Le parti comuni del condominio

Le parti comuni del condominio

Le parti comuni dell’edificio sono strumentali al godimento delle proprietà deisingoli per cui da tale vincolo di destinazione funzionale, sorgono i caratteri dell’ irrinunciabilità e della indivisibilità delle stesse.

Per espressa e inderogabile previsione dell’ art. 1118 c.c., il condomino non può rinunciare ai diritti sui beni comuni né sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la loro conservazione. La ratio di tale disposizione va ricercata nel fatto che il godimento dei beni comuni è inscindibile dal godimento dei beni di proprietà esclusiva, per cui pur rinunciando alla comproprietà sul bene, il condomino continuerebbe di fatto ad usufruire dello stesso. Si ritiene, pertanto, che neanche il regolamento di condominio di natura contrattuale possa derogare all’irrinunciabilità, salvo che, ovviamente, l’atto di rinuncia sia contestuale a quello sul diritto all’unità abitativa di proprietà esclusiva.

L’ art. 1119 c.c. sancisce, invece, l’indivisibilità delle parti comuni dell’edificio, “a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”.

Com’è evidente, pur nella sua inderogabilità, la disposizione codicistica non prevede l’indivisibilità assoluta delle parti comuni, ma subordina tale eventualità al consenso di tutti i condomini. Anche in tal caso, la ratio del legislatore va ricercata nell’intenzione di evitare una divisione che possa alterare la destinazione funzionale delle parti comuni al servizio delle proprietà esclusive, facendo patire ai singoli condomini una diminuzione nel godimento delle stesse, lasciando, tuttavia, sopravvivere tale possibilità in caso di accordo unanime.

L’uso delle parti comuni

Ciascun condomino può servirsi delle cose comuni , apportando, a proprie spese, anche modificazioni necessarie per il miglior godimento, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca, ex art. 1102 c.c. , agli altri partecipanti un pari godimento delle stesse, oltre a non pregiudicare la stabilità, la sicurezza e il decoro dell’edificio condominiale.

Secondo l’art. 1118, 1° comma, c.c. il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni , salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene. Laddove non sia precisato dal titolo, per determinare l’estensione del diritto spettante a ciascun condomino sulle parti oggetto di proprietà comune, si considera il valore dell’unità immobiliare espresso in millesimi (secondo le tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio), avendo riguardo nell’accertamento, ex art. 68 disp. att. c.c., al valore “grezzo”, senza tenere conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione.

Il suolo: definizione

Il suolo è il primo dei beni comuni citati dall’art. 1117 del codice civile.

L’esatta qualificazione dello stesso, considerato che la disposizione civilistica lo identifica solamente come “il suolo su cui sorge l’edificio”, ha richiesto più volte l’intervento della giurisprudenza.

La questione, lungi dall’essere una disputa puramente nominalistica ha dei risvolti pratici non indifferenti. Così, stando all’orientamento giurisprudenziale dominante il suolo coincide con quella ” porzione di terreno su cui poggia l’intero edificio e, immediatamente, la parte infima di esso “. Rientrano, pertanto, in tale nozione ” l’area dove sono infisse le fondazioni e la superficie sulla quale poggia il pavimento del pianterreno, non anche quest’ultimo. Ne consegue che i condomini sono comproprietari non della superficie a livello di campagna, bensì dell’area di terreno sita in profondità sottostante, cioè, la superficie alla base del fabbricato sulla quale posano le fondamenta dell’immobile ” (Cass. n. 8119/2004). È principio pacifico per la giurisprudenza dominante, altresì, che per il suolo su cui insiste l’edificio condominiale, si considera l’area sulla quale poggia il pavimento del piano più basso , sia che questo emerga in tutto o in parte dal piano di campagna circostante, sia che si trovi più in profondità , risultando completamente interrato (Cass. n. 5085/2006).

