Le forme di partecipazione nel reato di violenza sessuale di gruppo
SOMMARIO: 1. Il concorso di persone nel reato: distinzione di ruoli. 2. La violenza sessuale di gruppo. 3. La configurabilità della violenza sessuale di gruppo online. 4. Conclusioni.
1. Il concorso di persone nel reato: distinzione di ruoli
Il termine “plurisoggettività”, in diritto penale, è usato per indicare la partecipazione di più soggetti nella commissione di un reato.
Già solo sfogliando il codice penale si può comprendere, però, che tale nozione va declinata diversamente a seconda della singola norma incriminatrice; ben può accadere, infatti, che proprio quest’ultima richieda la necessaria pluralità di agenti ai fini della realizzazione del fatto tipico. In questo caso, il reato è necessariamente plurisoggettivo.
Diverso, invece, è il caso in cui un reato a struttura monosoggettiva venga posto in essere da più persone: tale è il fenomeno del concorso (eventuale) di persone nel reato, la cui punibilità è assicurata dal combinato disposto dell’art. 110 c.p. con la singola norma di parte speciale.
Un espediente normativo, dunque, attraverso cui il legislatore attribuisce rilevanza penale a condotte di per sé atipiche e non penalmente rilevanti.
Pertanto rileveranno anche comportamenti che, pur non essendo previsti dal legislatore, possano agevolare e rendere più spedita la commissione del reato.
La ratio che vi è dietro l’art. 110 c.p., a ben vedere, non è estranea al nostro sistema penale.
La punibilità del concorso di persone nel reato è prevista essenzialmente per ragioni di offensività, nella misura in cui è doveroso punire la condotta dei concorrenti/partecipi il cui contributo, benché accessorio, possa essere ugualmente offensivo.
Stessa ratio si coglie anche nel delitto tentato. L’art. 56 c.p. ha infatti l’obiettivo di punire condotte che, sebbene improduttive dell’evento avuto di mira dall’agente e quindi atipiche poiché non contemplate da norme incriminatrici, siano indici di offensività.
L’affinità tra le due norme è stata evidenziata anche dalla giurisprudenza di legittimità: la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha precisato che “le circostanze, da considerarsi quali “satelliti del reato”, vivono di un meccanismo estensivo simile a quello di cui agli artt. 56 e 110 c.p.”[1].
Da ultimo, merita un cenno l’art. 40, co. 2 c.p. norma che estende la punibilità all’omissione, quest’ultima considerata, attraverso una clausola di equivalenza, come se fosse un reato commissivo.
In definitiva, la reductio ad unitatem delle disposizioni ora viste è consentita, malgrado i diversi ambiti di operatività, in quanto esse sono tutte espressione sintomatica del principio di offensività.
Gli elementi, richiesti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, per la sussistenza del concorso di persone nel reato sono quattro: la pluralità di agenti (almeno due); la realizzazione dell’elemento oggettivo di un reato da parte di almeno uno dei concorrenti; il contributo causale di tutti i concorrenti ed infine la volontà di ciascuno di contribuire alla realizzazione del fatto, ovvero il c.d. “dolo di concorso”.
Ma lo storico problema che si pone con riguardo al concorso di persone nel reato attiene alla distinzione dei ruoli dei singoli compartecipi.
Già in epoca romana si profilò una prima differenza tra princeps o architectus, inteso quale ideatore del programma criminoso, ed auctor, ossia l’istigatore, essendo invece i participes confinati in ruoli residuali.
Il Codice Zanardelli del 1889 mostrò una certa sensibilità nei confronti del c.d. “modello differenziato”, non recepito, viceversa, dal Codice Rocco del 1930 che ha accolto il “modello unitario”, implicitamente ponendo sullo stesso piano le condotte intraprese dai concorrenti.
Tuttavia tale ultima affermazione non può considerarsi del tutto esatta, se si considera che lo stesso legislatore ha inteso graduare i trattamenti sanzionatori a seconda del contributo, magari di minima importanza (art. 114 c.p.), offerto dal singolo partecipe.
