Le contestazioni a catena

Le contestazioni a catena

Le problematiche legate alla pratica delle contestazioni a catena sono da tempo oggetto di discussione dottrinale e giurisprudenziale.

Con tale espressione ci si riferisce a quelle situazioni in cui l’imputato sia destinatario, in momenti successivi, di plurime ordinanze applicative della medesima misura cautelare. Tale ipotesi, al fine di evitare che l’organo inquirente possa contestare una molteplicità di addebiti allo stesso soggetto in modo saltuario, per prolungare artificiosamente la durata della misura applicata alla scadenza dei termini, è sanzionata con la retrodatazione ex lege di tutti i provvedimenti cautelari al momento dell’emissione del primo tra di essi. I termini devono, dunque, decorrere dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave.

Questione ampiamente dibattuta in sede legislativa e giurisprudenziale riguarda l’oggetto dei fatti dei provvedimenti cautelari. Al riguardo, la legge del 28 luglio 1984, n. 398, prevedeva, al terzo comma dell’art. 271 del codice di procedura penale del 1930, tale regola solo per i provvedimenti aventi ad oggetto lo stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero fatti diversi commessi in concorso formale, nello stesso procedimento. La legge, infatti, escludeva la retrodatazione del termine nel caso di fatti diversi originati da una pluralità di condotte offensive oggetto di diversi procedimenti, orientamento condiviso dalla giurisprudenza del tempo1.

Con l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, il legislatore regola la disciplina con l’art. 297, comma III, c.p.p., consentendo la retrodatazione ex lege, nello stesso procedimento, anche in presenza di fatti diversi ma fra loro collegati in modo tale che compiendo l’azione cautelare per uno di essi il requirente avrebbe potuto conoscere dell’esistenza degli altri fatti, oltre che della loro pericolosità ai fini della sussistenza delle esigenze cautelari. Tuttavia, oggi, la giurisprudenza maggioritaria consente che la retrodatazione operi indipendentemente dalla possibilità, al momento dell’emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e degli elementi idonei a giustificare le relative misure2.

Con l’art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332, il legislatore, sostituendo il terzo comma dell’art. 297 c.p.p., estende la regola anche alle ipotesi di più reati esecutivi di un medesimo disegno criminoso o teleologicamente collegati, purché commessi anteriormente all’emanazione della prima ordinanza cautelare, nel medesimo procedimento.

Oggi è ormai pacifico, a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte, che la norma faccia riferimento a tutti i provvedimenti cautelari che interessino un individuo, dunque, implicitamente, ammette che il divieto sancito dall’art. 297, comma III, c.p.p. operi anche nel caso in cui le diverse ordinanze siano emesse in procedimenti distinti a carico del medesimo soggetto3.

Tuttavia, la concreta applicazione di tale norma ha suscitato innumerevoli disquisizioni a causa delle omissioni che la stessa presenta, talune delle quali rimaste irrisolte.

Infatti, la prima omissione riguarda capire come opera la retrodatazione del dies a quo del secondo provvedimento quando i due procedimenti si trovano in fasi differenti. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, la retrodatazione imporrebbe di frazionare la durata globale della misura cautelare subita per prima dal reo, imputando solo i periodi relativi a fasi omogenee4. Diversamente, secondo altre recenti pronunce, la retrodatazione non deve essere effettuata frazionando la durata globale della misura cautelare, bensì computando l’intera custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee5.

La seconda incongruenza ha per oggetto la possibilità di dedurre la retrodatazione nel procedimento di riesame nel caso in cui, al momento dell’emissione della seconda misura, sia decorso per intero il termine di fase a far data dall’emissione della prima ordinanza. Secondo l’orientamento maggioritario, abbracciato anche dalla dottrina più eminente, non è possibile dedurre la retrodatazione nel procedimento di riesame poiché le cause determinanti la caducazione degli effetti dell’ordinanza applicante la misura generano vizi processuali che agiscono sul piano della caducazione della misura. Pertanto, quelle cause devono essere dichiarate nell’ambito di un apposito procedimento promosso con istanza di revoca della misura cautelare ai sensi dell’art. 306 c.p.p6. Il filone minoritario propende, invece, per l’applicazione della regola in sede di riesame solo in caso di scadenza dei termini per ipotizzata retrodatazione7. Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno risolto il contrasto interpretativo, consentendo l’applicazione della retrodatazione in sede di riesame “solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare8.

