Le neuroscienze: tra scetticismo ed entusiasmo
Sommario: 1. Neuroscienze e diritto penale: un’introduzione – 2. Problemi e punti fermi – 3. Geni cattivi ed equilibri complicati
1. Neuroscienze e diritto penale: un’introduzione
L’evoluzione della ricerca scientifica ha condotto alla progressiva affermazione delle c.d. neuroscienze, gruppo eterogeneo di discipline scientifiche che – attraverso lo studio delle singole cellule nervose – puntano ad esplicare come le connessioni neuronali siano correlate alla realizzazione dei comportamenti umani [1].
Eleggendo il cervello come oggetto di studio e individuando nello stesso la sede di ogni attività̀ umana – non solo motoria, ma includendo anche gli aspetti volitivi perfino a livello emozionale -, le neuroscienze hanno delineato il punto di incontro tra il corpo e la psiche, tra vuota corporeità ed evanescenza interiore priva di riscontro organico.
Ciononostante, tale progresso ha determinato non poche problematiche, in particolare con riferimento ad un suo possibile impiego nel processo penale.
Come noto, affinché risulti legittimo il ricorso alla sanzione penale, non è sufficiente che sia commesso un fatto antigiuridico, ma è altresì necessario che la realizzazione dello stesso sia personalmente rimproverabile all’autore. Tradizionalmente, i criteri che fondano e graduano tale personale contestazione appartengono alla formula della colpevolezza, il cui presupposto primario coincide con l’imputabilità che, a sua volta, ex art. 85 c.p., consiste nella capacità di intendere e di volere.
La capacità di intendere riguarda l’attitudine ad orientarsi nel mondo esterno percependo correttamente la realtà, ovvero la facoltà di comprendere il valore sociale dell’atto che si compie. La capacità di volere, invece, corrisponde all’idoneità di un soggetto ad autodeterminarsi liberamente e autonomamente; in altre parole, la capacità di distinguere il comportamento lecito da quello illecito. Assumono così particolare rilevanza la maturità psichica e la sanità mentale e, affinché un individuo possa ritenersi imputabile, è necessario che egli possegga entrambe queste facoltà.
In alcune ipotesi specifiche, il Codice penale pare affermare l’esistenza del reato pure in assenza di imputabilità (artt. 86, 111, 648, comma 3, c.p.), qualificando come “reato” o “delitto” il fatto commesso dalla persona non imputabile. In questo senso, ricopre un ruolo centrale il principio di soggettività del reato, in base al quale fondamentale è, quantomeno, l’appartenenza psichica del fatto all’agente [2]. La capacità di intendere e di volere è uno status individuale che deve essere presente nel momento in cui il soggetto commette il reato [3].
Dal canto suo, il Codice di procedura penale pone il divieto di utilizzare, anche in presenza del consenso della persona interessata, metodi o tecniche capaci di influire sulla libertà di autodeterminazione ovvero idonei ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti (artt. 188 e 64, comma 2, c.p.p.). Tale regola di fondo, posta a tutela della libertà morale del singolo individuo, ha configurato un limite assoluto all’ammissibilità di metodi in grado di ledere la sfera più intima e, in un certo senso, ingannevole dell’essere umano. Difatti, l’uso di procedure di accertamento probatorio specialmente atipiche o invasive potrebbero addirittura alterare la facoltà di valutare ovvero di ricostruire i fatti, creando una realtà a posteriori.
Ebbene, nell’ambito del processo penale le neuroscienze possono essere impiegate o in sede di perizia psichiatrica, volta a stabilire la capacità di intendere e di volere dell’imputato, oppure come strumento di validazione di una qualunque prova dichiarativa. In entrambi i contesti si delineano problematiche in rapporto alla libertà di autodeterminazione propria dell’individuo coinvolto; infatti, oggetto di studio sono le origini del comportamento, che come tali costituiscono dinamiche sottratte al controllo e alla volontà della persona interessata [4].
Ancora una volta, l’annoso dibattito relativo al concetto di libero arbitrio trova fertile terreno: l’uomo possiede una libertà positiva tale da renderlo responsabile – e, quindi, imputabile – per ogni suo volere e azione o il suo comportamento è il risultato di molteplici ‘spinte’ causate da forze tanto endogene quanto esogene?
2. Problemi e punti fermi
Posto che il divieto probatorio ex art. 188 c.p.p. concerne la prova dichiarativa, vi è chi ritiene che lo stesso debba estendersi anche al metodo della prova [5]. Dunque, allorché si decida di propendere per una tale soluzione, se l’utilizzo delle neuroscienze nell’ambito della prova dichiarativa è da escludersi a priori – in ragione dello sbarramento realizzato proprio dall’art. 188 c.p.p. -, sarà parimenti inammissibile la validità dei risultati conseguiti attraverso una perizia compiuta con l’ausilio di strumenti neuroscientifici, idonei a compromettere la libertà di autodeterminazione del singolo.
