Le garanzie difensive: il divieto di intercettazione ex art. 103, co. 5, c.p.p.

Le garanzie difensive: il divieto di intercettazione ex art. 103, co. 5, c.p.p.

Sommario: 1. La ratio della disciplina e i fondamenti normativi – 2. Il profilo soggettivo e oggettivo del divieto di intercettazione – 3. L’inutilizzabilità delle intercettazioni captate

 

1. La ratio della disciplina e i fondamenti normativi

La garanzia di riservatezza dei colloqui tra il difensore e il proprio assistito trova copertura normativa sia sovranazionale, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[1], che interna nell’art. 24 della Costituzione e nell’art. 103 comma 5 del codice di procedura penale, quest’ultimo funzionale a rendere effettivo il diritto di difesa.[2] Più precisamente << le garanzie, le prerogative ed i divieti sanciti dalla norma in oggetto sono, in altri termini, strumentali a tutelare l’attività difensiva dalle ingerenze dei poteri investigativi, coercitivi e probatori dell’autorità giudiziaria, che possano ostacolare, snaturare o rendere impossibile l’effettivo esercizio della difesa stessa>>.[3]

Il quinto comma dell’art. 103 c.p.p. così recita: <<non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari né quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite>>. La disamina di questo articolo mette in evidenza che l’inviolabilità del colloquio tra difensore e assistito, presupponendo uno scambio di informazioni tra i due soggetti processuali, rappresenta un mezzo essenziale ai fini dell’attività difensiva che deve essere sottratta necessariamente a qualsivoglia controllo esterno: si circoscrive, in tal modo, uno spazio dove il difensore possa liberamente organizzare la propria strategia difensiva senza il timore di dover incorrere in interferenze da parte dell’autorità inquirente.[4] Difatti, se questa libertà non venisse garantita << il “rapporto difensivo” risulterebbe seriamente compromesso ai danni dell’assistito; ma anche il contraddittorio perderebbe un momento informativo funzionale alla sua preparazione>>.[5] Più precisamente, per svolgere la propria funzione il difensore <<non deve avere neanche il remoto timore che le parole dette al proprio assistito (idee, ipotesi, strategie, paradossi, e, persino, innocenti millanterie auto celebrative dirette a rassicurare l’assistito), possano essere ascoltate dagli organi inquirenti>>.[6] Qualora così non fosse il difensore risulterebbe non più in grado di svolgere in modo libero e sereno il proprio mandato professionale divenendo uno strumento nelle mani dell’organo inquirente[7] che riuscirebbe, in tal modo, ad acquisire << strategie, notizie o confidenze (…) segrete, riguardanti sia l’ambito del procedimento in cui vengono eseguite tali intercettazioni che qualsiasi altra vicenda in cui lo stesso difensore esercita il patrocinio a favore dello stesso cliente>>.[8]

2. Il profilo soggettivo e oggettivo del divieto di intercettazione

La Cassazione[9], tentando di sopperire alla lacuna normativa dell’art. 266 c.p.p., ha definito l’intercettazione come << la captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscono con l’intenzione di escludere gli altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da un soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato>>[10]. A ben vedere, però, l’inconveniente di tale definizione risiede nel non aver ricompreso << “sotto la disciplina processuale delle intercettazioni la captazione clandestina di comunicazioni segrete attuata per mezzo delle comuni facoltà sensoriali umane” e quindi di >>[11] aver reso << configurabili “interferenze nella segretezza delle comunicazioni non disciplinate dalla legge e suscettibili di fornire risultati utilizzabili nel processo”, come, ad esempio, nell’ipotesi di un ufficiale della polizia giudiziaria o di un investigatore privato i quali, origliando dietro una porta o occultando in altro modo la propria presenza agli interlocutori>>[12] riuscissero <<a percepire con i propri sensi un dialogo riservato>>.[13]

Uno degli aspetti più dibattuti in materia di intercettazione risulta essere l’ambito di applicazione soggettivo ed oggettivo di siffatta disciplina. Quanto al primo profilo, i soggetti nei cui confronti è posto il divieto sono: il difensore, il consulente tecnico, l’investigatore, i loro ausiliari e le “persone da loro assistite”, sia che essi comunichino tra loro sia che lo facciano con i propri clienti. Inoltre, << non è possibile escludere, considerata la particolare “apertura” del dato letterale (art. 103 comma 5 c.p.p.), che la garanzia>>[14] cinga << pure le comunicazioni o le conversazioni intessute dai predetti soggetti con i “terzi”, rispetto ai quali, dunque, non sussiste alcun mandato professionale; si pensi, del resto, alla necessità di prendere contatti con una persona informata dei fatti ai fini di un colloquio investigativo (art. 391-bis comma 1 c.p.p.) ; permettendo di intercettare, si impedirebbe infatti al difensore di organizzare la difesa in vista del procedimento, e persino alla possibilità di effettuare interamente detto colloquio tramite strumenti di trasmissione a distanza>>.[15]

Quanto al temine “difensore”, una copiosa elaborazione giurisprudenziale, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 1994,[16] ne ha conferito ampia interpretazione stabilendo che <<il divieto di intercettazione di comunicazioni e conversazioni nei confronti dei difensori sancito dall’art. 103 comma 5, c.p.p., riguarda l’attività captativa in danno del difensore nell’esercizio delle funzioni inerenti il suo ufficio, quale che sia il procedimento cui si riferisca, e non si estende ad ogni altra conversazione, non inerente, che si svolga nel suo studio o domicilio>>.

