Le regole dibattimentali sulla formazione della prova si estendono anche al procedimento di esecuzione e sorveglianza

Le regole dibattimentali sulla formazione della prova si estendono anche al procedimento di esecuzione e sorveglianza

La questione in esame trae spunto dall’ordinanza emessa in data 28 luglio 2015 dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze con la quale veniva respinta l’impugnazione proposta da un soggetto internato in ospedale psichiatrico giudiziario avverso il provvedimento di proroga della misura di sicurezza emessa dal Magistrato di Sorveglianza di Firenze il 19 novembre 2014.

Il soggetto ricoverato in O.P.G. veniva ritenuto non imputabile per vizio totale di mente dalla Corte di Assise di Firenze con sentenza emessa in data 7 giugno 2000 per l’omicidio commesso in danno della madre. Conseguentemente, l’infermo di mente veniva sottoposto a misura di sicurezza, con ricovero in O.P.G., con diagnosi di disturbo schizofrenico di tipo paranoide cronico.

In data 19 novembre 2014 il Magistrato di Sorveglianza di Firenze prorogava la misura di sicurezza in atto sino al 18 novembre del 2015 in virtù di valutazione di permanenza della pericolosità sociale. In tale procedimento veniva disposta e realizzata una perizia psichiatrica.

In secondo grado, innanzi al Tribunale di Sorveglianza, veniva rinnovata la perizia, con affidamento dell’incarico ad un diverso esperto.

Invero, durante il procedimento di secondo grado, veniva nominato dal Tribunale un perito il quale confermava la diagnosi di schizofrenia paranoide del soggetto sottoposto alla misura di sicurezza e, conseguentemente, veniva confermata la sussistenza della pericolosità sociale, con indicazione di necessaria prosecuzione del trattamento in struttura chiusa (REMS ad alta sicurezza).

Il perito nominato dal Tribunale in secondo grado depositava relazione scritta ma non veniva escusso in udienza. A fronte di una richiesta di rinvio formulata dalla difesa dell’internato allo scopo di chiedere chiarimenti al perito, il Tribunale osservava che il contraddittorio era stato assicurato in sede di svolgimento della perizia ed in rapporto alla presenza, in tal sede, del consulente di parte. La relazione peritale, poi, veniva depositata venti giorni prima dell’udienza e, pertanto, ben avrebbe potuto la difesa argomentare per iscritto eventuali contestazioni tali da far emergere la necessità di escussione del perito.

Il Tribunale, quindi, valutando la complessiva condotta tenuta dall’internato durante la sottoposizione a misura di sicurezza e visti gli esiti peritali, confermava il provvedimento di proroga del ricovero in ospedale giudiziario psichiatrico.

Il caso offre l’occasione per approfondire un procedimento, quello di sorveglianza, poco trattato in sede scientifica e che rappresenta, invece, il momento ove più intensamente si avverte l’esigenza di difesa, specialmente quando si verte in tema di misure di sicurezza detentive, come quella «segregante e totale»[1] del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario ovvero del ricovero in casa di cura e di custodia.

La specificità di queste misure di sicurezza risiede, ovviamente, nella circostanza che esse sono previste nei confronti di persone che, per essere gravemente infermi di mente, non sono in alcun modo penalmente responsabili, e dunque non possono essere destinatari di misure aventi un contenuto anche solo parzialmente punitivo. La loro qualità di infermi richiede misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici. D’altra parte la pericolosità sociale di tali persone, manifestatasi nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato, e valutata prognosticamente in occasione ed in vista delle decisioni giudiziarie conseguenti, richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli. Le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, ed in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente ad entrambe queste finalità, collegate e non scindibili, di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile.

Di più, le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente: e pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario ovvero quella del ricovero in casa di cura e custodia si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell’infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze.

È noto che gli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture che a metà degli anni ‘70 avevano sostituito i manicomi criminali, hanno cessato di esistere il 31 marzo 2015, secondo quanto stabilito dalla L. 30 maggio 2014, n. 81.

Nel tempo, la Corte Costituzionale si è trovata più volte di fronte a questioni volte o ad un intento meramente caducatorio, il cui accoglimento avrebbe condotto ad un vuoto di tutela, o più spesso a richiedere la introduzione di una nuova disciplina di creazione giurisprudenziale, non ancorata a contenuti normativi già esistenti: così che essa si è indotta a pronunciarne la infondatezza, o più spesso la inammissibilità, vuoi perché non disponeva degli strumenti necessari per intervenire nel senso indicato, vuoi perché le questioni prospettavano profili di fattuale inadeguatezza delle strutture di ricovero più che di inadeguatezza delle previsioni normative[2].

