Le pratiche commerciali scorrette nei settori regolati, con particolare riferimento ai rapporti tra l’AGCM e le Autorità di settore

Le pratiche commerciali scorrette nei settori regolati, con particolare riferimento ai rapporti tra l’AGCM e le Autorità di settore

Sommario: 1. Introduzione: cosa si intende per “pratiche commerciali scorrette” – 2. Le pratiche commerciali scorrette ingannevoli o aggressive – 3. Le c.d. black lists di pratiche considerate in ogni caso scorrette – 4. La tutela dei consumatori e l’AGCM – 5. Rapporti tra l’AGCM e le altre Autorità di settore – 5.1. Primo intervento legislativo: l’art. 19 Cod. Cons – 5.2. Le pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2012 – 5.3. Secondo intervento legislativo: l’art. 23, comma 12-quinquiesdecies, D.L. n. 95/2012 – 5.4. Dubbi di compatibilità con la normativa comunitaria – 5.5. Terzo intervento legislativo: l’articolo 27, co. 1-bis, Cod. Cons – 5.6. Parziale superamento dell’orientamento sostenuto dalle precedenti sentenze da parte dell’Adunanza Plenaria del 2016 – 6. Considerazioni finali critiche

 

1. Introduzione: cosa si intende per “pratiche commerciali scorrette”

Le pratiche commerciali scorrette poste in essere da un professionista ai danni del consumatore sono disciplinate dal Codice del consumo.

Esse, più precisamente, trovano una definizione all’art. 20 Cod. Cons., ai sensi del quale “una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta”.

Dunque, una pratica commerciale scorretta deve, al tempo stesso, possedere due caratteristiche. Anzitutto, deve essere contraria alla diligenza professionale, cioè al normale grado di competenze specifiche ed attenzione che i consumatori possono ragionevolmente attendersi nei loro confronti, nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza.

In secondo luogo, deve essere falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio di riferimento, cioè di una persona normalmente informata e ragionevolmente attenta ed avveduta.

In altri termini, la condotta commerciale tenuta dal professionista, in violazione della diligenza professionale, è “scorretta”, quando ha la potenzialità di influenzare il comportamento economico del consumatore medio, spingendolo ad assumere decisioni commerciali che, altrimenti, non avrebbe preso, in violazione del principio di utilità marginale, in forza del quale il consumatore deve essere messo nelle condizioni di potere esprimere le proprie reali preferenze al contratto.

Come è evidente, il bene tutelato dalla norma in esame è la libertà di autodeterminazione del consumatore e di assumere delle decisioni di contenuto economico consapevoli.

2. Le pratiche commerciali scorrette ingannevoli o aggressive

Dopo aver fornito la predetta definizione generica, il legislatore statuisce, altresì, che le pratiche commerciali scorrette possono essere ingannevoli ed aggressive.

Va sin da subito, tuttavia, evidenziato che tale precisazione non intende esaurire la categoria delle pratiche commerciali scorrette nelle sole due tipologie appena citate.

In linea teorica, infatti, le pratiche commerciali possono essere scorrette anche senza essere ingannevoli o aggressive.

Ciò lo si ricava dal fatto che il legislatore, quando parla delle “pratiche commerciali scorrette”, afferma che “in particolare” sono tali quelle ingannevoli ed aggressive.

Ebbene, le pratiche commerciali ingannevoli determinano una conoscenza distorta degli elementi determinanti ai fini della decisione di natura commerciale.

Più precisamente, ai senti dell’art. 21 Cod. Cons. è considerata ingannevole “una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio”.

La norma fa riferimento alla carenza informativa ingannevole, che consiste nel dare informazioni non vere o veritiere ma presentate in maniera scorretta, così portando il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che, altrimenti, non avrebbe preso, in violazione del principio di utilità marginale.

In tal modo, la stessa definizione di pratica commerciale scorretta si ricollega al tema della “trasparenza contrattuale” e della “tutela del diritto all’informazione del consumatore”.

