Le ragioni storiche e politico – criminali  a fondamento della legittima difesa

Le ragioni storiche e politico – criminali a fondamento della legittima difesa

Attualmente, la dottrina penalistica è quasi unanimamente d’accordo nel ritenere la legittima difesa quale forma di autotutela penale: essa permette al singolo individuo, che riceve un’offesa, di reagire in modo diretto e immediato.

Pertanto, essa costituisce una vera e propria deroga al più generale principio che vieta l’autotutela.

Alla luce di siffatta deroga, dunque, il privato cittadino che subisce una qualsiasi forma di aggressione violenta, diretta a cagionare un danno alla propria sfera giuridica, può reagire immediatamente senza adire l’autorità competente, sia essa amministrativa o giudiziaria.

L’intervento dell’autorità statale diviene successivo ed eventuale.

Questa impostazione si basa su molteplici considerazioni, che occorre prendere in considerazione proprio al fine di comprendere le ragioni storiche della legittima difesa.

Il divieto di autotutela, soprattutto all’interno del diritto penale, è stato – da sempre – concepito quale strumento essenziale volto a tutelate i diritti fondamentali della persona (soprattutto il reo): l’autorità giurisdizionale è, così, garante della giustizia, intesa in senso squisitamente “sostanziale”.

In secondo luogo, occorre ricordare che quasi tutti gli ordinamenti moderni si fondono sull’idea dello “Stato di Diritto” e ripudiano l’idea della vendetta, quale strumento per risolvere le controversie.

Questa visione trova conforto anche nella concezione italiana della sanzione penale: essa non viene vista come mezzo per colpire il reo, ma è ispirata alla rieducazione, ossia alla necessità di ripristinare nella persona del reo quei valori che ha violato attraverso la propria condotta[1].

Proprio l’idea della rieducazione reca con sé tutta una serie di principi che sono tipici degli ordinamenti moderni: basti pensare al principio di legalità o di colpevolezza.

Tuttavia, se oggi la legittima difesa appare una deroga al più generale divieto di autotutela, nel corso del tempo essa è stata concepita e qualificata in modo assai diverso.

Le varie interpretazioni che si sono susseguite risentono non solo del modo di intendere il diritto penale nel suo complesso, ma anche del rapporto tra diritti dell’individuo e potere pubblico.

Alla luce di questa coordinata, è possibile analizzare il fondamento storico e politico-criminale della legittima difesa.

Nella cultura greca, il filosofo Platone – nelle sue Leggi – aveva affermato che la difesa individuale rappresentava una “sorta di diritto naturale”, volto a assicurare una immediata protezione a quei valori che erano ritenuti fondamentali, quali ad esempio la libertà sessuale e la proprietà privata.

L’idea della legittima difesa quale diritto naturale era stata, poi, ripresa anche all’interno del mondo romano, sebbene in questo nuovo contesto aveva assunto sfumature diverse, che avevano portato ad ampliarne l’ambito di applicazione.

Difatti, la reazione difensiva poteva essere posta in essere a tutela dei familiari, del patrimonio o del pudore dell’aggredito.

Questa concezione ampia trovava il proprio fondamento in due elementi tipici del sistema giuridico/sociale romano: l’idea della famiglia e la visione rei-centrica del mondo.

Per il mondo romano, la famiglia, infatti, costituiva la cellula base della società e il motore dell’intero sistema economico: l’aggressione a un membro della famiglia non solo avrebbe comportato la reazione divina, ma giustificava anche la reazione umana dell’aggressore, volta a “ripristinare” l’onta subita e a ripagarne il prezzo della perdita.

La visione rei-centrica che ispirava l’esperienza giuridica romana trovava il proprio conforto nella particolare concezione dello schiavo – considerato non quale essere umano, bensì quale res – e nella tutela forte alla proprietà privata.

Esempio di questa tutela forte è il complesso meccanismo di circolazione dei beni, che richiedevano spesso formule solenni (mancipatio), soprattutto per quei beni considerati di maggior valore economico sociale[2].

Questo, tuttavia, non significava che la legittima difesa non fosse suscettibile ad alcun limite. Difatti, ai fini della sua realizzazione, era necessario che l’aggressione fosse attuale e ingiusta e che la reazione fosse inevitabile, se non con l’ulteriore uso della violenza.