È, tuttavia, significativo che in più occasioni la Corte abbia avvertito l’esigenza di indicare, là dove era possibile, soluzioni pratiche adeguate[3], e soprattutto di esprimere la propria valutazione circa il «non soddisfacente trattamento riservato all’infermità psichica grave ( … ) specie quando è incompatibile con l’unico tipo di struttura custodiale oggi prevista»[4], nonché circa l’opportunità di una «attenta revisione» dell’intera disciplina in questione, «sia alla stregua dei dubbi avanzati intorno all’istituto stesso dell’ospedale psichiatrico giudiziario, sia alla stregua di una valutazione relativa all’adeguatezza di tale istituzione in relazione ai mutamenti introdotti sin dalle leggi 13 maggio 1978, n. 180 e 23 dicembre 1978, n. 833 per il trattamento dei soggetti totalmente infermi di mente»[5].

Solo nei confronti dei minori infermi di mente, la Corte ha potuto giungere alla caducazione della norma che anche nei loro riguardi prevedeva il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, facendo leva sulla necessità costituzionale di un trattamento differenziato dei soggetti minorenni[6].

Non può, invero, ignorarsi come, per effetto di ripetute pronunce della Corte Costituzionale[7], è principio ormai consolidato quello dell’esclusione di ogni automatismo nell’applicazione delle misure di sicurezza a carattere detentivo, «quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, accompagnata da prescrizioni stabilite dal giudice medesimo, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata». Tale principio, già affermato con la sentenza n. 253 del 2003 della Corte Costituzionale in relazione alla misura di sicurezza del ricovero nell’ospedale psichiatrico giudiziario, di cui all’art. 222 c.p., è stato espressamente richiamato dal Giudice delle leggi, con la sentenza n. 208 del 2009, con riferimento all’applicazione del ricovero in caso di cura e di custodia di cui all’art. 219 c.p..

Al riguardo, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 253 del 2003, che ha dichiarato l’illegittimità costituzione dell’art. 222 c.p., nella parte in cui non consente al giudice, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente ed a far fronte alla sua pericolosità sociale, aveva, in motivazione censurato «il vincolo rigido imposto al giudice di disporre comunque la misura detentiva (tale è il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario ex art. 215 c.p., comma 1, n. 3) anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, che è accompagnata da prescrizioni imposte dal giudice di contenuto non tipizzato (e quindi anche con valenza terapeutica), “idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati” (art. 228 c.p., comma 2), appaia capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale».

L’automatismo nell’applicazione di una misura di sicurezza totalizzante imposto pur quando in concreto la stessa misura di sicurezza appaia inadeguata, viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona, nella specie del «diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione», ed ha concluso affermando la necessità «di eliminare l’accennato automatismo, consentendo che, pur nell’ambito dell’attuale sistema, il giudice possa adottare, fra le misure che l’ordinamento prevede, quella che in concreto appaia idonea a soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona, da un lato, di controllo e contenimento della sua pericolosità sociale dall’altro lato». Il principio enunciato di divieto di automatismo che caratterizzava l’applicazione della misura di sicurezza ex art. 222 c.p., è stato ribadito nella sentenza n. 367 del 2004 della Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 206 c.p., nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge, idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate ed a contenere la sua pericolosità sociale e con la sentenza n. 208 del 2009 nella quale i Giudici delle leggi hanno esteso il principio del divieto di automatismo anche con riferimento alla misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e di custodia che è, a sua volta, misura di sicurezza detentiva e quindi segregante (art. 215 c.p., comma 2, n. 2), evidenziando, anche in questo caso, la violazione del principio di ragionevolezza e del diritto alla salute come svolte, in particolare, nella sentenza n. 253 del 2003, in assenza di differenze significative tra le due misure di sicurezza detentive, e richiamando il rilievo della dottrina della sostanziale identità concettuale tra vizio totale e vizio parziale di mente, il cui unico elemento differenziatore consiste nella diversa incidenza quantitativa esercitata sulla capacità d’intendere e di volere, esclusa nel caso di cui all’art. 88 c.p., e soltanto diminuita nel caso di cui all’art. 89 c.p..