Diversamente, qualora si opti per la legittimità dell’uso delle neuroscienze, da impiegarsi su di una res così peculiare quale la sfera più intima dell’essere umano, in un ordinamento in cui la dignità umana riveste effettiva centralità non si potrà prescindere dal consenso del soggetto sottoposto a perizia [6].
In questo contesto il confine tra prova dichiarativa e prova reale appare nebuloso, poiché laddove la perizia psichiatrica venga svolta tramite un’interazione con la persona si pone comunque il problema del rispetto della libertà morale.
Altra questione che affligge l’utilizzo delle neuroscienze è quella che accomuna tutte le prove scientifiche, ossia la consapevolezza dei limiti della scienza che, nell’ambito del processo penale, si somma all’esigenza probatoria espressa dal canone dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533, comma 1, c.p.p.).
Durante il positivismo la scienza era considerata infallibile, infinita e completa, fondata sul principio di verificazione, in base al quale la ‘scientificità’ di un enunciato era da considerarsi acquisita se lo stesso veniva confermato attraverso una costante esperienza. Progressivamente si rivelò la fallacia di siffatte fondamenta, e sorse così la necessità di assoggettare le singole leggi scientifiche a molteplici e continui tentativi di falsificazione, al fine di decretarne una effettiva attendibilità. Difatti, non è possibile dedurre una teoria da un numero finito di casi, perché le ipotesi sono sempre infinite: la realtà supera la fantasia. Conseguentemente, una teoria non può mai essere verificata, ma esclusivamente falsificata [7].
Preso atto di quanto la scienza sia incompleta, limitata e fallibile, questa rappresenta comunque un irrinunciabile progresso anche per il processo penale: un importante e rilevante sostegno, seppur non una soluzione assoluta e automatica.
Dunque, a prescindere dal tipo di impiego che si intenda riservare alle neuroscienze, sarà doveroso appurare la qualità del singolo esame neurologico adottato, seguendo quei criteri di scientificità ormai noti al processo penale, che di sovente rinvia ai parametri enucleati nella celebre sentenza Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, pronunciata dalla Suprema Corte degli USA nel 1993 [8]. Nell’ambito di questa decisione è stato infatti realizzato il c.d. Daubert test, pratico riferimento che si compone di una serie di indici necessari per stabilire la scientificità – o meno – di metodi e teorie [9], laddove degli stessi si intenda far uso nell’agone processuale.
In particolare, vige la regola di fondo per cui la decisione del giudice dovrà poggiare su una prova ritenuta valida al tempo della sua pronuncia, sebbene, in futuro, ricerche più avanzate potrebbero smentire le previe conoscenze che avevano permesso di riconoscere siffatta idoneità.
Rilevante, inoltre, è la celebre sentenza n. 9163 dell’8 marzo 2005 ad opera delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione [10]. In tale pronuncia, meglio nota come sentenza Raso, il Giudice nomofilattico ha avuto modo di chiarire che nella nozione di infermità penalmente rilevante (artt. 88 e 89 c.p.) possono essere compresi anche i disturbi della personalità – anomalie del carattere di tipo non patologico -, purché “il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa” [11].
Segnando un punto decisivo, a favore di una nozione ‘ampia’ del concetto di infermità mentale, perché non riferita più solo ed esclusivamente alle patologie clinicamente accertabili in quanto a base organica, il Collegio riunito ha dimostrato di avere recepito la concezione multifattoriale di disturbo mentale [12].
Oltre al profilo quantitativo, quindi, per ritenere esclusa o, quantomeno, limitata la capacità di intendere e di volere è necessario un parametro qualitativo, che si concretizzi nell’esistenza di un nesso di causalità tra la patologia e il fatto-reato del caso di specie. Inoltre, la sussistenza essenziale del nesso eziologico tra questi due elementi costituisce un valido e irrinunciabile metro di giudizio per delimitare la rilevanza delle ipotesi di esclusione o attenuazione dell’imputabilità [13].
Dunque, dovendo il giudice procedere ad una ricostruzione rigorosa tra disturbo e azione criminosa prevale un approccio di tipo casistico, ove l’apporto neuroscientifico può rivelarsi particolarmente utile per valutare la gravità e l’intensità della patologia, ma non altrettanto significativo in termini di nesso causale [14].
3. Geni cattivi ed equilibri complicati
Esiste un gene che codifica l’enzima MAO, fondamentale nel metabolismo della serotonina, importante neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione del tono dell’umore e nella modulazione del comportamento. Di tale gene, che fonda l’enzima, sussistono quattro varianti alleliche: due di queste comportano la produzione di una grande quantità di enzima, mentre le altre ne elaborano una somma più modesta (MAO-A) [15]. Quest’ultima condizione è stata riscontrata in plurime occasioni nei c.d. soggetti violenti [16].