La norma successiva, ossia l’art. 22 Cod. Cons., si occupa dell’omissione ingannevole, che si risolve anch’essa in una pratica commerciale scorretta (sub specie, ingannevole), consistente nella omissione di informazioni rilevanti al consumatore.

L’omissione di informazioni rilevanti può anche non incidere sulla validità del contratto, ma comunque dare luogo ad una pratica commerciale ingannevole.

Alle pratiche commerciali aggressive fa invece riferimento l’art. 24 Cod. Cons., che statuisce che “è considerata aggressiva una pratica che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.

Le pratiche commerciali aggressive, dunque, ledono la libertà del consumatore attraverso l’esercizio di pressioni indebite.

3. Le c.d. black lists di pratiche considerate in ogni caso scorrette

Gli artt. 23 e 26 Cod. Cons. prevedono poi due «liste nere» (c.d. black lists) di pratiche considerate “in ogni caso scorrette”, in base ad una presunzione assoluta che non ammette prova contraria.

Si tratta di un elenco di pratiche il cui disvalore trova fondamento in un giudizio prognostico del legislatore, che prescinde da ogni apprezzamento circa la sussistenza dei requisiti previsti per la valutazione generale di scorrettezza, di ingannevolezza e di aggressività.

Sono, ad esempio, considerate “in ogni caso pratiche ingannevoli”: invitare all’acquisto di un prodotto ad un determinato prezzo e successivamente rifiutare di mostrarlo, di ordinarlo o di consegnarlo entro un periodo ragionevole; affermare che il bene sarà disponibile solo per un periodo molto limitato o solo a condizioni particolari, in modo da privare i consumatori della possibilità o del tempo necessario ed ottenere una decisione immediata.

Sono, invece, considerate “in ogni caso pratiche aggressive”: effettuare ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o altro mezzo di comunicazione a distanza, al di fuori dei casi previsti dalla legge; omettere sistematicamente di rispondere alla corrispondenza, al fine di dissuadere un consumatore dall’esercizio dei suoi diritti contrattuali.

4. La tutela dei consumatori e l’AGCM

Gli operatori che commettono pratiche commerciali scorrette sono soggetti alle sanzioni irrogate dall’AGCM, ossia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, oltre che essere esposti a possibili azioni risarcitorie da parte dei consumatori.

Quella in esame è, anzitutto, una tutela amministrativa-sanzionatoria, per cui è sufficiente che la pratica sia tale da influenzare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo ad assumere decisioni commerciali che altrimenti non avrebbe preso.

Se poi tale pratica commerciale scorretta ha in effetti inciso in concreto sul consumatore, la stessa può dare luogo ad una serie di rimedi civilistici, come l’annullamento del contratto per vizi del consenso (violenza, nel caso di pratiche commerciali aggressive, e dolo, in quelle ingannevoli), o all’eventuale nullità di protezione, allorché si tratti della violazione di un obbligo informativo, oltre che al risarcimento dei danni.

Ebbene, l’AGCM, in quanto Autorità preposta alla tutela della concorrenza, ha certamente tra i suoi compiti quello di tutelare il consumatore.

Ed infatti, la lesione dei diritti del consumatore altera indirettamente il regolare svolgimento del mercato secondo una logica concorrenziale.

V’è, dunque, uno stretto legame tra la tutela del mercato e della concorrenza e quella del consumatore.

L’Antitrust svolge una funzione trasversale e non limitata ad un singolo e specifico settore, con poteri di controllo e sanzione.

Nello specifico, essa si occupa di verificare il rispetto delle regole poste a tutela della concorrenza da parte degli operatori economici, accertando eventuali pratiche commerciali scorrette, contrarie al criterio della diligenza professionale, che hanno come effetto quello di alterare la libera scelta del consumatore.

In secondo luogo, laddove la medesima accerti la sussistenza di siffatte pratiche, ha il potere di reprimerle e sanzionarle, sia a livello micro (di tutela del consumatore) che macro (divieto di intese anticoncorrenziali, abuso della posizione dominante).

