Le “nuove” forme di corruzione. Scelte legislative e applicazioni giurisprudenziali

Le “nuove” forme di corruzione. Scelte legislative e applicazioni giurisprudenziali

Le seguenti riflessioni maturano durante lo studio di un caso di notevole rilievo mediatico che vede indagato per corruzione un deputato regionale per aver, a detta della pubblica accusa, durante lo svolgimento della propria funzione, perpetrato gli interessi privati di alcuni imprenditori, ricevendo indebitamente denaro e altre utilità.

Come è ben noto l’entrata in vigore della legge 190/2012 ha dato vita a quella che di fatto è la seconda riforma in materia di reati contro la pubblica amministrazione. La nuova disciplina, oltre ad aver realizzato il così detto spacchettamentodella concussione, dando vita alla nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità,ha ridisegnato i delitti di corruzione, cercando di dare chiarezza ad una disciplina che risultava troppo frammentaria e poco funzionale.

Sulla scorta dei fenomeni e delle prassi corruttive che spesso vengono ad esistenza nel nostro paese, il primo spunto del legislatore è quello di eliminare le fattispecie di corruzione impropria (antecedente e susseguente) dando vita alla nuova figura di corruzione per esercizio della funzione(art. 318 cp), nella quale vengono ricondotti tutti gli accordi corruttivi che hanno ad oggetto il mercimonio della funzione pubblica, prescindendo dal compimento di singoli atti da parte del pubblico ufficiale. Rimane sostanzialmente inalterata la struttura della fattispecie di cui all’art. 319 cp (corruzione propria) nella quale l’unico intervento del legislatore consiste nella sostituzione della parola propriacon la locuzione atto contrario ai doveri di ufficio.

La nuova fattispecie di corruzione per esercizio della funzione si pone comunque in un grado di disvalore minore rispetto alla più grave fattispecie di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Quest’ultima continuerebbe a trovare applicazione nelle ipotesi più gravi, nelle quali verrebbe riscontrata l’esistenza di un atto d’ufficio riconducibile al pubblico ufficiale.

Nelle intenzioni del legislatore infatti il nuovo art. 318 cp viene disegnato per avere un vasto ambito di applicazione che andrebbe ad abbracciare la stragrande maggioranza di accordi corruttivi aventi ad oggetto il mercimonio della pubblica funzione in cambio di denaro o altre utilità.

Il caso oggetto di studio vede protagonista un deputato regionale al quale viene contestato di aver posto in essere, sfruttando la propria posizione, pressioni e influenze nei confronti di svariati soggetti, in modo tale da coltivare e perpetrare gli interessi di alcuni imprenditori, ricevendo come corrispettivo dazioni di denaro e altri tipi di utilità.

Particolari spunti di riflessione sorgono in merito alla qualificazione giuridica del fatto che viene ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 319 cp (corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio), senza che venga tuttavia riscontrata l’esistenza di un atto specifico riconducibile all’ufficio del pubblico ufficiale.

La suddetta qualificazione viene giustificata dall’esistenza di alcuni orientamenti giurisprudenziali secondo i quali: in tema di corruzione propria, costituiscono atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Cass. Pen. Sez. VI 30762/2009); ai fini della configurabilità del reato di corruzione, sia propria che impropria, non è determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto(Cass. Pen. Sez. VI 20502/2010).

Sulla scorta di quanto introdotto dalla novella del 2012 si ritiene poco condivisibile la qualificazione giuridica del fatto data dalla pubblica accusa. Non si comprende infatti il motivo per il quale, vista l’assenza di uno specifico atto, la condotta dell’indagato non venga qualificata come corruzione per esercizio della funzione ma come corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio. Ed è proprio dal concetto di atto contrario ai doveri d’ufficioche muove le prime mosse la nostra analisi. Quest’ultimo deve essere definito e individuato prendendo spunto dal bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice, che nel nostro caso altro non è che il buon funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.

Come sostenuto da autorevolissima dottrina (Fiandaca-Musco), ancorché la riforma del novembre 2012 prendesse vita, ai fini della configurabilità della corruzione propria non solo è necessaria la presenza di un atto riconducibile alle singole mansioni e agli specifici doveri d’ufficio del pubblico ufficiale, ma è altresì necessaria la contrarietà dell’atto rispetto ai doveri dell’ufficio stesso. Contrarietà che, per venire ad esistenza, visto il bene giuridico tutelato (buon funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione), deve necessariamente manifestarsi alla luce di quelle che sono le norme che regolano lo svolgimento dell’attività amministrativa. Contrarietà che deve necessariamente intendersi come illegittimità dell’atto, proprio alla luce di quelli che sono i vizi tipici del diritto amministrativo, ovvero: incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere.