Con riguardo al secondo profilo, invece, il problema risiede nell’individuare se il divieto interessi tutta l’attività professionale del difensore oppure debba essere circoscritta soltanto ad uno specifico procedimento. La giurisprudenza di legittimità[17], a tal proposito, ha chiarito che <<il divieto di intercettazioni relativo a conversazioni o comunicazioni dei difensori non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, in quanto la “ratio” della regola posta dall’art. 103 c.p.p., va rinvenuta nella tutela del diritto di difesa>>. Pertanto, lo svolgimento della funzione difensiva <<non deve risultare necessariamente da uno specifico e formale mandato, conferito secondo le modalità previste dall’art. 96 c.p.p., potendo desumersi l’esistenza di un mandato fiduciario anche dalla natura stessa dell’incarico, circostanza che può essere confermata dallo stesso contenuto delle captazioni, oltre che dalla documentazione prodotta dall’interessato>>.[18] Inoltre, continua ancora la Cassazione,[19] <<non ogni colloquio tra cliente e difensore, può essere qualificato come rientrante nell’ambito del mandato difensivo, ma solo quello che, in considerazione del contenuto della conversazione, possa far ritenere che l’avvocato, in quell’occasione, abbia svolto il suo tipico ruolo di difensore, ruolo che si esplica (…) in consigli, strategie difensive, richieste di chiarimenti>>.

3. L’inutilizzabilità delle intercettazioni captate

Il divieto di intercettazione delle conversazioni tra l’indagato e il proprio difensore, espresso con linguaggio non equivoco, sembra ulteriormente precisato dall’inutilizzabilità ex post nel caso di attività captativa illegittima. Tale divieto non riguarda solamente le intercettazioni c.d. dirette ma anche quelle casuali: visto che quello che rileva è la natura del colloquio vi è inutilizzabilità anche quando l’indagato non abbia comunicato all’autorità la nomina del difensore. La Cassazione[20] ha ritenuto che <<il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni, stabilito dall’art. 271, comma 2 c.p.p., è posto, tra gli altri, soprattutto a tutela dell’avvocato (come degli altri soggetti indicati nell’art. 200, comma 1 c.p.p.) e dell’esercizio della sua funzione (…) >>[21] sebbene non ancora <<formalizzata in un mandato professionale, purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un avvocato venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi ad un soggetto del quale non sia difensore>>[22]. Più precisamente, << il divieto opera quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate siano pertinenti all’attività professionale svolta dai soggetti indicati nell’art. 200 c.p.p. e>>[23] riguardino << di conseguenza, fatti conosciuti in ragione della professione da questi esercitata, a nulla rilevando il fatto che si tratti di intercettazione indiretta>>[24]. Nel fissare l’inutilizzabilità dei risultati ottenuti, l’incipit dell’art. 103 comma 7 c.p.p. fa <<salvo quanto previsto dall’art. 271 >>, il che porta a interrogarsi sul suddetto richiamo. Tale articolo, al comma 2 stabilisce che <<non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni delle persone di cui all’art. 200 comma 1>> quando <<hanno ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione>> occorrendo però che questi << non abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati>>. L’area di operatività soggettiva dell’art. 271 comma 2 c.p.p. non si riferisce soltanto agli avvocati, ai consulenti e agli investigatori, ma anche agli esercenti le altre professioni indicate dall’art. 200 comma 1 c.p.p. <<cosicché, è del tutto ovvio che il limite all’impiego dei risultati intercettivi sottende un ambito di individui molto più vasto di quanto traspare dalla disciplina presa a confronto>>.[25]

La giurisprudenza esclude la sanzione dell’inutilizzabilità quando la conversazione non è pertinente all’attività professionale svolta[26] e quando integra essa stessa un’ipotesi di reato[27]. Diverso è il discorso qualora il difensore risultasse già iscritto nel registro degli indagati prima dell’inizio delle operazioni di captazione dei dialoghi con il proprio assistito: si pensi, a titolo di esempio, al caso in cui il difensore fosse indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e venisse sottoposto ad intercettazione. Ebbene, in tali ipotesi la Suprema Corte[28] esclude del tutto la possibilità di applicazione dell’art. 103 comma 5 c.p.p., ritenendo che <<le speciali garanzie di libertà del difensore non possono valere ad inibire attività captative nei suoi confronti ove egli stesso sia indagato e, comunque, non possono sottrarre all’ascolto legittimo (…) anche se quel connotato di legittimità sia riconoscibile solo a posteriori e non ex ante nelle conversazioni che non attengano alla funzione difensiva>>. Da ultimo, nell’ipotesi in cui sussista un rapporto di amicizia e familiarità tra difensore e cliente, il giudice dovrà valutare non solo se quanto detto dal legale rientri nell’ambito del mandato difensivo, ma anche se le informazioni riferite dall’indagato siano state finalizzate a ottenere consigli difensivi oppure trattasi semplicemente di una confidenza che avrebbe potuto essere fatta a chiunque altro nell’ambito di un rapporto d’amicizia.[29]