Più nel dettaglio, in materia di tutela amministrativa del consumatore, l’art. 37-bis Cod. Cons. prevede due poteri dell’Autorità Antitrust, di cui uno è preventivo e l’altro repressivo.

Il potere preventivo si risolve nella possibilità per i professionisti interessati di chiedere all’Antitrust di accertare preventivamente la non vessatorietà di clausole inserite in condizioni generali di contratto (cioè clausole che il professionista adotta o che le associazioni di professionisti consigliano di adottare ai propri associati per disciplinare in maniera uniforme una pluralità di rapporti contrattuali).

La ratio è quella di evitare che quelle condizioni siano poi oggetto di contestazione successiva.

Questo accertamento preventivo impedisce, infatti, di esercitare il potere repressivo.

In forza del potere repressivo, accertata la vessatorietà, l’Antitrust può ordinare al professionista di rimuovere la clausola dalle sue condizioni generali.

La contestazione successiva, dunque, delle clausole che non hanno superato il vaglio di non vessatorietà si risolve in un onere di rimozione.

È poi possibile anche una sorta di sanzione reputazionale, nel senso che si può imporre al professionista di pubblicare la clausola accertata come vessatoria nel proprio sito, pena altrimenti l’applicazione di una sanzione pecuniaria.

In tal modo, si impone al professionista di diffondere l’accertamento di vessatorietà compiuto dall’Antitrust, così da renderne edotto il consumatore.

Tuttavia, se nonostante la pubblicazione, la clausola viene comunque mantenuta nel contratto, viene meno la possibilità di applicare la predetta sanzione pecuniaria.

Pertanto, è piuttosto evidente che a venire in rilievo è una tutela assai limitata, che non preclude la diversa valutazione nei rapporti individuali da parte del giudice ordinario, in ordine alla vessatorietà della clausola.

5. Rapporti tra l’AGCM e le altre Autorità di settore

Ciò premesso, occorre comprendere quali siano i rapporti intercorrenti tra l’AGCM, avente funzioni di controllo e sanzionatorie, e le altre Autorità di settore (come la Consob, la Banca d’Italia, l’Agcom), le quali, invece, sono chiamate a disciplinare e regolare il proprio settore di riferimento.

Si tratta, nello specifico, di settori nevralgici, caratterizzati da fenomeni di liberalizzazione, e concernenti quei mercati il cui assetto concorrenziale è piuttosto debole.

Lo scopo, dunque, dell’Autorità regolatoria è quello di assicurare, nel proprio settore di competenza, l’interesse generale alla legalità, ossia al rispetto delle regole necessarie per garantire il corretto funzionamento della concorrenza.

Dopo avere fissato le regole, le Autorità di settore vigilano sul rispetto delle stesse e, laddove dovessero accertare la loro violazione, sanzionano i soggetti interessati.

Anche in tal caso è svolta un’attività paragiurisdizionale, in quanto ad essere presidiato è l’interesse pubblico al rispetto della legge, senza il compimento di alcuna valutazione di opportunità.

Ebbene, è evidente che la convivenza tra l’Antitrust, che garantisce una concorrenza trasversale, e le Autorità settoriali, che spesso hanno, oltre che compiti di regolazione, anche poteri sanzionatori, può porre il problema del concorso di competenze e di poteri.

Tale questione si è posta specificamente proprio con riguardo al consumatore rispetto alle pratiche commerciali scorrette.

Quando in un determinato settore regolato viene posta in essere una pratica commerciale scorretta, che è al contempo violativa sia del divieto di cui all’art. 20 Cod. Cons., sia dei Regolamenti di settore, occorre stabilire di chi è la competenza a sanzionare la medesima ed in base a quale disciplina.

Si pensi al caso in cui l’Autorità di settore (quale ad esempio l’Agcom) ponga delle regole a tutela del consumatore (telefonia), la cui violazione viene dalla stessa sanzionata, e che l’Antitrust però sostenga che quella violazione si risolva in una pratica commerciale scorretta o aggressiva, che la stessa ha il compito di reprime e sanzionare.