Riepilogando, ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 319 cp non solo è necessaria l’esistenza di un atto riconducibile all’ufficio del pubblico ufficiale, ma è altresì necessario che l’atto stesso sia viziato, ovvero affetto da una delle violazioni tipiche dell’atto amministrativo. Qualora questi due presupposti non dovessero essere riscontrati si configurerebbe il reato meno grave di corruzione per esercizio della funzione di cui all’art. 318 cp.

Questa interpretazione viene avvalorata dalla scelta del legislatore che, sposando le indicazioni di autorevole dottrina, nel lasciare inalterata la struttura dell’art. 319 cp, ha sostituito la parola propria con la locuzione atto contrario ai doveri d’ufficio imponendo pertanto ai giuristi una ricostruzione più rigorosa dell’elemento oggettivo ai fini della configurabilità del reato de quo.

A fronte di quanto detto non si comprende come degli orientamenti giurisprudenziali, espressi e affermati in presenza di un contesto normativo ben diverso da quello disegnato dalla recente riforma, possano essere oggi richiamati per giustificare la qualificazione giuridica di condotte come quella descritta ex art. 319 cp.

In ogni caso, fino a prova contraria, il nostro ordinamento è un sistema giuridico di civil lawdove, a differenza dei sistemi di common law, al primo posto della gerarchia delle fonti troviamo la legge e dove soprattutto non vige il principio dello stare decisis. Non esistendo nel nostro ordinamento giuridico il principio del precedente vincolante non si vede motivo per il quale un orientamento giurisprudenziale debba prevalere sul diritto positivo di creazione legislativa. Ciò non significa che gli orientamenti giurisprudenziali non abbiano alcuna rilevanza. Sarebbe aberrante affermare una cosa simile! In quanto espressione del Supremo Collegio è indubbio che abbiano un enorme valore, un valore persuasivo, condizionante, ma sicuramente non vincolante! Ma fino a che punto possono essere persuasivi e condizionanti degli orientamenti (già poco condivisi all’epoca) pronunciati quando vigeva un assetto normativo che è stato totalmente stravolto da una riforma? Probabilmente, vista la notevole riforma intervenuta in materia, non lo sono affatto!

Non si comprende inoltre come possa dar man forte alle statuizioni della pubblica accusa l’ulteriore orientamento giurisprudenziale recente richiamato: ai fini della determinazione della contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio, occorre aver riguardo non solo all’astratta legittimità formale dello stesso, ma anche al percorso che ha condotto alla sua adozione: a significare, cioè, che ove emerga che poteri discrezionalmente spettanti al pubblico ufficiale siano stati asserviti al raggiungimento dell’esito prestabilito, con rinuncia a priori alla imparziale comparazione degli interessi in gioco – da accertarsi in fatto per essere avvenuti a monte, onde evitare non consentite ingerenze nella sfera propria della P.A. – anche in tal caso si configurerà come contrario ai doveri d’ufficio, esulando perciò dalla sfera di applicabilità del vigente art. 318 cp.(Cass. Pen. sez. VI 18707/2016).

È chiaro che il Supremo Collegio nella pronuncia in questione, parlando di astratta legittimità formalee di percorso che ha condotto alla sua adozione, prende le mosse dall’esistenza di un vero e proprio atto dotato dei requisiti di sostanza e di forma precedentemente menzionati, che nel caso in esame non è possibile riscontrare, a meno che non si voglia, contro ogni logica, sostenere che atti come un disegno di legge, trasformato in legge da un organo democraticamente eletto, possano costituire un atto contrario ai doveri d’ufficio, ma ciò, significherebbe sostenere qualcosa di assurdo.

Si ritiene pertanto che la condotta contestata debba essere ricondotta alla fattispecie di cui all’art. 318 cp. Il nostro legislatore, nel ridisegnare la norma in questione denominandola corruzione per esercizio della funzione, ha tipizzato una fattispecie incriminatrice ad ampio raggio d’applicazione che abbraccerebbe tutti i casi di asservimento della funzione pubblica ad interessi privati, nei quali non è individuabile quel quid plusrichiesto dal più riprovevole art. 319 cp.

Continuando a sostenere l’orientamento che tende a qualificare ogni mero comportamento di fatto come atto contrario ai doveri d’ufficio si andrebbe incontro ad una quasi abrogazionetacita dell’art. 318 cp, che non troverebbe mai applicazione tranne che nei casi limite dove il pubblico ufficiale venga scritto a libro paga dell’imprenditore senza attivarsi poiché, una volta messosi in moto, verrebbe chiamato a rispondere, secondo quest’erronea interpretazione, di corruzione ex art. 319 cp, in palese contrasto con quelle che sono le intenzioni del legislatore che, come su esposto, intendeva invece tipizzare una fattispecie ad ampio raggio di applicazione.


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Gianluca Prosperini

Avvocato iscritto alla Camera Penale di Trapani. Consegue la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Palermo nell'anno accademico 2015/2016 con la votazione di 108/110. Ottiene l'abilitazione alla professione forense nella sessione 2018 presso la Corte di Appello di Palermo.

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