Trattandosi di bene comune ex art. 1117 c.c., le spese necessarie per la sua conservazione e godimento sono da ripartire in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascun condomino ex art. 1123, 1 comma, c.c. È inibito, inoltre, ” al singolo condomino, in difetto di prova di avere acquistato in base a valido titolo porzioni di esso, di assoggettarlo a proprio uso esclusivo impedendone il pari uso agli altri condomini senza il consenso di costoro” (Cass. n. 14350/2000).

Presunzione inversa

La presunzione di comunanza del suolo ex art. 1117 c.c. non opera, tuttavia, nella situazione inversa. I n caso di edifici, separati e autonomi, eretti sul medesimo suolo su cui è sorto lo stabile condominiale , la giurisprudenza ha stabilito che l’appartenenza al condominio, e, dunque, la qualifica di bene comune, non è automatica . Né può valere a far sorgere automaticamente la presunzione di comunione, il fatto che il terreno su cui in tempi diversi siano stati costruiti sia il fabbricato condominiale che gli altri edifici, appartenga al medesimo proprietario, poiché ” l’estensione della proprietà condominiale ad edifici separati ed autonomi rispetto all’edificio in cui ha sede il condominio può essere giustificata soltanto in ragione di un titolo idoneo a far ricomprendere il relativo manufatto nella proprietà del condomino stesso ” (Cass. n. 9105/2013).

Suolo adiacente o circostante

In genere, la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c. non opera con riferimento all’area circostante o adiacente il fabbricato condominiale, poiché il ” suolo su cui sorge l’edificio “, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, è soltanto quello circoscritto dalle fondamenta e dai muriperimetrali esterni dello stesso, mentre quello adiacente o circostante potrebbe ” rientrare tra le cose comuni unicamente per diverso titolo, potendo trovarsi in rapporto di accessorietà o di pertinenza con l’edificio stesso ” (Cass.n. 273/1984).

Nello specifico, la giurisprudenza, di legittimità e di merito, ha affermato che, seppur l’elencazione delle parti comuni ex art. 1117 c.c. non è da considerarsi tassativa, l’area ” de qua ” non presenta quelle caratteristiche ” di oggettiva destinazione del bene all’uso comune che renderebbe applicabile la citatapresunzione” (Trib. Trani 27.7.2004); per cui, per poter stabilire, in concreto, se una determinata area contigua all’edificio condominiale sia o meno pertinenza dello stesso e faccia parte delle strutture del condominio, occorre accertare se ricorrono gli elementi richiesti per l’insorgere del vincolo pertinenziale (ovvero, l’esistenza di un elemento oggettivo, consistente nella destinazione di un bene accessorio al servizio o all’ornamento del bene principale, e di un elemento soggettivo, consistente nella rispondenza di tale destinazione all’effettiva volontà dell’avente diritto di creare tale vincolo a norma dell’art. 817 c.c.), valutando ” lo stato effettivo dei luoghi ed i rapporti intercorrenti tra i manufatti condominiali e l’adiacente spazio “, sulla base di un accertamento che si traduce in un apprezzamento di fatto, incensurabile in Cassazione (Cass. n. 2999/1988).

Il sottosuolo

Secondo l’art. 840 c.c. la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene fino alla profondità entro cui la stessa può essere utilmente esercitata. Pertanto, il proprietario del suolo, salvi i limiti imposti dalla legge, può disporre e godere pienamente del sottosuolo, realizzando ” qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino “. Tale principio, applicabile alle proprietà solitarie, relativamente al sottosuolo dell’edificio condominiale, va, tuttavia, contemperato con l’art. 1117 c.c. che, come anticipato, individua il suolo su cui sorge l’edificio quale bene di proprietà comune di tutti i condomini, salvo che non risulti diversamente dal titolo.

La questione, lungi dall’essere meramente teorica, presenta notevole rilevanza circa la legittimità di eventuali lavori di scavo o ampliamento realizzati dal proprietario del piano più basso del condominio (cantina, seminterrato, abbassamento della pavimentazione, ecc.).