I geni sono tratti di DNA che possono esistere in molteplici forme che, a loro volta, prendono nome di alleli; tali forme alternative di un medesimo gene sono presenti nella stessa posizione su cromosomi omologhi.
Non è esatto, dunque, parlare di un “gene dell’aggressività”, ma, piuttosto, di varianti alleliche di taluni geni implicati nel meccanismo dei neurotrasmettitori, che possono condurre a un comportamento maggiormente aggressivo [17].
Inoltre, sarebbe più corretto asserire che coloro i quali possiedono siffatta ridotta attività avranno maggiori probabilità di sviluppare comportamenti violenti, rispetto a chi non detiene tale ‘menomazione’, se hanno vissuto in ambienti destabilizzanti e aggressivi. La componente biologica gode certamente di una propria rilevanza, ma ruolo altrettanto importante è assunto dalla parte ambientale [18].
Le MAO-A, quindi, non rappresenterebbero dei “geni cattivi”, ma se espresse potrebbero potenzialmente condurre – non in termini assoluti – ad un’alterazione nel metabolismo che, a sua volta, potrebbe comportare l’emersione di stati patologici. Eventuali disfunzioni neuronali non necessariamente si traducono in un’incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Oltretutto, il riscontro di un’anomalia non sarebbe di per sé sufficiente ad escludere l’imputabilità, poiché l’incapacità deve sussistere al momento del fatto-reato ed essere correlata all’azione criminosa.
Le neuroscienze detengono un’estrema utilità, ma la loro rilevanza è subordinata alle circostanze di ogni singolo caso concreto, ognuno caratterizzato dalle proprie variabili, che concorrono a determinare un forte divario tra la verità clinica e quella processuale. Eppure, l’immagine naturalistica dell’essere umano che restituiscono non sembrerebbe tanto agevole da ignorare [19]. Inoltre, corpo e mente non risponderebbero più a due entità distinte, ma, piuttosto, sarebbero elementi compenetrati tra loro, permettendo, almeno in prospettiva, una migliore oggettività del giudizio, attraverso un riferimento – seppur parziale – al paradigma organicistico [20].
Le ‘verità’ di oggi – che hanno già affrontato un notevole sforzo per affermarsi, anche in minima parte – domani potrebbero essere sconfessate da ricerche più avanzate, ma questo non può costituire la causa di un rifiuto assoluto, poiché ciò coinciderebbe con un vano scetticismo. Parimenti, i tempi non sembrano essere ancora maturi per potere parlare di una soluzione totale, cedendo a sfrenati entusiasmi e a un cieco affidamento.
In definitiva, il ruolo che attualmente le neuroscienze possono rivestire nel processo penale è quello di fornire al giudice quei chiarimenti a lui necessari, permettendogli così di formulare le proprie decisioni in modo più informato e consapevole [21]. Ancora una volta, si palesa ai nostri occhi l’immagine di un ‘giudice-equilibrista’, che deve mantenersi a metà strada tra opposti estremismi.
[1] Una interessante disamina sul tema in discorso è offerta da C. GRANDI, Diritto penale e neuroscienze. Punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte, in Diritto penale e uomo, 02.04.2019.
[2] F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, IX ed., Wolters Kluwer, CEDAM, 2015, pp. 290 ss.
[3] In questo senso Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 21826 del 28 maggio 2014, in C.E.D. Cass. pen., 2014, in cui la Corte ha ribadito che “l’imputabilità deve sussistere al momento della commissione del fatto”. Dunque, non importa che essa venga meno in un momento successivo o che non vi fosse in precedenza, sebbene siano ammissibili ipotesi di c.d. precolpevolezza o actiones liberae in causa. Sono così definite le azioni compiute in uno stato di incapacità che l’agente si è procurato, ad esempio, mediante l’assunzione di sostanze stupefacenti, preordinatamente al fine di realizzare un reato, ovvero di prepararsi una giustificazione. Nonostante il soggetto non avesse la capacità d’intendere e di volere al momento del fatto, il reato commesso in stato di incapacità preordinata è punibile ex art. 87 c.p. (Stato preordinato d’incapacità di intendere o di volere). In tali ipotesi l’esecuzione del reato viene fatta fittiziamente risalire al tempo in cui l’agente ha preordinato lo stato di incapacità. Per approfondire, si veda D. PIVA, Le componenti impulsive della condotta. Tra imputabilità, (pre)colpevolezza e pena, in Diritto penale in evoluzione, M. DONINI, E. MEZZETTI, M. PELISSERO, S. SEMINARA (diretto da), Jovene Editore, 2020.