In tal caso, v’è il rischio del bis in idem, ossia che uno stesso comportamento venga sanzionato due volte, sia dall’Antitrust che dall’Autorità di settore; rischio questo che è, tra l’altro, aggravato dal fatto che siffatte sanzioni vengono sempre più considerate avanti natura penale.

La Corte EDU con le sentenze Menarini vs Italia del 2011 (con riferimento all’Antitrust) e Grande Stevens vs Italia del 2014 (con riguardo alla Consob) ha, infatti, affermato che, alla luce dei criteri Engel, le sanzioni irrogate dalle Authorities sono formalmente amministrative, ma sostanzialmente penali e, pertanto, sono irrogate in violazione dell’art. 6 CEDU sull’equo processo.

Esse, invero, non offrono gli standard di garanzia e imparzialità propri degli organi giurisdizionali e non sussiste una netta separazione sostanziale tra il soggetto che svolge le funzioni istruttorie-accusatorie e quello con funzioni decisorie-sanzionatorie.

Tuttavia, la Corte EDU ha aggiunto che, con riferimento all’irrogazione di tali sanzioni, è possibile una sanatoria, nell’ipotesi in cui il giusto processo venga compensato e recuperato a valle, attribuendo al destinatario della sanzione sostanzialmente penale – irrogata senza la garanzia del rispetto del giusto processo – la facoltà di adire un organo giurisdizionale, indipendente e imparziale, che, in pubblica udienza e nel rispetto di tutte le garanzie dell’equo processo ex art. 6 CEDU, possa esercitare un sindacato di piena giurisdizione (c.d. full jurisdiction), così che possa valutare, punto per punto (point by point), ogni questione di fatto e di diritto che è stata controversa nel procedimento sanzionatorio.

5.1 Primo intervento legislativo: l’art. 19 Cod. Cons

Il legislatore, originariamente, aveva dettato, all’art. 19 Cod. Cons., il criterio secondo cui anche nei settori regolati dovesse intervenire l’Antitrust e trovare applicazione la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette o aggressive, che è figlia di una normativa comunitaria.

Dunque, la disciplina sulle pratiche amministrative scorrette si applicava anche nel caso in cui, nel settore di riferimento, vi fosse stata una specifica regolamentazione.

La sola eccezione era quella in cui vi fosse un contrasto della regolamentazione di settore di derivazione comunitaria con la disciplina generale sulla tutela del consumatore (e quindi sulle pratiche amministrative scorrette).

In tal caso, infatti, prevaleva la norma speciale contrastante, purché fosse di derivazione comunitaria.

5.2. Le pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2012

La questione si è, tuttavia, complicata a seguito delle pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2012 (sentt. nn. 11, 12, 13, 14, 15 e 16 del maggio 2012), con le quali è stato previsto che il conflitto tra la norma speciale e quella generale dovesse essere risolto sì applicando il principio di specialità, riferito però non alle singole norme, ma ai settori.

In sostanza, non si trattava di verificare quale norma fosse speciale rispetto all’altra, ma di capire se il settore speciale regolamentato prevalesse o meno ex se, per la sua esaustività e completezza, anche dal punto di vista dell’apparato sanzionatorio, sulla disciplina generale.

In base al principio di specialità per settori, quando la pratica commerciale scorretta veniva posta in essere in un settore regolato, si applicava non già la disciplina consumeristica generale con intervento dell’AGCM, bensì la normativa del settore specifico e speciale, con operatività dell’Autorità di settore (quale ad esempio, la Banca d’Italia, la Consob, l’Agcom).

In tale ottica, essendo l’AGCM titolare di una funzione generale e trasversale, nei settori regolati in cui veniva commessa una pratica commerciale scorretta, era sempre prevalente l’Autorità di settore, con la conseguenza che la disciplina generale consumeristica sulle pratiche commerciali scorrette non trovava pressoché mai applicazione.