L’indirizzo univoco della giurisprudenza afferma che la porzione di suolo sottostante all’edificio condominiale, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dello stesso, ancorchè non menzionato espressamente dall’art. 1117 c.c., con riguardo alla funzione di sostegno che esso contribuisce a svolgere per la stabilità del fabbricato e, comunque, indipendentemente dalla destinazione, va considerato di proprietà comune (Cass. n. 17141/2006; n. 22835/2006) in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini (si pensi, ad esempio, alla destinazione del sottosuolo a posti auto, box e cantine, in rapporto di accessorietà o pertinenza delle singole unità immobiliari).

Uso del sottosuolo

Sulla scorta di quanto affermato, ciascuno dei condomini può servirsi del sottosuolo secondo i principi espressi dall’art. 1102 c.c. , purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne uso paritario secondo il loro diritto, ma ” non può, senza il consenso degli altri, procedere ad escavazioni in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o ingrandire quelli preesistenti, comportando tale attività l’assoggettamento di un bene comune a vantaggio del singolo ” (Cass. n. 5085/2006).

Alcune decisioni, di legittimità e di merito, più risalenti presentavano, tuttavia, un indirizzo non perfettamente conforme a quello del divieto di ” qualsiasi opera “. La Cassazione, difatti, ha ritenuto legittima l’esecuzione, da parte del proprietario dei vani terranei, di ” opere di scavo occorrenti per provvedere alla pavimentazione a regola d’arte dei vani stessi, in quanto tali opere non pregiudicano la funzione del sottosuolo rispetto all’edificio, che è, principalmente, quella di sostenere l’edificio e, secondariamente, di installarvi tubi e canali, né alterano l’equilibrio giuridico ed economico della comunione “(Cass. n. 1323/1967).  Altresì, in tempi più recenti, la Suprema Corte ha ritenuto valida l’escavazione del sottosuolo effettuata da parte di un condomino ” per collegare con una scala le unità immobiliari al piano terreno con quelle poste al seminterrato, tutte di sua proprietà esclusiva ” poiché non considerata appropriazione del bene comune, né limitazione dell’uso e del godimento cui lo stesso è destinato (Cass. n. 5546/1999), mentre i giudici di merito hanno considerato legittima una “modesta escavazione” affermando nello specifico che ” pur essendo interdetto al singolo condomino di effettuare opere nel sottosuolo tali da compromettere il diritto degli altri condomini di servirsi di esso e di trarne le utilità che questo è, per sua natura e destinazione, capace di offrire, tuttavia è legittima una modesta escavazione che, mentre da un lato consente una migliore utilizzazione delle cose proprie e di quelle comuni da parte del singolo, non pregiudica il pari diritto di tutti gli altri partecipanti “. (Trib. Milano, 06071989). Ad ogni modo, si può affermare che secondo la prevalente giurisprudenza, al proprietario esclusivo del piano più basso, ovunque sia collocato (interrato, seminterrato o al livello del piano di campagna) è inibito effettuare senza il consenso unanime di tutti i condomini o di un titolo di proprietà esclusiva del sottosuolo, qualsiasi scavo o ampliamento per un maggiore godimento della sua unità immobiliare, poiché qualsiasi opera sotto l’edificio, ” con l’attrarre la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, viene a ledere il diritto di proprietà dei condomini su una parte comune “, in palese violazione dell’art. 1102 c.c. (Cass. n. 17141/2006; n. 8119/2004; n.6587/1986).

Le fondazioni

Le fondazioni sono costituite da tutte le opere poste nel sottosuolo destinate ad elevare e sostenere l’intero edificio . Come il suolo, e salvo patto contrario, anch’esse quali parti necessarie per la stabilità della struttura condominiale sono di proprietà comune e come tali, pertanto, soggette ai criteri di ripartizione delle spese stabiliti dall’art. 1123, 1° comma, c.c.

