Le obbligazioni nel sistema islamico

Le obbligazioni nel sistema islamico

Sommario: 1. Premessa – 2. Il Sukuk – 3. Il caso di Nakhell

 

1. Premessa

Nonostante la nozione di obbligazione sia antitetica ai principi islamici, la tendenza degli ultimi anni ha visto lo svilupparsi una serie di prodotti obbligazionari “conformi” alla shari’a.

L’emissione di obbligazioni, prima vietate perché a reddito fisso, stanno trovando sempre più applicazione grazie all’introduzione del concetto di separazione.[1]

I livelli di separazione aggiuntivi sembrano trovare un’ampia accettazione da parte dei giuristi islamici e degli Sharia’a Boards, sebbene essi comportino costi di transazione e rischi operativi maggiori.

Da sempre, New York e Londra sono state le sole capitali della finanza, tuttavia la situazione è mutata nel tempo.

La novità emergente dell’economia mondiale si chiama “finanza islamica”. Essa gestisce 750 miliardi di dollari e registra un tasso di crescita annuo dell’attività bancaria del 20%.

Nel 2008 la finanza islamica ha dato dimostrazione di sé in Barhain, per la quindicesima edizione della “World Islamic Banking Conference”.[2]
Ribadiamo che il perno della finanza islamica sta nel divieto del Corano di prestare denaro ad usura.[3]

In base a questo principio, la morale musulmana esclude la possibilità di guadagnare attraverso un interesse bancario. Tutto ciò determina, almeno in teoria, un miliardo e 500 milioni di potenziali clienti osservanti, i quali non vivendo agiatamente, sono impossibilitati ad aprire un conto corrente tradizionale.

Gli economisti islamici inventarono un’alternativa: la banca ha iniziato ad effettuare operazioni di vendita con i soldi depositati dal cliente,  ha acquistato beni e li ha rivenduti ad un prezzo più alto.

L’utile, “islamicamente” lecito, sarà depositato sul conto del risparmiatore.

Il mercato delle obbligazioni islamiche, dette sukuk  ha toccato gli 80 miliardi di dollari. I fondi islamici sono già 500 e nel 2010 si prevede arriveranno a quota mille.

Questa crescita sconfinata  pone le sue fondamenta su  tre punti di forza di carattere economico e culturale. In primis si ricorda il petrolio: la finanza islamica si alimenta della “cascata di dollari” dovuta alla vendita del greggio dei Paesi del Golfo; e resa ancora più impetuosa dagli aumenti del prezzo del barile dei primi mesi del 2008.[4]

Il 10% degli investitori islamici muove dai 400mila ai 4 milioni di dollari, capitali che esigono la creazione di un numero crescente di strumenti finanziari.

Il secondo punto di forza è l’immigrazione: dal Magreb, dalla Turchia, dal Pakistan e dall’Africa Sub-sahariana, sono emigrate verso l’Europa e gli stati Uniti, centinaia di migliaia di persone negli ultimi vent’anni, spesso riuscendo ad affermarsi economicamente.[5]

Infine il motivo culturale, ossia la granitica “coerenza” del mondo musulmano.

Lachemi Siagh[6] ha introdotto il concetto di “intensità culturale” del mondo islamico: in un Paese musulmano non può esistere -secondo Siagh- una finanza laica,  separata e priva delle radici dell’Islam.

Dobbiamo evidenziare che l’Islam ha una così profonda influenza su mentalità, costumi e comportamenti delle persone, tale da non poter certo risparmiare la finanza.

Il rispetto della Shari’a in una banca islamica è presente in ogni momento.[7]

Di norma tutti gli accordi o contratti devono essere approvati dallo sharia board , in base ai quali si verifica che l’attività sia conforme ai principi islamici. Ad esempio, in alcune banche il sharia board ha definito i criteri con cui selezionare le società su cui investire, escludendo quelle coinvolte in attività non accettabili o troppo indebitate. Questo è un vantaggio anche per un risparmiatore non musulmano: gli indici islamici non comprendono i titoli finanziari convenzionali e per questo sono rimasti al riparo dalla crisi subprime.

Dobbiamo ricordare che nel mese di Settembre l’agenzia Bloomberg ha denunciato con una certa sorpresa un crollo della vendita dei Sukuk, le obbligazioni islamiche, che dal 2004 al 2007 erano invece raddoppiate ogni anno: nei primi otto mesi del 2008 sarebbero stati venduti sukuk per “soli” 14 miliardi di dollari, contro i 23 miliardi dello stesso periodo dell’anno precedente. Il motivo della crisi, controcorrente, non ha nulla a che fare con i recenti tracolli americani.