Pertanto, due erano i principi che governavano l’intera materia. Il primo era espresso dal detto “vim vi repellere”, attraverso cui si legittimava l’uso della forza; il secondo espresso nel brocardo “moderarem inculpatae tutelae”, attraverso cui si richiedeva una primissima forma di proporzionalità all’offesa ricevuta[3].

L’idea della legittima difesa quale “diritto soggettivo” di reagire, tuttavia, è venuta meno nei secoli successivi, lasciando spazio alla tesi della “concessione” da parte dell’autorità statale.

Tale idea trovava il proprio fondamento all’interno delle prime comunità, di origine barbariche, in cui non vi erano dei veri e propri organi in grado di assicurare in modo forte la pacifica convivenza tra i suoi stessi membri.

Anzi, in questo contesto, particolarmente diffuso era il sistema delle faide familiari[4] e la giustizia sfociava, spesso, nella vendetta.

A fronte, dunque, dell’impossibilità di offrire una piena e immediata tutela all’aggredito, si attribuiva per concessione la possibilità di agire alla violenza subita.

La legittima difesa, dunque, rappresentava uno strumento per sopperire alle mancanze dello “Stato”[5].

Tale impostazione, pertanto, traeva fondamento dalla necessità di assicurare la protezione dei diritti ritenuti fondamentali e nella particolare organizzazione istituzionale di queste popolazioni.

Difatti, mancava un vero e proprio sistemato punitivo capace di accertare il fatto e di comminare la sanzione adeguata. Le pene, inoltre, rispondevano all’idea della cosiddetta spettacolarizzazione, ossia venivano irrogate pubblicamente e risultavano “eccessive” rispetto alla gravità del fatto commesso.

Questo sistema era ritenuto necessario al fine di provocare un effetto deterrente negli altri consociati. Proprio per tale ragione, spesso, si preferivano incidere sanzioni corporali in quanto ritenute più idonee a smuovere psicologicamente le masse.

Ciò permetteva l’uso della difesa violenta anche in presenza di offese non serie e soltanto potenziali o future[6].

L’idea della difesa legittima quale concessione ha trovato ampio spazio anche nel diritto canonico.
Anche in questo contesto, difatti, sebbene ispirato dalla ricerca “divina” della verità, grande spazio avevano le sanzioni corporali e l’uso “giustificato” della violenza.

La legittima difesa, dunque, era del tutto compatibile con il quadro giuridico-teologico ivi esistente: in presenza di una azione violenta, era possibile reagire dinnanzi a questa, provocando addirittura la morte dell’aggredito.

L’unico requisito richiesto ai fini del suo esercizio era l’ingiustizia dell’azione violenta.
Si finiva in questo modo per estendere l’ambito di applicazione della legittima difesa, in quanto non si riteneva necessario alcun giudizio di proporzionalità.

Rispetto al passato, l’unica differenza riguardava il fondamento di questa concessione: nelle prime comunità laiche era il Sovrano; nel diritto canonico tale concessione derivava direttamente da “Dio”.

Addirittura, qualora dalla difesa ne fosse derivata la morte dell’aggredito, si riteneva questa quale giusta punizione per aver tentato di violare un diritto attribuito dalla stessa divinità (Dio), ossia la vita, l’integrità o il benessere dell’aggredito.

In questo modo, inoltre, si aderiva pienamente all’idea della spettacolarizzazione della punizione: tramite la morte dell’aggressore, dunque, si scoraggiavano i consociati dall’intraprendere ulteriori aggressioni violente.

Esse, infatti, erano considerate lesive non solo dell’ordine sociale ma soprattutto dell’ordine divino. Per tale ragione dovevano essere scoraggiate, impedite e contrastate, anche attraverso mezzi drastici.

Tuttavia, anche in questo contesto erano stati individuati dei limiti all’uso della legittima difesa.

Difatti, essa non poteva assolutamente configurarsi per la difesa dei condannati, degli eretici o dei nemici della Chiesa; nei casi di violenza esercitata dai figli contro genitori o precettori. Questa esclusione veniva giustificata con l’esigenza di rispettare l’ordine realizzato dalla autorità religiosa e la somma legge morale consacrata nei tesi sacri[7].