A volte, però, le loro particolari caratteristiche costruttive fanno sorgere problemi circa l’esatta qualificazione, per cui se è pacifico che fanno parte delle fondazioni gli scavi, le opere di consolidamento, di sostegno e i terrapieni , per quanto concerne, ad esempio, le intercapedini e i vespai si è reso necessario più volte l’intervento della giurisprudenza per stabilire se fare rientrare tali beni all’interno dell’elencazione di cui all’art. 1117 c.c., sulla base della loro attitudine oggettiva al godimento comune e della concreta destinazione degli stessi al servizio comune, con le conseguenti ricadute sull’ammissibilità di determinati usi e della realizzazione di opere da parte dei condomini e la pedissequa applicazione dei criteri di cui all’art. 1123 c.c. in ordine alla ripartizione delle spese .

Le intercapedini

Per intercapedini si intendono di regola le ” zone di rispetto ” tra diversi edifici aventi la doppia finalità di contemperare gli interessi contrapposti di proprietari vicini (nel rispetto dei limiti delle distanze fra costruzioni nell’ambito dei rapporti di vicinato) e di soddisfare esigenze di igiene e sicurezza pubblica, poiché aventi la funzione di far circolare aria e luce ed evitare umidità e infiltrazioni d’acqua a vantaggio sia dei piani interrati che delle fondamenta e dei pilastri, parti necessarie per l’esistenza dell’intero edificio condominiale.

Deve, pertanto, considerarsi comune l’intercapedine (o le parti di fondazioni interessanti il sottosuolo del fondo del vicino confinante) ricadente su terreno adiacente, di proprietà altrui , che conserva la sua qualifica di bene comune dell’edificio cui è destinata, quale parte essenziale e non autonoma delle fondazioni dello stesso.

Analogamente, salvo che il titolo contrattuale non disponga diversamente, poiché devono considerarsi beni comuni anche tutti quelli assimilabili alle parti espressamente indicate nell’art. 1117 c.c., in relazione alla destinazione al comune godimento o al servizio della proprietà esclusiva, la giurisprudenza ritiene comune (e, pertanto, assoggettata ai criteri proporzionali stabiliti dal 1°comma dell’art. 1123 c.c. per la ripartizione delle spese necessarie per la sua conservazione e godimento) l’intercapedine esistente tra pilastri e terreno adiacente, quando la stessa non ha alcuna autonomia funzionale o strutturale ma è parte delle fondazioni che, a causa della conformazione del fabbricato, non si esauriscono nella porzione interamente sotterrata del pilastro ma comprendono, necessariamente, anche quella parte chefuoriesce per via dell’andamento del terreno (Cass. n. 946/2013).

I vespai

Una delle questioni più controverse, invece, è l’inclusione o meno nell’ambito dei beni comuni dei c.d. ” vespai “.

Tali manufatti consistono nel riempimento (a nido d’ape con terra di riporto;con pietrame; a camera d’aria; ecc.) dello spazio esistente tra le fondamenta dell’edificio e i piani terranei , con la finalità di preservare i locali condominiali dall’umidità e dalle infiltrazioni provenienti dal sottosuolo.

Il problema della qualifica dei vespai quali beni comuni oppure oggetti di proprietà del condomino proprietario dell’appartamento posto al piano terra, in mancanza di titoli specifici, assume rilevanza, soprattutto laddove essi non assolvano alla loro funzione, risultino danneggiati o addirittura vadano realizzati ex novo, costringendo, pertanto, il condominio ad affrontare notevoli spese per le opere di manutenzione o per la realizzazione di tali strutture.

