Le fattispecie incriminatrici integrabili dal mobbing
Sommario: 1. Nozione, inquadramento e problematiche – 2. Le soluzioni giurisprudenziali – 3. Conclusioni
1. Nozione, inquadramento e problematiche
Il termine mobbing deriva dal verbo inglese to mob e significa “assalire”, “molestare”, “angariare”. Con esso si fa riferimento ad una serie di condotte poste in essere tendenzialmente in ambiente lavorativo, da parte di un superiore nei confronti di un subordinato e che provocano nei soggetti che le subiscono una condizione psicologica di persecuzione ed emarginazione. Il termine mobbing, infatti, in etologia indica quell’insieme di comportamenti aggressivi, tipici degli uccelli, che son diretti ad escludere un predatore dal gruppo. Pertanto, un tale significato trasposto nell’ambiente lavorativo ed analizzato con l’occhio del giurista si concretizza in una serie di condotte vessatorie finalizzate ad indurre la vittima ad abbandonare il proprio posto di lavoro. Il mobbing viene distinto, a seconda della qualifica dei soggetti attivi, in verticale e orizzontale. In particolare, il mobbing è detto verticale quando le condotte vessatorie son commesse da parte di soggetti gerarchicamente superiori al soggetto passivo; è detto, invece, orizzontale quando le condotte siano poste in essere da soggetti gerarchicamente equiparati al soggetto passivo, ovverosia dai suoi colleghi.
Ciò premesso, il problema del rilievo penale del mobbing esiste per tre essenziali motivazioni: 1) il mobbing non è stato inquadrato in una norma incriminatrice ad hoc; 2) il nostro ordinamento ha accolto un sistema di diritto penale improntato sul principio di legalità formale; 3) uno dei principali corollari della legalità formale è il divieto di analogia in malam partem in materia penale.
Per tali ragioni, il rilievo penale del comportamento mobbizzante costituisce un complesso rompicapo per gli interpreti, sui quali grava l’onere di tentare di inquadrare la condotta concreta in una delle fattispecie di reato già esistenti. Tale operazione ermeneutica dovrà ancorarsi ad una attenta analisi del caso concreto, che potrà anche portare a qualificare in maniera diversa condotte che, ove esistesse il reato di mobbing, rientrerebbero tutte nella medesima. È evidente il vulnus di tutela per l’individuo, nonché le possibili, o meglio probabili, frizioni con il principio di legalità. Inoltre, la necessità di una tale operazione ermeneutica deriva dall’evidente disvalore che una tale condotta porta con sé. Essa, infatti, ha tutti gli elementi per poter integrare un reato: è presente una condotta, assimilabile a quella tipica dei reati abituali propri; è presente l’elemento soggettivo costituito dal dolo specifico di emarginare ed indurre ad abbandonare il posto di lavoro il soggetto passivo; è presente anche l’evento, individuabile di volta in volta nei danni che simili condotte provocano nel soggetto passivo. Gli elementi ci son tutti ad eccezione di quello più importante: l’intervento del Legislatore che configuri una fattispecie incriminatrice ad hoc.
2. Le soluzioni giurisprudenziali
La mancanza di una norma ad hoc e di conseguenza il preminente ruolo dell’interprete hanno comportato un quadro eterogeneo, nel quale la giurisprudenza ha ricondotto la condotta mobbizzante in diverse fattispecie di reato. Ciò si è reso necessario a fronte di un fenomeno sociale molto diffuso e meritevole di essere punito.
Parte della giurisprudenza ha ritenuto che il comportamento mobbizzante potesse ricondursi nell’alveo del delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 cp. Tale opzione ermeneutica viene sostenuta alla luce dell’elemento in comune che connota sia la condotta ex art. 572 cp che il comportamento mobbizzante, ovverosia l’esistenza di una soggezione tra due individui, che costituisce la causa di una sofferenza fisica o psichica, con effetti di prostrazione a avvilimento. Alla luce di ciò, in giurisprudenza è stata qualificata ai sensi dell’art. 572 cp la condotta vessatoria reiterata posta in essere dal datore di lavoro nei confronti di un proprio dipendente. Una simile qualificazione sembrerebbe coerente, in particolar modo, con la forma verticale del mobbing, nella quale lo stato di soggezione deriva anche dalla “superiorità” del soggetto attivo. In sostanza, aderendo a tale ricostruzione la condotta di mobbing, qualificata ai sensi dell’art. 572 cp, integrerebbe un reato abituale connotato da dolo specifico, posto in essere in ambito lavorativo da parte di un superiore gerarchico del soggetto passivo. Indirizzo criticato da altra parte della giurisprudenza, la quale ha precisato che la condotta mobbizzante possa ben qualificarsi come ipotesi di maltrattamenti in famiglia ma solo a condizione che il rapporto di soggezione tra datore di lavoro e lavoratore subordinato abbia un carattere “parafamiliare”.[1] Pertanto, è stato sostenuto che la mera esistenza di un rapporto di subordinazione non è sufficiente ad integrare il delitto di cui all’art. 572 cp, essendo necessario anche il requisito della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione. Ne deriva che la condotta mobbizzante potrà configurare il delitto ex art. 572 cp ma nei limiti appena indicati, con conseguente vulnus di tutela ove non sussiste il carattere parafamiliare del rapporto. In dottrina si è anche ritenuto che una simile qualificazione giuridica, oltre che con riferimento al mobbing verticale, possa configurarsi anche per il mobbing orizzontale “ipotizzando, ai sensi dell’art. 40 cp, una responsabilità penale in capo ai vertici aziendali, sui quali graverebbe la posizione di garanzia consistente nell’impedire condotte discriminatorie e vessatorie tra lavoratori”.[2]