La terza omissione riguarda l’applicabilità della regola nel caso di contestazione del reato associativo di stampo mafioso con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula aperta “con condotta perdurante sino alla data odierna”, e, dunque, con la prosecuzione del reato anche in epoca successiva all’esecuzione della prima ordinanza. Le Sezioni Unite, abbracciando l’orientamento maggioritario, escludono l’applicazione della retrodatazione in tale ipotesi poiché essa può operare soltanto rispetto a condotte illecite anteriori all’inizio della custodia cautelare disposta con la prima ordinanza9.

La quarta incongruenza ha per oggetto la possibilità di dedurre la retrodatazione in caso di passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il fatto oggetto della prima ordinanza. Il tema ha formato oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la quale, dirimendo il pregresso contrasto di giurisprudenza, nel senso dell’adesione all’indirizzo in precedenza maggioritario, ne escludeva l’applicabilità in virtù della mancata coesistenza di plurime misure poiché la prima vicenda cautelare era cessata prima che fosse stata innestata la seconda10. Sul punto, interviene la Corte costituzionale, la quale dichiara l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede la deduzione della regola in esame in presenza di una sentenza di condanna passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura11. Secondo la Consulta, infatti, tale preclusione impedirebbe il recupero del periodo di custodia, che ormai non esiste più per effetto della cessazione della vicenda cautelare, ai fini dell’applicabilità dell’istituto della fungibilità della pena, consistente nella possibilità concessa al condannato di computare i periodi di carcerazione sofferti in custodia cautelare nella determinazione della pena detentiva da eseguire per altro reato. Difatti, la declaratoria di fungibilità della pena non è automatica e discende dall’autonoma valutazione dell’organo giudicante, il quale può decidere liberamente se computare la custodia cautelare sofferta per il fatto oggetto di pronuncia irrevocabile per il quale opera la retrodatazione.

In conclusione, non è possibile mettere in ordine tutti i tasselli giurisprudenziali che, come in un grande mosaico, compongono la disciplina di riferimento. In mancanza di sufficienti riferimenti normativi, e dunque nell’impossibilità di affidarsi unicamente ad interpretazioni letterali o sistematiche, la soluzione del problema sembra infatti essere in gran parte rimessa ad un’approfondita riflessione sulla ratio del meccanismo della retrodatazione e sulle esigenze che, negli anni, ne hanno determinato la progressiva estensione dell’ambito applicativo.


1 Cass. Pen., Sez. V, 6 maggio 1999, n. 2136; Cass. Pen., Sez. I, 3 maggio 1996, n. 2992; Cass. Pen., Sez. I, 31 gennaio 1994, n. 617.

2 Cass. Pen., Sez. II, 21 marzo 2017, n. 13834; Cass. Pen., S.U., 23 aprile 2009, n. 20780; Cass. Pen., Sez. VI, 20 febbraio 2008, n. 12334; Cass.. Pen., S.U., 22 marzo 2005, n. 21957.

3 Cass. Pen., S.U., 25 giugno 1997, n. 9.

4Cass. Pen., Sez. IV, 2 marzo 2017, n. 18111; Cass. Pen., Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 50761; Cass. Pen., Sez. F., 21 agosto 2014, n. 47581; Cass. Pen., Sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 15736.

5Cass. Pen., Sez. VI, 28 dicembre 2017, n. 3058; Cass. Pen., Sez. IV, 6 giugno 2017, n. 36088

6Cass. Pen., Sez. VI, 23 gennaio 2008, n. 10325; Cass. Pen., Sez. I, 13 luglio 2007, n. 35113;Cass. Pen., Sez. II, 27 giugno 2007, n. 35605; Cass. Pen., Sez. II, 13 ottobre 2005, n. 41044;

7 Cass. Pen., Sez. I, 29 marzo 2011, n. 24784; Cass. Pen., Sez. III, 9 febbraio 2010, n. 9946.

8Cass. Pen., S.U., 20 novembre 2012, n. 45246.

9Cass. Pen., S.U., 21 giugno 2018, n. 40983; Cass. Pen., Sez. IV, 2 marzo 2017, n. 18111; Cass. Pen., Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 50761; Cass. Pen., Sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 15736.

10Cass. Pen., S.U., 23 aprile 2009, n. 20780.

11Corte cost., 19 luglio 2011, n. 233.

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Giuliana Favara

Abilitata all'esercizio della professione forense, ha conseguito la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza e il diploma di Specializzazione nelle Professioni Legali presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha svolto lo stage di formazione teorico-pratica presso gli uffici giudiziari, nella sezione GIP/GUP e nella Prima Sezione Civile del Tribunale di Reggio Calabria, ai sensi dell'art. 73 del d.l. 69/2013, e ha collaborato con uno studio legale operante nel settore penale.

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