E proprio in ordine al tipo di contributo, intramontabile è la distinzione che si è soliti fare tra contributo materiale e morale.
Il primo altro non è che un apporto tangibile, e quindi più intenso, che può inserirsi in qualsiasi fase dell’iter criminis.
Al riguardo non può sottacersi che mentre l’autore del reato non ha destato problemi interpretativi, dubbi sono sorti invece in ordine all’efficacia causale del contributo del “complice”; dubbi tuttavia risolti dalla dottrina che abbraccia la “teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo”, con ciò volendo porre l’accento non soltanto sulle condotte senza le quali il reato non avrebbe potuto realizzarsi, ma anche sugli apporti poco utili da un punto di vista pratico, ma allo stesso tempo indici della condivisione dell’obiettivo delittuoso.
Il concorso morale, all’opposto, è forse la forma di partecipazione di più difficile prova per l’interprete.
Diversamente da altri Paesi, il codice penale italiano descrive un’unica figura di concorso morale: l’istigatore.
Anche se, infatti, il ruolo di “determinatore” – cioè di colui che genera in altro soggetto un proposito criminoso prima assente – può evincersi dalle condotte effigiate agli artt. 111-112, co. 1 nn. 3-4, l’istigazione è l’unica condotta descritta e, a determinate condizioni, punita.
La regola generale, prevista dall’art. 115 c.p., è quella della non punibilità del mero accordo o comunque dell’istigazione qualora non segua la commissione del reato (potrà applicarsi, se del caso, una misura di sicurezza); viceversa, laddove l’istigazione sia accolta si applicheranno le disposizioni di cui al capo III “del concorso di persone nel reato”. Tale disciplina, a ben vedere, è espressione del principio di materialità, per cui non può esservi reato se la volontà non si materializza in un comportamento esterno.
Deve considerarsi quindi eccezionale la disposizione di cui all’art. 414 c.p., che punisce, per il solo fatto dell’istigazione, chiunque pubblicamente istiga a commettere più reati.
La norma, posta a tutela del fondamentale bene giuridico dell’ordine pubblico, descrive una vera e propria fattispecie di pericolo; a questa si accompagnano poi le altre disposizioni in cui il legislatore si è preoccupato di punire il mero fatto dell’istigazione alla commissione di specifici delitti, particolarmente riprovati dall’ordinamento.
Quale forma di concorso morale, l’istigazione può rilevare ed estrinsecarsi nelle forme più disparate, potendo la stessa talvolta assumere anche i connotati di un dissenso espresso.
Proprio per tali ragioni, non del tutto limpida è la linea di demarcazione con la c.d. “connivenza”, non punibile.
La giurisprudenza pressoché unanime definisce con tale espressione il comportamento meramente passivo del soggetto presente sul luogo in cui si sta consumando il reato.
Si avrà quindi connivenza, e non concorso nel reato, tutte le volte in cui la mera presenza non è in grado di rafforzare il proposito criminoso, neanche attraverso un implicito compiacimento circa l’azione intrapresa; pertanto il soggetto così descritto andrà esente da pena.
Quanto fin ora esposto dà tutto il senso del disagio che incontra l’interprete nell’individuazione dei confini, spesso labili, tra le varie forme di partecipazione nel reato; disagio che si protrae fino al momento della determinazione del trattamento sanzionatorio.
Peraltro, l’indagine relativa ai vari apporti partecipativi tende a complicarsi, e non di poco, quando ci si sposta nello scivoloso terreno dei reati necessariamente plurisoggettivi, ponendosi la questione se sia ammissibile un concorso (eventuale) in tali reati.
2. La violenza sessuale di gruppo
La questione ha interessato, di recente, la violenza sessuale di gruppo, prevista dall’art. 609-octies c.p., fattispecie introdotta dalla l. 15 febbraio 1996, n. 66.
La riforma del 1996, recante disposizioni in materia di reati a sfondo sessuale, ha richiamato da subito l’attenzione degli operatori del diritto.
Il punto centrale della riforma, infatti, è costituito dal mutamento dell’oggettività giuridica dei reati in esame, relegati originariamente dal Codice Rocco nella categoria dei reati contro la moralità pubblica ed il buon costume.