 

 

 


[1] Cfr. CEDU, Sez. II, Zagaria c. Italia, 27 novembre 2007, ricorso n. 58295/2000, in https://www.giustizia.it, in cui si afferma che il diritto alla riservatezza dei colloqui tra indagato e difensore rientra tra le <<esigenze elementari del processo equo in una società democratica e deriva dalla art 6 par 3 della Convenzione>>. La Corte Di Strasburgo, sulla base di quanto offerto dalla Corte Cost., 20 giugno 2013, n. 143, in https://www.cortecostituzionale.it, annovera <<il diritto dell’accusato a comunicare in modo riservato con il proprio difensore (…) tra i requisiti basilari del processo equo in una società democratica, alla luce del disposto dell’art. 6, paragrafo 3, lettera c) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali>>. Sul punto anche il Parlamento Europeo e il Consiglio hanno emanato a tal riguardo la direttiva n. 2013/48/UE nella quale prevede che << Indagati e imputati dovrebbero avere il diritto di incontrare in privato il difensore che li assiste. Gli Stati membri possono stabilire disposizioni pratiche riguardanti la durata e la frequenza di tali incontri, tenendo conto delle circostanze del procedimento, in particolare della complessità del caso e degli adempimenti procedurali applicabili (…) >> Inoltre, l’art. 4, rubricato “Riservatezza” recita che <<Gli Stati membri rispettano la riservatezza delle comunicazioni fra indagati o imputati e il loro difensore nell’esercizio del loro diritto di avvalersi di un difensore previsto dalla presente direttiva. Tale comunicazione comprende gli incontri, la corrispondenza, le conversazioni telefoniche e le altre forme di comunicazione consentite ai sensi del diritto nazionale>>.
[2] Alcune proposte di riforma, in https://camerapenaledinapoli.it.
[3] Alcune proposte di riforma, cit.
[4] In questo senso F. SIRACUSANO, Intercettazione di colloqui fra difensore e assistito. Soluzioni” poco convincenti” che pongono in pericolo lo “spazio protetto” per l’esercizio dell’attività difensiva, in  Arch. pen., 2012, n. 3, p. 9.
[5] Sul punto F. M. GRIFANTINI, Il segreto difensivo nel processo penale, Giappichelli, Torino, 2001, p. 223.
[6] Alcune proposte di riforma, cit.
[7] In tal senso F. SIRACUSANO, Intercettazione di colloqui fra difensore e assistito, cit., p. 9.
[8] Così, Cass., Sez. VI, 11 aprile 2001, in Cass. Pen., 2001, p. 3456.
[9] Così, Cass., Sez. VI, 29 marzo 2005, n. 12189, in https://www.overlex.com.
[10] Si veda in dottrina A. SCALFATI, Ricerca della prova e immunità difensive, cit., p. 273, secondo il quale, <<per intercettazione si intende ogni tipo di trasmissione del pensiero>> , che prescinde << dal mezzo tecnico impiegato (es. strumenti informatici oppure a onde-radio), dal fatto che la comunicazione avvenga da vicino o da lontano>>.
[11] Testualmente A. DIDDI, Testimonianza e segreti professionali,  Cedam, Padova, 2013, p. 164.
[12] L’espressione è di A. DIDDI, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 164.
[13] In questo senso A. DIDDI, Testimonianza e segreti professionali,  cit., p. 164.
[14] Così A. SCALFATI, Ricerca della prova e immunità difensive, cit., p. 271.
[15] Sul punto A. SCALFATI, Ricerca della prova e immunità difensive, cit., p. 271.
[16] Così, Cass., Sez. IV, 29 dicembre 2016, n. 55253, in www.brocardi.it
[17] Così, Cass., Sez. Un., 12 novembre 1993, n. 25.
[18]Così,  Cass., Sez. VI, 7 marzo 2003, n. 10664, in Codice di procedura penale commentato,di P. CORSO, La Tribuna, Piacenza, 2019.
[19]Così, Cass., Sez. II, 18 giugno 2014, n. 26323, in www.sentenze-cassazione.com
[20]Così, Cass., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979, in Cass. Pen., 2014, p. 604.
[21] Così,  Cass., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979 , cit.
[22] Così,  Cass., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979 , cit.
[23] Così,  Cass., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979 , cit.
[24]Così,  Cass., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979 , cit.
[25] In questo senso A. SCALFATI, Ricerca della prova e immunità difensive, cit., p. 288.
[26] Così, Cass., Sez. VI,18 gennaio 2008, n. 2951, riv. 238441.
[27] Così, Cass., Sez. VI, 17 settembre 2003, n. 35656, riv. 226659.
[28] Così, Cass., Sez. V, 5 maggio 2003, n. 20072.
[29] Così, Cass., Sez. II, 18 giugno 2014, n. 26323.

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