Invece, è accaduto che lo scorso febbraio l’“Accounting & Auditing Organization for Islamic Financial Institution”, in sostanza una scuola islamica con base in Bahrain, si sarebbe espressa contro l’85% dei sukuk islamici in commercio, decretandone la non coerenza con le leggi della sharia. In conclusione possiamo affermare che la vendita di questi prodotti finanziari è crollata del 50%, mentre i sukuk marchiati doc per la legge islamica hanno al contrario segnato miliardi di incassi.

2. Il Sukuk

Abbiamo già avuto modo di affermare che la presenza di un divieto relativo all’emissione di strumenti caratterizzati da un tasso di interesse definito ex-ante rende i classici strumenti di debito occidentali poco adatti al contesto islamico. Una struttura conforme ai principi islamici, simile ai titoli obbligazionari, è quella dei cosiddetti Sukuk, definibili come dei certificati rappresentativi della partecipazione alla proprietà di un determinato bene o un pool di beni.

La proprietà viene parcellizzata e in seguito trasferita.  In questo modo l’acquirente dei Sukuk diventa proprietario pro quota dei beni parcellizzati e questo gli permette di poter beneficiare di una rendita periodale (assimilabile alle cedole) che però non è rappresentata da un interesse, bensì da una quota dei profitti derivanti dai beni stessi.
È importante sottolineare come i Sukuk non rappresentino una quota di debito (la cui vendita è fattispecie vietata) ma un certificato rappresentativo di una comunione di beni.

È doveroso precisare, che a differenza delle obbligazioni, i Sukuk devono corrispondere ad un progetto determinato – di solito un progetto immobiliare o infrastrutturale. Quindi, mentre un’obbligazione convenzionale è una promessa di ripagare un debito, i sukuk sono costituiti della proprietà di una quota-parte di un debito (sukuk murabaha), di un asset (sukuk al ijara), di un progetto (sukuk al istisna), di un affare (sukuk al musharaka) o di un investimento (sukuk al istithmar).

Altra caratteristica importante è legata a fatto che i Sukuk non hanno dei sottostanti finanziari, ma solo reali.
Nonostante lo strumento non sia di facile comparazione, tuttavia, il mercato dei Sukuk è in rapida ascesa ed ha già assunto una importanza rilevante. Secondo gli esperti, nel 2006 il valore complessivo del mercato dei Sukuk è stato di 20 miliardi di dollari americani e gran parte del mercato se lo sono conteso piazze finanziarie come Malesia e Bahrain.

Le emissioni sono poco numerose e concentrate su certe piazze, ma soprattutto manca un livello di standardizzazione pacificamente accettato nel mondo islamico. Generalmente ci si riferisce agli schemi standard individuati dall’Accounting and Auditing Organization for Islamic Financial Institutions (AAOIFI).

La tipologia di sukuk più comune è l’ijarah sukuk, che ha come base sottostante un complesso immobiliare locato secondo lo schema del leasing (ijarah) e per il quale il rendimento deriva dai canoni di locazione finanziaria.

3. Il caso di Nakhell

L’innesco della crisi finanziaria di Dubai è stata la richiesta di moratoria sul debito da parte di una società immobiliare di proprietà pubblica, Nakheel, che avrebbe dovuto rimborsare  4 miliardi di $ entro metà Dicembre 2009. La società si è lanciata in progetti faraonici, tra cui le celeberrime palme-residence, che dalla costa si allungano direttamente sul mare, ma a causa della crisi economica mondiale rischia un boom dell’invenduto e il crollo del traffico turistico, lasciando deserto il “Paese delle meraviglie” del Medioriente.

Il maggiore azionista di Nakheel, l’Emirato di Dubai, si è rifiutato di dare garanzia sul debito della società controllata creando il panico sui mercati mondiali.

Tuttavia  parlare di debito, nel mondo islamico, non è proprio corretto. Infatti la Sharì’a prevede, tra i suoi precetti, la proibizione del prestito in cambio di cedole predeterminate, considerate inevitabilmente come usura qualunque sia il livello del tasso di interesse.

Finisce così che le società come Nakheel in realtà non emettono quelle che noi chiamiamo obbligazioni, le quali sono proibite dalla legge islamica, ma strumenti più simili ai nostri pronti contro termine in cui oggi l’emettitore consegna al prestatore un certificato che ha come base uno specifico progetto di sviluppo, o quota di una infrastruttura immobiliare, che si impegna a ricomprare domani a un determinato prezzo. Questo certificato viene chiamato bond islamico, o semplicemente sukuk.