Queste fattispecie hanno assunto oggi la dignità di reati contro la persona, in conseguenza dell’acquisita consapevolezza che la libertà sessuale costituisce un insopprimibile corollario della libertà individuale.
Insomma l’intera materia ha acquistato una diversa vis ac potestas.
D’altronde, la persona è diritto sussistente, è essa stessa diritto, per cui il nuovo vigore di tutela appare non solo consono ai beni giuridici tutelati, bensì doveroso.
Da subito si è compreso il motivo per il quale il legislatore del ’96 ha introdotto il reato di violenza sessuale di gruppo, in cui “il gruppo”, appunto, costituisce un quid pluris rispetto alla violenza sessuale ex art. 609-bis c.p.
La ragione è da ravvisarsi nella maggiore gravità dell’offesa arrecata da “più persone” alla vittima di un reato così ripugnante, concentrandosi su quest’ultima condotte fisiche, di scherno e compiacimento, tutte punite.
Singolare è la tecnica di normazione adottata dal legislatore nella redazione della disposizione in esame, caratterizzata da un incipit definitorio.
“La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p.”.
Il secondo comma della norma disciplina invece il trattamento sanzionatorio: “chiunque commette atti di violenza sessuale di gruppo è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.
La Suprema Corte[2] non ha mancato di soffermarsi sul concetto di “partecipazione”, ed ha affermato che non è necessario il compimento dell’atto tipico di violenza sessuale da parte di ciascun compartecipe, essendo sufficiente un “contributo causale”, ossia la semplice presenza sul luogo e nel momento in cui viene perpetrata la violenza; presenza intesa come rafforzamento del proposito criminoso dell’esecutore materiale, e ben potendo la stessa sostanziarsi in un comportamento passivo.
La deriva di quest’impostazione rende difficili i confini con la già citata “connivenza”.
Non si spiega il motivo per cui la condotta del soggetto che si concretizzi in una mera presenza passiva sul luogo e nel momento della commissione di un reato realizzato in concorso eventuale va esente da pena, diventando viceversa la stessa un tassello che perfettamente si incastra nella fattispecie plurisoggettiva necessaria de qua.
Il discrimen del penalmente rilevante va certamente ravvisato in concreto, potendo in questa sede ribadirsi che per connivenza deve intendersi un comportamento, anche implicito, di totale estraneità, disapprovazione, nel senso che gli altri soggetti agenti non possano ritenere di fare affidamento su quella persona.
Circa il requisito delle “più persone riunite” a fronte di quanti richiedono il numero minimo di tre persone, opinione diffusa è che ne bastino due[3].
A questo punto della disamina delle varie forme di partecipazione, è opportuno risolvere il quesito relativo alla possibile configurazione del concorso eventuale nel reato di cui all’art. 609-octies c.p., distinguendolo dal concorso nel reato di cui all’art. 609-bis c.p.
Circa tale ultimo profilo è opinione pressoché unanime che la violenza sessuale ex art. 609-bis c.p. potrà essere realizzata in concorso di persone, nella misura in cui tale apporto non si traduca in una presenza sul luogo e nel momento della consumazione della violenza, situazione, questa, integrante la fattispecie più grave della violenza sessuale di gruppo ex art. 609-octies c.p.
In merito alla configurabilità del concorso nel reato di violenza sessuale di gruppo, la soluzione, ancora una volta, è stata offerta dalla giurisprudenza di legittimità che si è espressa in modo favorevole. Risponderà, così, in concorso il soggetto che prima dell’azione predatoria si sia accordato con i compartecipi, fornendo loro assistenza nel propiziare la consumazione del reato.
Di qui è di facile intuizione che anche la mera istigazione (nelle forme di un consiglio, di agevolazione o comunque di aiuto alle due o più persone) integra l’ipotesi del concorso di persone nel reato di violenza sessuale di gruppo.
Dunque, il concorso potrà sostanziarsi in un qualsiasi comportamento, purché non si traduca nella mera presenza sul luogo e nel momento della consumazione della violenza, che integra il reato più grave di violenza sessuale di gruppo.