Il Supremo Collegio aveva, comunque, sostenuto la tesi della specialità per settori, proprio al fine di evitare l’inconveniente del bis in idem.

Ed invero, il principio di specialità, che normalmente è riferito alle norme, presuppone che una di esse possa considerarsi speciale rispetto ad un’altra, se contiene tutti gli elementi di quest’ultima, con l’aggiunta di un elemento specializzante.

Esso, pertanto, non opera allorquando ciascuna delle due norme, oltre ad avere un nucleo di elementi in comune, contiene rispetto all’altra un elemento aggiuntivo individualizzante.

In questo caso, non essendovi una norma speciale rispetto all’altra, si devono applicare entrambe, con il rischio del bis in idem[1].

Ecco allora che l’Adunanza Plenaria, per superare questo inconveniente, aveva affermato che il principio di specialità andasse riferito ai settori.

5.3. Secondo intervento legislativo: l’art. 23, comma 12-quinquiesdecies, D.L. n. 95/2012

Il legislatore è, in seguito, intervenuto  nuovamente sulla questione, approvando una norma di legge (ossia l’art. 23, comma 12-quinquiesdecies, D.L. n. 95/2012) che, di fatto, si è limitata a fissare a livello normativo i criteri di riparto già identificati dall’Adunanza Plenaria, circoscrivendo il perimetro di competenza dell’AGCM “escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra Autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati”.

5.4. Dubbi di compatibilità con la normativa comunitaria

Tale disciplina ha sollevato non poche perplessità, soprattutto di compatibilità con la normativa comunitaria.

La stessa, infatti, portava di fatto ad escludere, nei vari settori, la normativa comunitaria generale sulle pratiche commerciali scorrette, con conseguente rischio che fosse vanificata la tutela dei consumatori.

Era possibile, invero, paventare un vuoto di tutela ai danni di questi ultimi, derivate dal fatto che la disciplina settoriale dell’Autorità di regolazione non sempre è completa, esaustiva, autosufficiente ed in grado di assicurare lo stesso risultato di quella consumeristica.

Il 16 ottobre 2013, la Commissione Europea ha, dunque, trasmesso al Governo Italiano una lettera di messa in mora in merito ai citati interventi legislativi e giurisprudenziali, sottolineando come essi fossero basati su un’interpretazione del criterio di specialità che non consentiva una corretta attuazione della Dir. 2005/29/CE.

In questa lettera, dopo avere esaminato i requisiti in presenza dei quali le disposizioni settoriali possono essere considerati prevalenti sulla normativa in materia di pratiche commerciali scorrette, la Commissione Europea aveva rilevato che “le norme dell’UE applicabili al settore delle comunicazioni elettroniche, come recepite in Italia, non regolano in modo esaustivo le pratiche commerciali sleali in questo settore”, con il conseguente rischio di un vuoto di tutela in relazione alle condotte realizzate nel settore delle telecomunicazioni.

Proprio per questa ragione, si è concluso che, anche nei settori regolati, non potesse non trovare applicazione la disciplina dettata dal Codice del consumo, che recepisce la direttiva sulle pratiche commerciali scorrette, con conseguente competenza dell’AGCM.

5.5. Terzo intervento legislativo: l’articolo 27, co. 1-bis, Cod. Cons

A seguito di ciò, il legislatore nazionale, per evitare la procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, si è adeguato alla disciplina comunitaria.

Con l’introduzione dell’articolo 27, co. 1-bis, Cod. Cons., ad opera del D.lgs. n. 21/2014, ha espressamente regolato il rapporto di competenze tra l’Autorità Antitrust e le Autorità di regolazione.

Nello specifico la norma, a proposito della tutela, ha previsto che “anche nei settori regolati, ai sensi dell’art. 19 co. 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta […] spetta in via esclusiva all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che la esercita acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente”.

Quindi, è previsto un accordo procedimentale tra le Autorità in questione, sebbene, comunque, la competenza ad intervenire spetti sempre ed in via esclusiva all’AGCM.