Soltanto nei secoli successivi era apparsa la necessità di individuare ulteriori limiti alla legittima difesa. Tale esigenza si era affermata a causa del dilagare della violenza e a causa delle numerose strumentalizzazioni dell’istituto.

Alla luce di ciò, erano stati ripresi i concetti di necessitas evitabilis e inevitabilis.

La difesa era ritenuta evitabile quando l’offesa poteva essere impedita attraverso una risposta non violenta, ossia attraverso l’uso di altri strumenti messi comunque a disposizione dall’ordinamento giuridico.

Si parlava, invece, di difesa inevitabile quando la risposta violenta dell’aggredito rappresentava l’unico strumento e l’unico modo per scongiurare una lesione ingiusta.

Questi due principi hanno portato con sé, quale corollario, l’idea di un minum di proporzionalità: occorre, ciò, valutare l’azione violenza con la reazione e verificare che tra le due vi fosse un nesso di necessità e proporzionalità.

Tuttavia, occorre precisare che questa primigenia forma di proporzionalità si atteggiava in maniera ben diversa da quella oggi codificata nell’art.52 c.p.

Difatti, se oggi dottrina e giurisprudenza prevalente riferiscono la proporzionalità ai beni giuridici coinvolti nel caso concreto, in passato con questo concetto si faceva riferimento alla “forza” utilizzata, ossia alle modalità di azione e reazione.

Questo assunto trova conferma nel fatto che in passato la legittima difesa poteva essere esercitata a tutela di un eterogeno gruppo di beni giuridici: patrimonio, proprio o altrui, ma solo nel caso in cui l’offesa implicava un pregiudizio alla incolumità personale o nel caso in cui era diretta a beni di particolare valore; soggetti terzi, qualora la lesione integrasse un attacco alla persona.

La tesi della legittima difesa quale concessione proveniente dall’ alto (a prescindere dall’adesione alla concezione laica o teologica), tuttavia, è stata ampiamente superata nel corso del tempo grazie all’evoluzione delle strutture statali.

Difatti, già con la creazione dei primi grandi “Regni”, erano state create le prime forme di istituzioni “complesse”, in grado di amministrare la giustizia in modo più presente, anche attraverso forme di controllo diffuse capillarmente nel territorio.

In questo nuovo e diverso contesto storico-sociale, la legittima reazione all’offesa ingiusta era vista quale principale strumento volto a garantire l’ordine e la pacifica convivenza. Difatti, la forza pubblica si assume il compito di assicurare la pacifica convivenza e la sicurezza esterna dei membri della comunità.

Ne risultavano, difatti, affievoliti i limiti previsti all’interno dell’antico diritto romano.

Tale superamento ha portato alla tesi della legittima difesa quale strumento di tutela dei diritti naturali della persona.

Pertanto, si era sentita l’esigenza di disciplinare in maniera più rigorosa la legittima difesa[8].

Questo aveva spinto a riscoprire l’antico diritto romano, il quale aveva ben regolato la legittima difesa individuandone sia i principi che i limiti.

Esempio dell’attenzione al mondo romano è, senza dubbio, la Consituziones Augustales di Federico II, emanata nel 1231.

In questo modo, sono stati ripresi alcuni concetti fondamentali della legittima difesa, trasfusi anche nell’attuale ordinamento giuridico: l’idea della attualità dell’offesa; l’ingiustizia del danno provocato; l’idea della necessità dell’azione difensiva e della proporzionalità della stessa.

Parte della dottrina ha individuato tre ordini di ragioni che sembrano giustificare la nuova attenzione rivolta al diritto romano.

Per prima cosa, la più complessa struttura organizzativa e istituzionale dei vari “Stati”, i quali cominciano a dotarsi di strutture proprie, volte a realizzare compiti di polizia (interna ed esterna.

Nondimeno importante è stata la creazione di una primissima forma di “diritto comune”, grazie all’attenzione dei primi grandi giuristi.

Infine, la sostituzione della visione rei-centrica con una visione antropocentrica, che ha gettato le basi per il giusnaturalismo e illuminismo giuridico.

L’insieme di questi tre fattori ha permesso, a partire dal XVI sec., lo sviluppo della cosiddetta “concezione liberale del diritto penale[9].