Del resto la stessa presenza costituisce un apporto causale efficiente (si pensi al timore della vittima di reagire, poiché timorosa di subire violenze anche dall’ulteriore soggetto che vede presente sul luogo) e, salvo difficile prova contraria, anche un apporto volontaristico ai fini della commissione del delitto.
Sarà sufficiente, perciò, la consapevole adesione, anche estemporanea, all’altrui proposito criminoso[4].
Sotto il profilo sanzionatorio è opportuno segnalare che il legislatore introduce un complesso di circostanze attenuanti e aggravanti modellate sulla falsariga di quelle previste per il concorso di persone nel reato.
Si pensi all’attenuante, qui però obbligatoria, del “contributo di minima importanza” ex art. 609-octies, co. 4 c.p., sulla falsariga dell’art. 114 c.p.[5]
Ancora, vi è esplicito richiamo agli artt. 112, co. 1 nn. 3-4 e 112, co. 3, con l’intento di diminuire la pena da irrogare a coloro che siano stati indotti o determinati da altri a commettere il delitto.
Circa l’applicazione delle circostanze aggravanti, il comma 3 dispone l’aumento di pena se concorra taluna delle circostanze previste dall’art. 609-ter c.p.
3. La configurabilità della violenza sessuale di gruppo online
Nell’ultimo decennio la tecnologia ha imperversato anche nel mondo del diritto penale. Numerosi, infatti, sono i reati realizzabili attraverso l’utilizzo del web, specie in danno delle c.d. “fasce deboli”.
Ci si chiede, a questo punto, se sia configurabile la violenza sessuale di gruppo via internet.
La risposta dipende dall’approccio che si vuole condividere e, in particolare, dell’interpretazione che si fornisca all’espressione delle “più persone riunite” di cui all’art. 609-octies c.p.
Il quesito non potrà avere certamente risposta positiva, laddove si ritenga necessaria la presenza fisica sul luogo della violenza. Diversamente ragionando, secondo questa opinione, si darebbe luogo ad una inammissibile interpretazione analogica della norma in parola.
Per altri, invece, non vi sono ragioni ostative per escludere la configurabilità del 609-octies c.p. con riguardo ai delitti “on line”, stante l’elasticità dell’espressione utilizzata dal legislatore.
I sostenitori di questa tesi, in particolare, sottolineano la tendenza ad ammettere il reato di prostituzione on line; di qui, il passo è breve per ammettere anche la violenza di gruppo realizzata a mezzo internet.
La vittima, del resto, in presenza di una webcam, percepisce in modo particolarmente forte la “motivazione” del suo aggressore il quale, verosimilmente, trae compiacimento dal ruolo di “protagonista” attribuitogli dagli spettatori della macabra scena. Pertanto, secondo quest’orientamento, i soggetti che dalla propria postazione telematica prenderanno visione di una violenza siffatta, con trasmissione estemporanea delle immagini, potranno considerarsi “presenti sul luogo del delitto”, quindi punibili ex art. 609-octies c.p.
Una chiave di lettura è ricavabile dalle argomentazioni svolte dalla Suprema Corte[6] in ordine al reato di estorsione aggravata, la quale ha statuito che la presenza delle più persone sul luogo e nel momento della consumazione del delitto, deve essere non solo percepita, ma reale.
In altri termini, anche se la persona offesa percepisce la presenza di due o più persone, ai fini della configurazione dell’aggravante di cui all’art. 629, co. 2 c.p. (e quindi anche ai fini dell’integrazione del reato ex 609-octies c.p.) è necessario che la presenza delle due o più persone sia effettiva e provata.
Rapportando queste conclusioni alla violenza sessuale di gruppo, deriva che colui il quale “partecipa” via internet alla violenza sessuale compiuta dinanzi alla webcam da altro soggetto che agisce da solo, prendendone visione nel momento in cui la stessa viene perpetrata, potrà essere chiamato a rispondere di concorso nel reato di violenza sessuale (609-bis c.p.) e non del delitto di cui all’art. 609- octies c.p., sempre che l’atto del guardare sia stato oggetto di preventivo accordo tra il concorrente e l’autore dell’abuso ovvero venga palesato all’esecutore materiale della violenza sessuale, contribuendo a sollecitare o rafforzare il proposito criminoso di quest’ultimo, manifestando, in questo modo, inoltre, la piena condivisione, da parte del voyeur, dell’azione criminosa[7].