Sulla scia dei principi affermati dal giudice delle leggi, si è inserito il percorso di superamento delle strutture O.P.G. che, avviato sin dal 2008, si è concluso nel 2014[8].

Alla luce della disciplina, ora il giudice deve disporre nei confronti del seminfermo di mente e dell’infermo di mente anche in via provvisoria, una misura di sicurezza diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia; si ricorre alle misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia solo se le altre misure non sono adeguate a far fronte alla pericolosità sociale del reo e sono applicate in strutture di esclusiva gestione sanitaria; la pericolosità sociale va accertata in base alle qualità soggettive della persona e non in base alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo (art. 133 c.p., comma 2, n. 4); dal 1 aprile 2015 le misure di sicurezza del ricovero in O.P.G. e dell’assegnazione a casa di cura e custodia saranno eseguite presso strutture residenziali socio-sanitarie denominate Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems), come previsto dall’art. 3-ter – Disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari nel D.L. n. 211 del 2011, relativo a interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri.

Infine, quanto ai presupposti applicativi, è una misura stabilita per gli autori di delitto non colposo, condannati ad una pena diminuita a causa dell’infermità psichica o della cronica intossicazione derivante da alcool o da sostanze stupefacenti oppure affetti da sordomutismo. La durata minima varia da sei mesi e tre anni e viene eseguita dopo che la pena detentiva è stata scontata o si è altrimenti estinta.

Tanto chiarito in ordine alla specificità degli istituti in rilievo, va ricostruito il modello procedimentale applicabile al caso in esame.

In primo grado il procedimento innanzi al Magistrato di Sorveglianza, in tema di misure di sicurezza, è regolamentato ai sensi dell’art. 666 c.p.p., norma espressamente richiamata dall’art. 678 c.p.p., comma 1.

Avverso la decisione del Magistrato di Sorveglianza in tema di misure di sicurezza ed in deroga a quanto previsto – in via generale – dall’art. 666 c.p.p., comma 6 (ricorribilità per cassazione) è dato appello nel merito, ai sensi dell’art. 680 c.p.p..

Tale articolo, al comma 3, espressamente prevede che si osservano le disposizioni generali sulle impugnazioni, ma l’appello non ha effetto sospensivo.

Ora, è del tutto evidente – anche in rapporto al nomen juris utilizzato – che la volontà del legislatore è quella di fornire un doppio grado di giurisdizione di merito in relazione al tema della applicazione e della proroga delle misure di sicurezza personali, posto che le stesse incidono su diritti della persona costituzionalmente garantiti e richiedono la ricostruzione di elementi di fatto oltre al conforto di conoscenze specialistiche.

In tale quadro, nulla autorizza a ritenere “derogabile” il diritto della parte privata sottoposta alla misura di sicurezza di ottenere la convocazione in udienza del perito – nominato dal giudice – al fine di realizzare l’esame dello stesso in contraddittorio.

Detto esame, peraltro, va ritenuto necessario in via generale anche in rapporto al principio di immediatezza essendo la perizia un mezzo di prova teso ad orientare il giudicante con l’apporto di conoscenze specialistiche.

Va, quindi, subito rilevato che la tesi esposta dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze per cui l’escussione del perito in tale tipologia di procedimenti andrebbe ricollegata all’esercizio di un potere discrezionale non appare ad una prima lettura in linea con la volontà del legislatore e con i principi contenuti nell’art. 111 Cost..

Sull’argomento si rinvengono sparute sentenze della Corte di Cassazione ed anche di segno contrario. Infatti, secondo un primo orientamento[9], non si applicano al procedimento di sorveglianza le regole che presiedono alla formazione della prova nel dibattimento penale.

Tuttavia, se è vero, da un lato, che in tale tipologia di procedimenti (concernenti le misure di sicurezza) non è in gioco la ricostruzione della responsabilità penale è altrettanto evidente, dall’altro, che l’incidenza delle valutazioni da compiersi sulla libertà personale rende necessaria l’adozione di idonee garanzie metodologiche nella raccolta della prova, ferma restando la utilizzabilità degli atti raccolti in via unilaterale dalla parte pubblica (procedimento che può, dunque, assimilarsi al rito abbreviato con integrazione probatoria).

Del resto, in tema di perizia, è stato affermato – in una non recente pronunzia – dalla Suprema Corte di Cassazione[10] che anche in sede di esecuzione e sorveglianza va garantito il rispetto del contraddittorio durante l’espletamento della perizia e, dunque, va garantito l’esercizio concreto dei poteri difensivi.