Nella pratica dei mercati la differenza di prezzo in realtà rappresenta un tasso di interesse simulato, attraverso il quale si può aggirare la Sharì’a, d’altro canto è anche vero che il prestatore, tra l’oggi e il domani, non si trova in mano un titolo debito, tutelato come nella finanza occidentale, bensì la quota parte di un bene: una specie di titolo azionario di società per azioni.

Questo è più in linea con la cultura islamica, dove chi ha denaro deve contribuire a creare il successo di un’impresa partecipando ai profitti in caso di successo ma giammai deve semplicemente prestare denaro con garanzia di rimborso e tasso di interesse determinato.

Se si manterrà nel futuro prossimo la sottile doppiezza che ha regolato fino a oggi l’emissione sui mercati di quasi 700 miliardi di dollari di sukuk,  l’andamento della crisi del Dubai non sarà dissimile dalle crisi argentina o russa, con più o meno fortuna del creditore nell’ottenere la restituzione delle sue obbligazioni con altro nome. Ma se si mettesse di mezzo qualche fanatico dell’interpretazione integrale, si potrebbe ben pensare che secondo la Shari’a quelli che hanno prestato denaro sono stati  azionisti sprovveduti.[8]

Il modello islamico potrebbe rappresentare una strada attraverso la quale convertire gli obbligazionisti in azionisti. Questa potrebbe essere una soluzione alternativa, che in America e in Europa molti vedrebbero come uno strumento attraverso cui scaricare i costi della crisi mondiale o di semplici truffe.[9]

Questa è una strada, che nell’Islam della Shari’a, potrebbe persino diventare obbligatoria, costringendo i creditori a rimettere i propri debiti al debitore senza possibilità di opposizione. Tuttavia essi potrebbero solo rammaricarsi della propria avidità o generosità involontaria.[10]

 

 

 


[1] Mentre, ad esempio, è tassativamente vietato prestare 100 oggi per ricevere 105 domani, in ragione del divieto di riba, è invece accettato che la stessa transazione avvenga mediante il passaggio di un asset reale, ossia in maniera semplicistica: il soggetto A vende una merce in contanti al soggetto B  per 100, che a sua volta la vende ad  A per 105 con regolamento a scadenza.
[2] La conferenza mondiale delle banche islamiche, alla quale hanno partecipato oltre mille delegati delle più influenti istituzioni del pianeta.
[3]  “Dio ha permesso la compravendita ma ha proibito l’usura” (Corano, II, 275).
[4] Marco Mauri asserisce che “Esiste quasi il problema di un eccesso di liquidità. Egli è  impiegato a Manama, Barhain, nella divisione Asset management della Unicorn Investiment Bank ed esperto di finanza islamica.
[5] Aprendo attività imprenditoriali e alimentando le economie dei Paesi d’origine con continue rimesse. Un fenomeno così rilevante che, per non lasciarsi sfuggire questa tipologia di clienti e i loro soldi, anche in Occidente sono nate le prime banche islamiche .
[6] Egli è conomista di origini arabe ma di formazione occidentale, autore del libro L’Islam e il mondo degli affari (Etas Edizioni)
[7] “Nella banca c’è un luogo dedicato alla preghiera -racconta Mauri- e durante la giornata
si sente il richiamo del Muezzin. All’inizio mi faceva specie quando un collega musulmano interrompeva la riunione per dire: vado a pregare, continuiamo dopo. Oggi ho un grande rispetto per questo atteggiamento.
[8] Azionisti che oggi hanno in mano una quota di un gigantesco Luna Park del Golfo, pur senza volerlo.
[9] Ricordiamo il caso Parmalat, mediante il quale un vasto pubblico di risparmiatori ha posto la propria fiducia nei pronostici degli analisti.
[10] Www.jonkind.com, “ Il bond islamico : dal sukuk al suka il passo è breve”.

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Elisabetta Sini Spanu

Nel 2010 conseguo la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Sassari, con la votazione di 110/110 e lode. Due anni dopo conseguo il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali della medesima Università. Nel 2015 supero brillantemente l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense. Nel 2020, dopo un percorso di studi e approfondimento di tre anni, conseguo - con lode - il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione in diritto civile dell'Università degli Studi di Camerino. Attualmente PhD in Economics - Institution, Businesses and Quantitative Methods (International and Industrial doctorate) at University of Perugia.

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