In merito, per lungo tempo la giurisprudenza ha sostenuto che i vespai non rientrano nell’ambito dei beni comuni ex art. 1117 c.c., bensì costituiscono manufatti ben distinti dalle fondazioni e al servizio esclusivo dell’unità immobiliare al piano terreno e poggiante sul suolo comune (Cass. n. 8119/2004; n. 6357/1993). Tuttavia, l’indirizzo giurisprudenziale più recente , di legittimità e di merito, rintracciando la funzione precipua del vespaio nella ” conservazione delle strutture portantidell’intero edificio ” e solo in via complementare nell’utilità apportata al pavimento del pianterreno (Trib. Palermo 14.2.2011) sostiene che ” l’intercapedine esistente tra il piano di posa delle fondazioni, costituente il suolo dell’edificio, e la superficie del piano terra, se non risulta diversamente dai titoli di acquisto delle singole proprietà, appartiene come parte comune, a tutti i condomini ex art. 1117 codice civile , in quanto destinata all’aerazione e alla coibentazione del fabbricato ” (Cass. n. 2157/2012; Cass. n. 3854/2008) ovvero destinata ” ad evitare umidità ed infiltrazioni d’acqua sia a vantaggio dei piani interrati o seminterrati sia a vantaggio delle fondamenta dei pilastri, che sono parti necessarie per l’esistenza di tutto il fabbricato ” (Cass. n. 4391/1996), per cui le spese necessarie per la manutenzione o la realizzazione dei vespai vanno ripartite tra tutti i condomini in proporzione ai valori millesimali delle proprietà individuali.

Vani tecnici e ispettivi

Anche il vano tecnico che ospita le fondamenta di un edificio , salva l’esistenza di un titolo specifico che ne attesti l’uso a vantaggio esclusivo di un’unità abitativa, va considerato di proprietà comune a tutti i condomini (Trib. Cagliari 20.9.2000). Analogamente, rientrano nella categoria dei beni comuni anche quelle porzioni di suolo che interessano le fondazioni poichè destinate all’ispezione delle stesse o delle condotte fognarie, per cui va considerato illegittimo il vano ottenuto da uno dei condomini e adibito a cantina nell’area sottostante l’appartamento di sua proprietà, poiché trattasi di bene comune ” in quanto interessante le fondazioni e comunque destinato al comune godimento dei condomini, quale sede ispezionabile delle stesse fondazioni e delle fognature ” (Tar calabria Catanzaro, 1133/2008; Cass. n.8304/2003; n. 8346/1998).

Le fondazioni nei condomini a più edifici

Altra problematica, sempre più frequente nelle nuove costruzioni condominiali, costituite da più edifici, riguarda l’ unicità o meno delle fondazioni comportando conseguenze anche in ordine alla loro qualifica di bene comune
ed alla ripartizione delle relative spese.

In particolare, quando il condominio è composto da più edifici fisicamente separati, autonomi e funzionali tra loro, poggianti su fondazioni differenti , e solo le fondamenta di uno dei ” lotti ” vengono interessate da opere di manutenzione e/o rifacimento, si pone il problema se anche i condomini degli edifici non interessati debbano partecipare alla ripartizione delle spese condominiali. In sostanza, la questione è riconducibile all’ unitarietà o meno del condominio , in presenza di differenti corpi di fabbricato (come, adesempio, avviene negli schemi del condominio unico ” o del” supercondominio “).

Per la giurisprudenza, l’ edificio va considerato in maniera unitaria e dunque con l’individuazione di tutte le fondazioni quali parti comuni, quando, sebbene diviso in più lotti, sia caratterizzato da elementi comuni a tutti i condomini (ad esempio, ascensore; unico atrio di ingresso; continuità di corridoi; giunti di dilatazione; ecc.) e la presenza di “fondazioni differenti” èda imputare non alla diversa proprietà degli immobili bensì ad esigenze di ordine tecnico, ovvero alla particolare tipologia costruttiva adoperata infunzione alla composizione e alla qualità del sottosuolo (Cass. n.13262/2012).


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Alessandro Pagliuca

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