Ancora, l’art. 27, co. 1-bis, Cod. Cons. prosegue statuendo che “resta ferma la competenza dell’Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta”.

Ciò sembrerebbe voler significare che, se una condotta integra una pratica commerciale scorretta ed al contempo viola anche una norma settoriale (c.d. doppio divieto), interverrà la sola AGCM, in base alla disciplina completa, esaustiva e autosufficiente del Codice del Consumo.

Non possono, invece, agire anche le altre Autorità di settore, in ragione del principio del “ne bis in idem”, salvo l’intervento esclusivo di queste ultime, laddove vengano in rilievo degli aspetti specifici propri dei settori regolati.

In definitiva, il potere sanzionatorio dell’Autorità di regolazione permane laddove vengano violate norme settoriali che descrivono fattispecie che non si risolvono in pratiche commerciali scorrette. Esso viene, invece, assorbito da quello dell’AGCM, se la condotta integra “anche” una pratica commerciale scorretta, che è sanzionabile da quest’ultima, salva, però, l’ipotesi in cui vengano in rilievo degli aspetti specifici propri dei settori regolati.

5.6. Parziale superamento dell’orientamento sostenuto dalle precedenti sentenze da parte dell’Adunanza Plenaria del 2016

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (con le sentt. del 9 febbraio 2016, nn. 3-4), compiendo un passo indietro rispetto al passato, ha stabilito che il principio di specialità nel riparto di competenze deve essere applicato a fattispecie concrete e non per settori.

In tal modo, l’AGCM è stata ritenuta competente nell’ordinamento nazionale a sanzionare, in base alla disciplina completa, esaustiva e auto-sufficiente del Codice del consumo, le pratiche commerciali scorrette compiute anche nei settori regolati, salvo che vengano in rilievo degli aspetti specifici propri di questi ultimi.

La Suprema Corte ha precisato, inoltre, che l’intervento con cui legislatore ha superato la precedente giurisprudenza per evitare la procedura di infrazione avesse natura retroattiva e, dunque, il criterio risolutivo fosse la specialità non per settori, ma per disposizioni.

6. Considerazioni finali critiche

In realtà, a ben vedere, l’articolo 27, co. 1-bis, Cod. Cons. si apre facendo salva la competenza dell’autorità Antitrust in presenza di pratiche commerciali scorrette.

Ciò sembra confermare che più che una specialità per disposizioni a venire in rilievo sia il principio di sussidiarietà.

Ed infatti, laddove si ha una condotta che rappresenta una pratica commerciale scorretta che si verifica mediante un comportamento specificamente individuato dalla normativa di settore, se vi fosse il rapporto di specialità, dovrebbe applicarsi quest’ultima.

Invece, il legislatore ha previsto che la normativa di settore trovi applicazione solo laddove la condotta non integri, altresì, una pratica commerciale scorretta, in tal modo reputando la stessa sussidiaria rispetto a quella consumeristica.

Più precisamente, da questa disciplina sembra emergere il criterio dell’assorbimento, dal momento che la norma generale che vieta una pratica commerciale scorretta assorbe quella speciale che proibisce una determinata condotta (come, ad esempio, l’attivazione dei servizi a pagamento senza consenso).

Ulteriore conferma di quanto esposto si ricava dalle precisazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla nozione di “contrasto” di cui all’art. 19, co. 3, Cod. Cons.

L’art. 27, co. 1-bis, Cod. Cons., infatti, richiamava l’art. 19, co. 3, Cod. Cons., ai sensi del quale in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”.

Questa norma aveva dato adito a dei dubbi interpretativi, nella misura in cui prevede che, se c’è un contrasto tra la norma generale sulla pratica commerciale scorretta e una norma settoriale che disciplina aspetti specifici della stessa, prevale quest’ultima, limitatamente a tali profili.

Si era posto, quindi, il problema di comprendere quando si potesse parlare di “contrasto”.

