost, comma 2) non è illimitato, atteso che la salute del singolo incide anche sull’interesse della collettività.
Invero, la giurisprudenza ha da sempre escluso una interpretazione meramente personalistica del diritto alla salute, evidenziando diversamente come esso incontra un limite proprio nell’interesse della collettività e nel principio solidaristico di cui all’art 2 Cost, di guisa che la scelta di non curarsi, a seguito di un bilanciamento dei valori in gioco, non può mai recare danno o pericolo alla salute degli altri soggetti e, in particolar modo, dei soggetti più vulnerabili.
In altre parole, in virtù del principio solidaristico e dei cardini di una società democratica, la scelta realizzata dal singolo inerente alla propria salute, ancorché diritto inviolabile espressione della massima dignità umana, non può però costituire una minaccia per un altro soggetto, se vulnerabile, e mettere a rischio la salute altrui.
Della questione generale delle vaccinazioni obbligatorie, si è occupata anche la Corte Cost[9], la quale ha ritenuto compatibile con il dettato costituzionale l’’obbligatorietà di alcune vaccinazioni, sul fondamento che il diritto di autodeterminazione incontra proprio il limite della tutela dei soggetti più deboli.
Invero, allorquando vengono in gioco diversi interessi costituzionalmente rilevanti quali, ad esempio, la libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte sanitarie, la tutela della salute collettiva, l’interesse anche del minore a che i propri genitori realizzano le condotte idonee a proteggere la salute dei figli, è necessario procedere a un contemperamento dei vari principi, attribuendo discrezionalità al legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una protezione efficace contro le malattie infettive.
In altre parole, il legislatore può tanto selezionare la tecnica della raccomandazione, quanto preferire quella dell’obbligo.
Sul tema è intervenuto anche il Consiglio di Stato[10] con un parere nel quale si evidenzia che la previsione della copertura vaccinale sia funzionale all’adempimento di un generale dovere di solidarietà che pervade e innerva tutti i rapporti sociali e giuridici.
Quindi, frenare o ostacolare la vaccinazione, ritenuta appropriata a seguito di adeguate valutazioni scientifico-legali, può condurre a un pregiudizio per il singolo individuo non vaccinato, ma soprattutto vulnera immediatamente l’interesse collettivo, giacché rischia di ledere, talora irreparabilmente, la salute di altri soggetti deboli.
Come già detto, nella Costituzione non è rinvenibile un’incondizionata e assoluta libertà di non curarsi o di non essere sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori in quanto, molto semplicemente, nelle patologie ad alta diffusione, la scelta del singolo individuo di non curarsi potrebbe danneggiare la salute di altri essere umani e, in particolare, dei soggetti più deboli.
Quanto appena detto, ancorché inerente alla materia amministrativa, rappresenta uno spunto interessante che meritava attenzione nell’ottica di una completezza espositiva e alla luce dell’odierno dibattito sull’obbligatorietà della vaccinazione anti-Covid, ad oggi disposta per il solo personale sanitario, ancorché recentemente è stato introdotto l’obbligo del c.d. “green pass” per tutta la popolazione per viaggi, ristoranti, locali, cinema etc.. (di fatto inducendo, implicitamente, l’intera collettività a vaccinarsi).
I principi generali qui esposti possono essere utili al fine di inquadrare la tematica da un punto di vista tecnico-giuridico.
5. Considerazioni finali
Appare difficile escludere che l’esecuzione della misura che impone un rigido isolamento domiciliare al soggetto positivo incida in maniera significativa sulla libertà personale, ma risulta altrettanto difficile immaginare meccanismi di controllo giurisdizionale realmente compatibili con i caratteri e le finalità della quarantena.
Tenuto conto dei presupposti applicativi delle misure di contenimento e delle particolari esigenze necessitanti una tempistica rapida e celere, non vi sarebbe spazio per un intervento del giudice che possa garantire un efficace e pieno controllo in funzione di garanzia.
Secondo la dottrina, sarebbe molto più utile lavorare sul miglioramento della disciplina, anche quella penale naturalmente, della quarantena[11], predisponendo una disciplina più puntuale, meno disordinata e maggiormente chiara con riferimento alle regole procedimentali, alle competenze, ai contenuti, ai sistemi di controllo e ai limiti.
Ciò, invero, potrebbe configurare una soluzione in grado di offrire rassicurazioni sul piano dei diritti più forti di quelle che discenderebbero introducendo un «(necessariamente) veloce ‘passaggio di carte’ davanti ad un organo giurisdizionale (un decreto di convalida del giudice di pace?)».
Del resto, se si ammette un controllo giurisdizionale, parimente deve ammettersi la possibilità di impugnare il provvedimento, con tutti i relativi dubbi che ne derivano in ordine alla sospensione o meno della sua esecuzione e con il rischio che la decisione sul ricorso venga adottata solamente a quarantena scaduta.
Un altro punto sul quale può essere plausibile un miglioramento è quello della efficienza dei controlli e del miglioramento dell’assistenza sanitaria in favore dei soggetti sottoposti a misure di quarantena, garantendo, da un lato, tempi certi per le necessarie verifiche (non è raro oggi che si trascorra più tempo in attesa dei risultati dei test che non in quarantena) e dall’altro condizioni dignitose e sicure per chi si trova in quarantena e la sua famiglia.
Al riguardo, se il disvalore del reato di violazione della quarantena obbligatoria si focalizza sull’esigenza di evitare il propagandarsi dell’epidemia, trattandosi di un reato di pericolo per la salute pubblica, potrebbe essere forse rivista la sua applicabilità soprattutto nei casi dei c.d. “falsi positivi” (confermati, ad esempio, da più tamponi di esito opposto effettuati a breve distanza temporale), i quali sarebbero pur sempre costretti a rispettare il periodo di isolamento dei 10 giorni, ancorché si tratti di soggetti non potenzialmente pericolosi.
In conclusione, si auspica una chiara e netta presa di posizione al riguardo da parte della Corte Costituzionale, chiamata a individuare i confini entro i quali tali misure di contenimento possono definirsi lecite.
[1] Cass. Pen. Sez. IV, 17 settembre 2008, n. 38824.
[2] S. FIORE, La rilevanza penale della violazione della quarantena obbligatoria, in Sistema Penale, fascicolo 11/2020, p. 5 ss.
[3] Cons. Stato, Sez. I, 13 maggio 2021, n. 850, in ItalGiure Web
[4] Tribunale di Reggio Emilia, Sez. GIP-GUP, 27 gennaio 2021, n. 54.
[5] Corte Cost., n. 68 del 1964, in ItalGiure Web
[6] S. FIORE, La rilevanza penale della violazione della quarantena obbligatoria, in Sistema Penale, fascicolo 11/2020, p. 8.
[7] Trib. Pisa, 17 marzo 2021, n. 419.
[8] Tribunale di Milano, GIP, 12 marzo 2021, n. 839
[9] Corte Cost, n. 5 del 18 gennaio 2018, in ItalGiure Web
[10] Consiglio di Stato parere n. 2065 del 2017
[11] S. FIORE, La rilevanza penale della violazione della quarantena obbligatoria, in Sistema Penale, fascicolo 11/2020, p. 9
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