Essa affondava le proprie radici intorno a due concetti, quello di laicizzazione e di secolarizzazione del diritto penale. Laicizzazione, in quanto si sentiva l’esigenza di distinguere tra l’area del penalmente rilevante e i risvolti religiosi del peccato. Secolarizzazione, in quanto si avvertiva l’esigenza di svuotare il diritto penale da tutte quelle riflessioni contingenti, legate alle tradizioni storiche o popolari, i cosiddetti “capricci del legislatore”, ancorandolo, invece, alla ragione e ai diritti naturali da intendere quali entità preesistenti all’ordine sociale e al diritto positivo[10].

Esempi di questa nuova concezione sono stati il Codice Toscano del 1953 e il Codice Sardo del 1859.

All’interno del Codice Toscano, la legittima difesa veniva disciplinata dell’art. 559; nel codice Sardo nell’art. 560.

Le due formulazioni, sebbene si esprimessero in termini leggermente differenti, riprendevano in maniera esclusiva l’idea del “moderamen inculpatae tutelae“, tipica del diritto romano.

In entrambe le disposizioni, infatti, si avvertiva la necessità di regolare l’uso della forza legittima, individuandone limiti chiari e precisi.

Questi limiti devono essere individuati nei concetti di necessità, attualità, difesa altrui, difesa di sé stessi[11].

Queste esperienze giuridiche hanno costituito da base per il primo codice unitario, ossia il Codice Zanardelli del 1889 e, in particolare, l’art. 49.

In questo nuovo contesto, il modo di intendere la difesa legittima oscillava tra l’interpretazione fornita dalla Scuola Classica e quella fornita dalla Scuola Positiva.

Francesco Carrara[12], massimo esponente della prima corrente di pensiero, intendeva la difesa legittima quale utile strumento in mano al privato, da utilizzare ogni volta che lo Stato non fosse stato in grado di fornire una tutela rapida e immediata all’aggressione da parte del reo.

Questa tesi traeva il proprio fondamento nel principio di sussidiarietà, secondo cui la pubblica autorità permetteva ai cittadini di partecipare in modo attivo alla soddisfazione dei bisogni essenziali della società stessa, tra cui il bisogno di protezione.

La risposta difensiva del privato, dunque, rappresentava uno degli strumenti atti a garantire l’ordine sociale.

Questo, però, non significava escludere automaticamente il ruolo dello Stato: l’autorità pubblica interveniva ex post, anche verificando la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge al fine della corretta applicazione della scriminante in questione.

Diversamente, i sostenitori della Scuola Positiva[13], consideravano la difesa legittima quale “strumento di profilassi sociale”: esso rappresentava un ulteriore strumento volto al contrasto dei soggetti ritenuti socialmente pericolosi.

Intesa in quest’ottica, la legittima difesa diventava uno strumento di repressione e prevenzione generale.

In questo modo, tuttavia, se ne ampliava l’ambito di applicazione: l’aggredito poteva reagire a forme di aggressione rivolte non solo verso la persona, ma anche verso beni di carattere materiale.

Le considerazioni svolte dalle due grandi scuole di pensiero hanno spinto parte della dottrina, agli inizi del nuovo secolo, a distinguere tra mezzi mediati e mezzi immediati di reazione[14].

Si parlava di mezzi mediati per intendere la cultura, l’educazione, il benessere popolare: strumenti che dovevano essere attivati dallo Stato, attraverso una politica economica e sociale generalizzata, volta alla promozione dell’evoluzione dell’individuo e, quindi, della società stessa.

Invece, si parlava di mezzi immediati, per intendere tutti gli strumenti di lotta al crimine, siano essi pubblici che privati.

All’interno di questo contesto, i mezzi privati dovrebbero essere individuati da opportune norme giuridiche che, pur permettendo di reagire direttamente e immediatamente all’offesa subita, ne individuino i presupposti e i limiti.

Questa distinzione porterebbe con sé una conseguenza di grande importanza: si permetterebbe al privato di partecipare in modo attivo alla sicurezza della società, alla tutela dei propri beni e dei propri diritti, si imporrebbe una riflessione – non solo giuridica ma anche morale – sulla necessità di agire mediante la forza, seppur legittima.

Fondamento di questa nuova concezione, dunque, non è solo il principio di sussidiarietà, ma soprattutto quello di auto-responsabilità[15].