Infatti, il diritto dei difensori di assistere «alle perizie» era espressamente previsto dall’art. 304-bis del codice di procedura penale previgente e includeva indubbiamente la facoltà di presenziare a tutte le operazioni del perito[11], nel corso delle quali potevano formulare a verbale istanze, osservazioni e riserve. La stessa facoltà era riconosciuta ai consulenti di parte ai sensi dell’art. 324 c.p.p.

Il codice di procedura penale del 1988, mentre contiene analoga e più dettagliata previsione per i consulenti di parte («possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini» – art. 230, co. 2) non menziona direttamente ed esplicitamente i difensori.

Non sarebbe tuttavia conforme ai principi ispiratori del nuovo codice concluderne che il Legislatore del 1988 abbia ritenuto sufficientemente garantita la difesa nel corso delle operazioni del perito dalla sola, eventuale presenza del consulente di parte. Anzitutto, di tale non irrilevante innovazione non v’è traccia nei lavori preparatori; ad essa ostano ragioni sistematiche, in quanto il consulente integra, e non sostituisce la difesa tecnica, immanente in ogni fase del procedimento, quando occorrono specifiche competenze scientifiche, artistiche o tecnologiche (né, in caso di mancata nomina fiduciaria, è prevista per i consulenti, diversamente da quanto avviene per il difensore, una obbligatoria prestazione dell’assistenza su designazione d’ufficio).

In realtà, la mancata menzione delle facoltà difensive in corso di perizia deve ritenersi legata ai caratteri di oralità e almeno tendenziale immediatezza (cfr. art. 227 c.p.p.) che caratterizzano nel nuovo processo tale mezzo di prova, di regola assunto nel giudizio alla presenza delle parti.

Del resto, nei casi in cui prima del dibattimento vengono espletate indagini tecniche destinate ad essere in esso utilizzate, la facoltà del difensore di assistere alle operazioni è espressamente menzionata: cfr. l’art. 360, co. 3, riguardo agli accertamenti non ripetibili del P.M. e arg. ex art. 403 c.p.p. nel caso di perizia assunta nell’incidente probatorio.

Ne segue che, nel giudizio di cognizione, l’esclusione del difensore che abbia richiesto di partecipare alle operazioni peritali dà luogo, indipendentemente dalla presenza o meno dei consulenti di parte, a nullità di ordine generale attinente all’assistenza dell’imputato. Tale conclusione va estesa al patrocinio dell’interessato nei procedimenti di esecuzione e sorveglianza, nei quali, se l’espletamento della perizia non è soggetto a particolari formalità (art. 185 delle norme di attuazione) deve pur sempre essere garantito il rispetto del contraddittorio e dei connessi poteri difensivi (art. 666, co. 5, c.p.p.[12]).

Pertanto, a fronte della precisa volontà del difensore (privo di consulente), manifestata nel senso di partecipare alle operazioni peritali, anche se di natura medico-legale, il giudice deve provvedere (pena la nullità della perizia espletata) ad assicurare alla difesa dell’imputato, con gli opportuni provvedimenti, l’estrinsecazione del suo pieno diritto, il quale non può certo essere qualitativamente inferiore al «potere di richiesta, osservazione e riserva» che l’art. 230 c.p.p., comma 2 attribuisce al consulente tecnico di parte, che partecipi e sia presente alle attività del perito indicate nell’art. 228 c.p.p..

Solo di recente la Cassazione[13] ha ripreso tale non recente orientamento, all’uopo ritenendo di limitare «anche in rapporto all’oggetto del procedimento, la considerazione di obbligatorietà dell’ascolto del perito nei soli casi di procedimento relativo alle misure di sicurezza personali». La Suprema Corte ha, dunque, finalmente esteso l’applicazione al procedimento di sorveglianza delle regole che presiedono alla formazione della prova nel dibattimento penale.

E allora, in virtù della chiara disposizione dettata dall’art. 511 c.p.p., comma 3, in applicazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, l’acquisizione nel giudizio dibattimentale della relazione peritale, da effettuarsi mediante lettura o mediante specifica indicazione di utilizzabilità, deve essere preceduta dall’esame del perito.