[4] Si veda, al riguardo, P. TONINI, C. CONTI, Il diritto delle prove penali, II ed., Giuffré Editore, Milano 2014, pp. 191 ss.
[5] In questo senso, ancora P. TONINI, C. CONTI, Il diritto delle prove penali, cit., p. 187.
[6] Sempre P. TONINI, C. CONTI, Il diritto delle prove penali, cit., p. 195.
[7] Si veda K. R. POPPER, Logik der Forschung, Wien (1935), trad. it., Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, pp. 5 ss. Si deve al filosofo l’abbandono definitivo della c.d. induzione per enumerazione, dal momento che, a suo avviso, non vi è logica nel trarre una regola generale da circostanze particolari, poiché sarà sempre possibile cadere in errore: “per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo avere osservato, ciò non giustifica l’asserzione che tutti i cigni sono bianchi. […] La verità è che tutti siamo fallibili e la scienza è fallibile. E la scienza è fallibile perché la scienza è umana”.
[8] Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, Inc., 509 U.S. 579, 113 S. Ct. 2786 (1993), trad. it. in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996.
[9] Gli indici di affidabilità del metodo scientifico, evidenziati dalla sentenza in questione, sono: a) la verificabilità del metodo; b) la falsificabilità dello stesso; c) il suo essere sottoposto al controllo della comunità scientifica; d) la conoscenza del tasso di errore, criterio che assume una particolare rilevanza, e, in via residuale, e) la generale accettazione.
[10] Cassazione, SS. UU. penali, sentenza 08.03.2005 n. 9163, Capacità di intendere e di volere e disturbi della personalità dell’imputato, in www.ristretti.it.
[11] Ibidem.
[12] Così M. T. COLLICA, Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel giudizio di imputabilità, in Diritto penale contemporaneo, 15.02.2012, p. 4.
[13] Ivi, p. 17.
[14] Quanto al nesso eziologico, le Sezioni Unite nella sentenza Raso hanno precisato che “a tale accertamento il giudice deve procedere avvalendosi degli strumenti tutti a sua disposizione, dell’indispensabile apporto e contributo tecnico, di ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali”.
[15] Cervello e processo penale, 5, in Diritto al Punto Podcast, 09.04.2020.
[16] Celebre fu il c.d. Caso Albertani, quando nel maggio del 2011 una donna che aveva ucciso la propria sorella, e che aveva tentato di fare altrettanto alla madre, venne condannata a 20 anni di reclusione. Il G.i.p. del Tribunale di Como determinò tale quantum di pena – inferiore a quanto sarebbe stata in circostanze normali – perché riscontrò nell’imputata un vizio parziale di mente. Questa valutazione venne supportata, oltre che da accertamenti psichiatrici tradizionali, anche da analisi neuroscientifiche, che rivelarono la morfologia del cervello e il patrimonio genetico della donna, dimostrando che la stessa presentava gli alleli associati ai comportamenti aggressivi. Si trattò del primo caso di riconoscimento in Italia della validità delle neuroscienze per l’accertamento dell’imputabilità. Si veda, al riguardo, G.i.p. Como, 20.05.2011, in Guida al diritto (on line), 30 agosto 2011, Gip di Como: le neuroscienze entrano e vincono in tribunale.
[17] Cervello e processo penale, cit.
[18] In questo senso, M. T. COLLICA, Gli sviluppi delle neuroscienze sul giudizio di imputabilità, in Diritto penale contemporaneo, 20.02.2018, pp. 6 ss.
[19] L. FORNARI, Neuroscienze e diritto: un approccio multidisciplinare. Uno scambio di opinioni tra esperti nei vari settori scientifici per dare nuova luce al rapporto tra neuroscienze e diritto, in Diritto penale e uomo, 13.05.2020, p. 2.
[20] Si vedano: M. DI FLORIO, Imputabilità e neuroscienze: brevi considerazioni con particolare riferimento alla ludopatia, in Diritto penale contemporaneo, 26.09.2019, p. 48; O. DI GIOVINE, Chi ha paura delle neuroscienze?, in Archivio penale, 3, 2011, pp. 2 ss.
[21] M. T. COLLICA, Gli sviluppi delle neuroscienze, cit., pp. 38 ss.
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Giulia Romani
Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Firenze con tesi in Diritto Penale dal titolo "L'istituto della messa alla prova a confronto con i principi costituzionali e la giustizia riparativa".
Dopo aver svolto, con esito positivo, lo stage presso la II Sezione Penale ed il Tribunale del Riesame di Firenze, ai sensi dell'art. 73 D.L. n. 69/2013 ed esercitato la professione forense, attualmente lavora presso l'Ente Pubblico Economico che gestisce il patrimonio immobiliare dello Stato.
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