Questa impostazione deriva da un rapporto tutto nuovo tra cittadino e Stato: svincolatosi da una visione teologica o moraleggiante, l’individuo è considerato quale soggetto ben consapevole dei valori sociali e delle norme penali; è libero di scegliere quale condotta tenere e, eventualmente, delle conseguenze giuridiche a cui andrà incontro in caso di trasgressione dei precetti dell’ordinamento.

Per queste ragioni egli è chiamato ad agire in modo attivo nella società e a contribuire ai suoi bisogni: l’azione umana, tuttavia, non è più guidata da un potere altro e alto, ma dalla coscienza e volontà, dalla consapevolezza e, quindi, dal richiamo alle proprie responsabilità.

 

 

 

 


[1] MATTARELLA G.B., Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, in Relazione al 53° convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 2007, pp. 13-20.
[2] Cfr. CORBINO A., Istituzioni di diritto romano, Cedam, 2019.
[3] BELLINI F., La legittima difesa, Giappichelli, 2006, pp. 43.
[4] P. ALVAZZI DEL FRATE – M. CAVINA- FERRANTE R.- SARTI N. – SOLIMANO S. – SPECIALE G., R., Tempi del diritto. Età medievale, moderna e contemporanea, Torino, Giappichelli 2016.
[5] MANZINI V., Trattato di diritto penale, vol. II, Utet, 1981, pp. 374.
[6] Ibidem.
[7] MANZINI V., I libri penitenziali e il diritto penale medievale, in Atti del R. Istituto veneto di scienza, lett. e art., 1925.
[8] PARADISI R., Il diritto negato. Alle origini della legittima difesa: l’eterno conflitto tra Antigone e Creonte, Giappichelli, 2019.
[9] MANZINI V., Trattato di diritto penale, vol. II, Utet, 1981, pp. 376.
[10] FIANDACA R. – MUSCO E., Diritto penale parte Generale, Giuffrè, 2014, pp. 19 – 21, introduzione.
[11] SICILIANO D., Al privato onesto un’arma legittima. Una genealogia della legittima difesa del patrimonio nel sistema giuridico italiano, in Questione Giustizia, 2019.
[12] CARRARA F., Diritto della difesa pubblica e privata (Propulsione al Corso accademico dell’anno 1859-1860), in Opuscoli di diritto criminale del prof. Francesco Carrara, Ed IV, Vol. I, Prato, 1885, pp.105.
[13] Cfr. FIORETTI G., Su la legittima difesa, studio di criminologia dell’avvocato Giulio Fioretti, Torino, 1886, p.8.
[14] MANZINI V., La politica criminale e il problema della lotta contro la delinquenza e la malavita, In Riv. Penale, LXXIII, 1991, p. 5 ss.
[15] Cfr. BATTAGLINI G., Il pericolo d’offesa nella legittima difesa, in Studi e giudicati illustrativi del Codice penale italiano, pubblicati sotto la direzione di Luigi Lucchini, Vol. XX, Torino, 1911, pp. 147.

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Veronica Schirripa

Dott.ssa Veronica SchirripaLaureata presso l'Università degli studi di Catania nel 2018 con Tesi sperimentale in diritto penale “Il reato di Tortura tra fonti sovrannazionali e diritto interno" (relatrice: Prof. Rosaria Sicurella). Durante il percorso accademico, la grande passione per i diritti umani e il diritto internazionale l'ha spinta a partecipare ad uno stage al palazzo delle Nazioni Unite (New York) in occasione del CWMUN 2016, organizzato dall'associazione Diplomatici, nella qualità di delegate as Namibia; ad assistere nel 2017 alle discussioni del Parlamento Europeo sul tema della lotta alla criminalità e agli hate speeches. Ha frequentato la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali e Forensi di Catania “A. Galati", conseguendo il Diploma nel 2020 con tesi di Diritto Civile “Gli obblighi del sanitario" (Relatore: prof Giovanni Di Rosa). Durante il percorso post-accademico ha svolto un periodo di stage presso la Procura Generale della Repubblica, presso la sede di Catania. Abilitata all'esercizio della professione forense. Svolge l'attività di consulente presso lo Studio Di Paola & Partners.

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