Il complesso delle disposizioni dedicate all’argomento rende evidente che l’esame del perito e il suo controesame da parte della difesa costituiscono altrettanti momenti indefettibili del procedimento di formazione della prova peritale, costituente il mezzo di prova neutro, sottratto al potere dispositivo della parti, attraverso il quale il sapere tecnico-scientifico penetra nel processo, allo scopo di integrare, nell’accertamento del fatto, il patrimonio di conoscenze del giudice come uomo di comune cultura; l’esposizione orale, invero, conferisce compiutezza alla prova, la rende conforme al modello dibattimentale (che, come visto, si estende anche al procedimento di esecuzione e di sorveglianza) e legittima l’inserimento degli atti nel fascicolo per il dibattimento.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte[14], invero, l’inosservanza della citata disposizione, incidendo sull’esercizio del diritto di difesa, determina una nullità che ricade tra quelle di ordine generale a regime intermedio previste dall’art. 178 c.p.p., lett. c).

In conclusione, si può senz’altro ritenere che anche in tema di procedimento di primo e di secondo grado finalizzato alla applicazione o alla proroga di misure di sicurezza personali, lì dove sia disposta – dal Magistrato di Sorveglianza o dal Tribunale in secondo grado – una perizia, non è consentita l’acquisizione della relazione peritale se non dopo l’esame del perito, analogamente a quanto previsto dagli artt. 501 e 511 c.p.p..

Pertanto, nel procedimento in esame non poteva omettersi l’esame del perito, peraltro oggetto di specifica richiesta della parte, e ciò ha, quindi, determinato un vizio rilevante del procedimento di secondo grado per violazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c.

 


[1] cfr. Corte Costituzionale, 18 luglio 2003, n. 253

[2] cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 139 del 1982; ordinanze n. 24 del 1985; n. 111 del 1990; n. 333 del 1994; n. 396 del 1994; sentenze n. 111 del 1996 e n. 228 del 1999; ordinanza n. 88 del 2001.

[3] cfr. Corte Costituzionale, ordinanza n. 111 del 1990, relativa all’attiguo tema della misura del ricovero del seminfermo di mente in casa di cura e custodia.

[4] cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 111 del 1996.

[5] cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 228 del 1999.

[6] cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 324 del 1998.

[7] cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 208 del 2009; ordinanze nn. 226, 341 e 287 del 2008.

[8] Già il D.L. 22 dicembre 2011, n. 211, successivamente convertito in L. 17 febbraio 2012, n. 9, aveva disposto all’art. 3-ter, la chiusura delle strutture per la data del 31 marzo 2013; tale disposizione è stata poi modificata dal D.L. 31 marzo 2014, n. 52, convertito con modificazione dalla L. 30 maggio 2014, n. 81, che ha, così, modificato il D.L. 22 dicembre 2011, n. 211, art. 3-ter, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 febbraio 2012, n. 9, che ha così disposto: «1. Al D.L. 22 dicembre 2011, n. 211, art. 3-ter, comma 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 febbraio 2012, n. 9, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo periodo, le parole: «1 aprile 2014» sono sostituite dalle seguenti: «31 marzo 2015»; b) dopo il primo periodo sono aggiunti i seguenti: «Il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’art. 133 c.p., comma 2, n. 4. Allo stesso modo provvede il magistrato di sorveglianza quando interviene ai sensi dell’art. 679 c.p.p.. Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali».

[9] cfr. Cassazione penale, sez. I, 24 novembre 2010, n. 43487 secondo cui “il rispetto della procedura prevista dagli artt. 220 e seguenti c.p.p., anche nel procedimento di sorveglianza, appare conforme alle esigenze di rispetto del contraddittorio, ma non sussiste alcuna possibilità di estendere al procedimento di sorveglianza le regole che presiedono al dibattimento penale quali quella di cui all’art. 511 c.p.p., comma 3, che, prevedendo la previa audizione dei periti, risponde ad esigenze di acquisizione degli atti in sede di dibattimento”.

[10] cfr. Cassazione penale, sez. 1, 3643/1998, Rv. 211422, Tomelleri.

[11] cfr. Cassazione penale, sez. V, 11.11.1978 in Mass. 1980, 185

[12] cfr., per applicazioni del principio a casi di specie, Cassazione penale, sez. I, 21.10.1993, Ragusa; 3.4.1996, Balistrieri.

[13] cfr. Cassazione penale, sez. I, 11.10.2016, (ud. 11.10.2016, dep.15.12.2016), n. 53415.

[14] cfr. Cassazione penale, sez. 1, 19.3.2004 n. 20927, D’Anna, rv 228981; sez. 6, n. 25807 del 14/03/2014, Rv. 259200.


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Avv. Giacomo Romano

Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.

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