In un primo momento, la giurisprudenza nazionale aveva ritenuto che il “contrasto”, da intendersi quale “difformità”, si configurasse ogni volta che le norme, sebbene procedenti verso la stessa direzione di vietare una determinata condotta, fossero comunque diverse, facendo l’una un generico riferimento alle pratiche commerciali scorrette e l’altra ad uno specifico comportamento (cioè l’attivazione dei servizi telefonici a pagamento).

In senso contrario, si è, tuttavia, pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (13 settembre 2018, cause riunite C-54/17 e C-55/17), la quale, in sede di rinvio pregiudiziale, ha chiarito che la nozione di “contrasto” debba riferirsi ad una situazione di conflitto nella quale l’obbligo oggetto della norma speciale sia non solo difforme, ma del tutto incompatibile con quello di cui alla norma generale in materia di pratiche commerciali scorrette.

Il “contrasto”, pertanto, va inteso non come mera difformità, ma come “incompatibilità”, la quale sussiste allorché vi sia una norma che vieta una determinata condotta e un’altra che la permette o finanche la impone.

A volte, potrebbe accadere che certe condotte facoltizzate o, addirittura, rese doverose dalla normativa di settore, integrino una pratica commerciale scorretta.

In tal caso, è evidente che non si può sanzionare chi si è conformato ad una norma settoriale che regola un aspetto specifico, che contrasta – nel senso che è incompatibile – con le norme in materia di pratiche commerciali scorrette.

Di conseguenza, laddove vi sia incompatibilità tra norma generale e norma settoriale, deve prevalere quest’ultima, sempre che sia di derivazione comunitaria.

In conclusione, l’art. 19, co. 3, Cod. Cons. ha lo scopo di escludere che il soggetto possa essere sanzionato per condotte facoltizzate o imposte dalla normativa di settore, fermo restando – per il resto – la prevalenza, in ragione del principio di assorbimento, della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e della competenza, anche nei settori regolati, dell’Antitrust.

Ebbene, benché l’Adunanza Plenaria del 2016 faccia riferimento ad un principio di specialità tra disposizioni, in realtà, dall’art. 27, co. 1-bis Cod. Cons., alla luce delle precisazioni della Corte di giustizia sulla nozione di “contrasto”, sembra evincersi che il concorso tra norme sia regolato dal principio di sussidiarietà/assorbimento.

Se una stessa condotta integra al tempo stesso una pratica commerciale scorretta e una violazione della normativa di settore, il primo illecito “assorbe” il secondo (e la competenza ad irrogare la sanzione è dell’AGCM).

La formula “Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta”, dovrebbe essere interpretata nel senso che le violazioni della regolazione si applicano “salvo che il fatto costituisca una pratica commerciale scorretta” (il che conferma l’operatività del principio di assorbimento).

Nel caso in cui la condotta si risolva nella violazione delle norme di settore, senza integrare una pratica commerciale scorretta, rimane ferma la competenza dell’Agcom.

Nel caso in cui una condotta imposta dalla normativa di settore (di derivazione comunitaria) integra una pratica commerciale scorretta, ricorre il caso di “contrasto” di cui all’art. 19, co. 3, e il professionista non può essere sanzionato.

Nel caso il professionista abbia osservato puntualmente la regolazione di settore, la sua condotta non può essere considerata “negligente”: non è possibile, quindi, contestargli la pratica commerciale scorretta. Questo, come si ricava dai lavori preparatori, è il significato dell’inciso “fermo restando il rispetto della regolazione vigente”.

È come se ci fosse una sorta di scriminante che impedisce che quella condotta conforme alla disciplina di settore possa essere sanzionata alla stregua di una pratica commerciale scorretta.

 

 

 

 

 


[1] Es. L’attivazione dei servizi a pagamento è punita ex se dalla normativa di settore, e dunque in quanto tale, anche se non lede e non altera la libertà di scelta del consumatore.
È possibile, tuttavia, che tale condotta costituisca una pratica commerciale scorretta.
In tal caso, si è in presenza di due norme che non sono legate da un rapporto di specialità, ma v’è una interferenza, con la conseguenza che vanno applicate entrambe.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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