Sulla scorta di tali coordinate ermeneutiche, pertanto, sebbene il voyeur non possa essere considerato quale coautore del reato necessariamente plurisoggettivo di cui all’art. 609-octies c.p. poiché assente sul luogo del delitto, non si può negare la configurabilità del concorso eventuale nel reato di violenza sessuale di gruppo, laddove tale soggetto, alle condizioni ora viste, assista alla violenza perpetrata dalle due o più persone che siano presenti fisicamente ed agiscano in sincronia.
4. Conclusioni
Il reato di violenza sessuale di gruppo, come più volte illustrato, è stato pensato dal legislatore per punire con un intenso rigore sanzionatorio, condotte maggiormente offensive, cariche di una lesività ancora più accentuata nei confronti della vittima.
L’offensività, dunque, è la ratio che v’è dietro tale previsione: va a rendere tipici comportamenti di per sé atipici, ma che siano il risultato di un agire consapevole e tale da rafforzare il proposito criminoso del soggetto che pone in essere gli atti esecutivi.
Se da un lato il concetto di “atti sessuali” è stato oggetto di numerosi dibattiti per i molteplici approcci cui il giudice può giungere, poiché talvolta condizionato dal personale sentire dell’offeso, dall’altro deve riconoscersi che proprio la generica dizione riportata all’art. 609-bis c.p. consente di punire condotte comunque lesive della libertà sessuale, e quindi della libertà personale.
Ecco che, come spesso accade nel diritto penale, si è ancora una volta in presenza di una tensione tra opposti principi: quello di tassatività, determinatezza e precisione, e quello di offensività.
Per tali ragioni il compito del giudice sarà tutt’altro che semplice. Egli dovrà valutare i fatti, sussumerli in una norma e, ravvisata una responsabilità, graduare la pena. Un accertamento, questo, spesso operato in condizioni di incertezza, atteso che gli elementi a carico e a discarico non sono di agevole valutazione ed essendo, inoltre, non sempre facile distinguere i ruoli.
La querelle interpretativa, in definitiva, non può che risolversi in concreto.
Nello specifico dovrà verificarsi se la mera presenza sul luogo e nel momento del delitto possa ascriversi alla categoria della “connivenza” non punibile, oppure se dalle circostanze del caso emerga una volontà ed un efficace apporto causale all’azione riprovevole.
[1] Cass. Sez. Un., 28 giugno 2013, n. 28243.
[2] Cass. pen., Sez. III, 13 gennaio 2015, n. 948.
[3] Con riguardo a tale locuzione, piuttosto, è d’obbligo un confronto con la fattispecie descritta all’art. 629, co. 1 c.p. (invero anche con quella di cui all’art. 628, co. 3 c.p.).
Condividendo la stessa ratio legis della violenza sessuale di gruppo, nel senso della “simultanea presenza di più persone riunite”, la norma di cui all’art. 629, co.1, c.p., punisce l’estorsione aggravata, considerata dalla Suprema Corte (Cass., Sez. Un., 5 giugno 2012, n. 21837) una fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue dal concorso di persone nel reato per il fatto che la riunione attiene alle sole modalità commissive della violenza o minaccia, e dunque alla sola fase dell’esecuzione del reato.
[4] Cfr. sul punto Cass. pen., Sez. III, 20 aprile 2012, n. 15211; Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2015, n. 23272.
[5] Tale circostanza attenuante conferma l’assunto secondo cui non è necessario che ciascun partecipe anch’esso compia l’atto sessuale, ipotesi che escluderebbe senz’altro l’applicabilità dell’attenuante in questione.
[6] Cass., Sez. Un., 5 giugno 2012, cit.
[7] In questi termini si è espressa Cass. pen., Sez. III, 28 settembre 2011, n. 35150.
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