In altre pronunce, visto il poco spazio applicativo dell’art. 572 cp, la condotta mobbizzante è stata ricondotta nell’alveo della violenza privata ex art. 610 cp. In particolare, si è sostenuto che le ipotesi vessatorie tipiche del mobbing sarebbero sussumibili all’interno dei concetti di violenza e minaccia. Se da un lato è pacifico che le condotte mobbizzanti possono integrare violenze o minacce, è anche vero che ciò non è necessario. In altri termini, sembrerebbe che il disvalore del mobbing non derivi da una o più condotte illecite, ma possa derivare anche da una serie di atti di per sé leciti ma che acquisiscono rilevanza penale solo se inquadrati in un complessivo atteggiamento vessatorio e reiterato, alla stregua dei reati abituali propri. Dunque, il disvalore del mobbing potrà sia derivare da atti violenti e minacciosi ma anche, e soprattutto, da tanti condotte di per sé lecite ma che reiterate e cumulate diventino lesive.
In altre pronunce la condotta mobbizzante è stata ricondotta nell’alveo dell’art. 629 cp. In particolare, la Suprema Corte ha qualificato come estortiva la condotta del datore di lavoro che costringa i lavoratori ad accettare un trattamento economico deteriore e sproporzionato rispetto alle prestazioni effettuate, approfittando di un momento di mercato a lui favorevole e facendo intendere un possibile licenziamento in caso di mancata accettazione della proposta[3]. Quanto affermato per il delitto cui all’art. 610 cp può ripetersi anche con riguardo all’estorsione. Senza dubbio è possibile che un comportamento mobbizzante integri una condotta estortiva, la quale tuttavia necessita anch’essa di violenza. Ragion per cui anche in tal caso è ben possibile punire ex art. 629 cp il mobbing, verticale e orizzontale, a condizione che vi siano tutti i requisiti richiesti dalla norma incriminatrice; con conseguente tutela che appare, anche in tal caso, limitata.
Sempre con riguardo all’ipotesi di mobbing verticale, un intervento del 2007 della Suprema Corte ha inquadrato la condotta nell’alveo del delitto di abuso d’ufficio ex art. 323 cp qualora avvenga nei rapporti con la Pubblica Amministrazione. Il caso riguardava un demansionamento di un dipendente comunale e, alla luce delle circostanze concrete con le quali era stata posta in essere la condotta, la Corte ha ritenuto che “Costituisce abuso d’ufficio la condotta dell’agente che, senza proporsi il raggiungimento di un fine pubblico e in violazione di legge, ponga in essere comportamenti intenzionalmente vessatori in danno del dipendente e “mobbizzanti” che gli procurano un danno ingiusto anche consistente nella violazione dell’interesse al bene della vita.”[4]
Di recente, infine, la Suprema Corte con la sentenza numero 31273 del novembre 2020 ha ritenuto ammissibile ricondurre la condotta di mobbing nell’alveo degli atti persecutori ai sensi dell’art. 612-bis cp. La Corte ha rilevato che ciò è possibile a condizione che la “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice”. In sostanza gli ermellini affermano che anche la condotta mobbizzante possa integrare il c.d. stalking ex art. 612-bis cp ma ciò solo a condizione che sussistano tutti i requisiti richiesti dalla norma[5]. Ciò posto, i comportamenti che solitamente caratterizzano e il mobbing e lo stalking presentano diverse analogie; entrambe le condotte sono caratterizzate dall’abitualità, consistente nella reiterazione di atti vessatori nei confronti della vittima e che sono la causa di sofferenze psichiche. Ad onor del vero, non meno evidenti, sono anche le differenze. Con il mobbing, infatti, il soggetto attivo intende allontanare la vittima dall’ambiente lavorativo, negli atti persecutori, al contrario, l’intento è quello di recuperare una relazione affettiva, ormai terminata, con una persona che non contraccambia la medesima volontà. È evidente la diversità nell’elemento soggettivo: in un caso l’intento è quello di allontanare una persona che intende non perdere il proprio posto di lavoro; nel mobbing l’intento è riconquistare una persona che non vuole più avere a che fare con il suo persecutore. Ciò posto, una sovrapposizione è configurabile nelle ipotesi di stalking occupazionale come confermato dalla recente sentenza menzionata, ma pur sempre a condizione che ricorrano i requisiti dello stalking.
3. Conclusioni
Questa breve analisi del panorama giurisprudenziale evidenzia come gli interpreti abbiano tentato, e tentino tutt’ora, di reprimere un fenomeno diffuso e socialmente preoccupante come il mobbing, provando in via interpretativa ad inquadrare la condotta mobbizzante in una delle fattispecie già esistenti, colmando in vi ermeneutica il vulnus legislativo.
De jure condendo appare auspicabile un intervento del legislatore, che tramite l’introduzione di una norma ad hoc consenta di tutelare in maniera più ampia i soggetti vittime di mobbing. È evidente, infatti, che le soluzioni adottate dalla giurisprudenza non siano idonee a ricomprendere tutte le modalità tramite cui possa concretizzarsi la condotta mobbizzante. Tali di fattispecie, se da un lato potranno ricomprendere al proprio interno comportamenti qualificabili come mobbing, dall’altro ciò sarà possibile solo qualora ricorrano anche gli altri elementi richiesti dalla norma incriminatrice. Tuttavia, tra tutte le ipotesi indicate lo stalking appare il riferimento normativo più congruo a garantire una tutela estesa di tale fenomeno; nello stalking, infatti, possono rientrare sia il mobbing verticale che quello orizzontale; si configura come reato abituale proprio, nel quale non occorre che tutti i singoli atti siano penalmente irrilevanti; richiede la verificazione di eventi che possono essere causati anche dalle tipiche condotte mobbizzanti. Tuttavia, le innegabili differenze tra stalking e mobbing evidenziano la necessità di un intervento del legislatore, anche per evitare le possibili frizioni con il divieto di analogia in malam partem e, più in generale, con principio di legalità anche convenzionale sotto il profilo della prevedibilità.
[1] Cfr. Cassazione penale, sezione VI, sentenza del 16.04.3013 numero 19760, in motivazione: “è vero che l’art. 572 c.p. ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello solo endo-familiare in senso stretto. Ma pur sempre la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti della famiglia ed indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli sicchè non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Da qui la ragione dell’indicazione del requisito, del presupposto, della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sotto posizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro per ciò solo dovrebbe configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p. di condotte che, di eguale contenuto ma poste in essere in contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile (il ed mobbing in contesto lavorativo, cui fa riferimento tra le altre la sentenza Sez. 6, 685/2011), con evidente irragionevolezza del sistema“.
[2] Maurizio Santise, coordinate ermeneutiche di diritto penale, G.Giappichelli Editore, quarta edizione 2018, pag. 624.
[3] Cassazione penale, sezione II, sentenza del 21.09.2007 numero 36642, in motivazione: “Un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell’accettazione da parte di quest’ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sé, la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui e apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perché è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibìlità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per la specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera. Spetta al giudice di merito valutare se la condotta dell’imputato sia stata posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, attraverso un comportamento che, al di là dell’aspetto formale dell’accordo contrattuale, ponga concretamente la vittima in uno stato di soggezione, ravvisabile nell’alternativa di accedere all’ingiusta richiesta dell’agente o di subire un più grave pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato, quale l’assenza di altre possibilità occupazionali.
[4] Cassazione penale, sezione IV, sentenza del 17.10.2007 numero 40891, in motivazione: “i giudici del merito, che hanno ritenuto indubbia la ricorrenza dell’intenzionalità dell’abuso in danno, sia per quanto dianzi rilevato, sia perchè la reiterata condotta del Sindaco C. a destinare persistentemente la CO., piuttosto che altri dipendenti comunali, a svolgere le mansioni di ausiliario del traffico, appaiono costituire il suggello di tutta una serie di elementi caratterizzanti quel fenomeno sociale noto come mobbing, consistente in atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico che mira a danneggiare il dipendente, così da coartarne o da piegarne la volontà: comportamenti tesi, nella fattispecie, a dequalificare professionalmente la parte lesa, tali da concretare oltre che il reato di abuso d’ufficio in danno di costei, da integrare, altresì, l’illecito di cui all’art. 2043 c.c., essendo derivata, quale ulteriore conseguenza di detti comportamenti “mobbizzanti” del C., una seria patologia neuro-psichiatrica a carico della CO.: attività amministrativa illegittima, dunque, da cui è derivata, in una con la lesione dell’interesse legittimo in sè considerato, quella dell’interesse al bene della vita, che risulta meritevole di protezione, con conseguente risarcibilità del danno causato”
[5] Cassazione penale, sezione V, sentenza del 14.09.2020 numero 31273, in motivazione: “Integra il delitto di atti persecutori la condotta di “mobbing” del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilita` verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro, tali da determinare un “vulnus” alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis c.p. (Fattispecie in cui il lavoratore era stato esposto a plurimi atti vessatori, quali il fisico impedimento a lasciare la sede di lavoro e l’abuso del potere disciplinare, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, tale da far insorgere nello stesso uno stato di ansia e di paura ed indurlo a modificare le proprie abitudini di vita).”
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.