Le relazioni tra la forma e l’oggetto del contratto: la “forma-contenuto” nei contratti di consumo

Le relazioni tra la forma e l’oggetto del contratto: la “forma-contenuto” nei contratti di consumo

L’art. 1325, c.c. annovera, insieme all’accordo e alla causa, l’oggetto e la forma tra gli elementi essenziali del contratto, la cui mancanza, in base al disposto dell’art. 1418, c.c., ne determina la radicale nullità.

Peraltro, sebbene apparentemente afferenti a diversi aspetti, i requisiti del contratto sono, in realtà, inscindibilmente interconnessi tra loro, come dimostrato dalle più recenti tendenze normative e giurisprudenziali, anche di matrice euro-unitaria, volte ad esaltare le relazioni sussistenti anche tra elementi a prima vista molto distanti, quali la forma e l’oggetto.

Ed infatti, da un punto di vista generale, la forma è vestimentum del contratto, sua esteriorizzazione e, in quanto tale, sempre necessaria, quale esternazione della volontà interna del soggetto, che, in qualunque modalità, si fa dichiarazione. Tuttavia, in un’ottica maggiormente restrittiva, l’art. 1325, n. 4, c.c. inserisce la forma, intesa quale forma scritta, tra gli elementi essenziali del contratto soltanto quando essa sia prevista dalla legge a pena di nullità. Questo comporta, nell’ambito del generale – ma, forse, non più così effettivo – principio di libertà delle forme, la tradizionale distinzione tra forma ad substantiam, la cui sussistenza è necessaria ai fini della validità dell’atto, e forma ad probationem, prevista ai soli fini probatori, cui si aggiungono le forme convenzionali, frutto dell’autonomia negoziale dei contraenti, disciplinate dall’art. 1352, c.c.

In questa prospettiva, certamente complessa pare essere l’individuazione di un netto legame tra forma ed oggetto del contratto, che, tuttavia, sembra dipendere essenzialmente da due differenti fattori, inerenti, l’uno, l’individuazione delle differenti funzioni assolte dalla forma, l’altro, la delineazione della stessa nozione di oggetto, tutt’altro che pacifica.

Dal primo punto di vista, la giurisprudenza ha recentemente evidenziato la valenza polifunzionale del requisito formale, che può essere previsto a fini pubblicitari e di opponibilità (da cui la stretta funzionalità della forma ai fini della trascrizione), per assicurare la certezza dei rapporti giuridici (come avviene in settori particolarmente delicati qual è quello dei diritti reali), quale forma di controllo pubblico (come appare evidente nell’ambito dei contratti conclusi dalla P.A.), quale strumento, infine, volto a riequilibrare posizioni che, sia pur formalmente parificate, si rivelino, in concreto, squilibrate a danno di un contraente “sostanzialmente” debole.

E’ questo l’ambito del cd. neoformalismo comunitario, per cui il legislatore euro-unitario, al dichiarato fine di correggere i suddetti squilibri, ha inaugurato una tendenza che, contravvenendo al principio di libertà delle forme, apre le strade ad un più rigido formalismo, prevedendo, ai fini della validità, la forma scritta per una serie di contratti.

Per quanto riguarda, invece, la nozione di oggetto, la dottrina si è da sempre assestata su posizioni contrastanti, per cui, fermi i requisiti della possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità, l’oggetto del contratto è stato variamente identificato con il bene materiale, che, tuttavia, non sempre è presente, con la prestazione dedotta in contratto, sebbene possa corrersi il rischio di confondere, per questa via, oggetto del contratto ed oggetto dell’obbligazione, con il contenuto, infine, dell’accordo, quale complesso di tutti gli elementi che lo costituiscono in tutte le sue parti.

Nell’ambito del codice non emerge, in verità, una vera e propria scelta legislativa sul punto, registrandosi, per contro, di volta in volta, norme che propendono per l’una o per l’altra ricostruzione. Di conseguenza, pare più opportuno non aderire aprioristicamente ad un’impostazione a sfavore dell’altra, ma ritenere l’oggetto bene, prestazione o contenuto, in base al fine per cui esso è preso in considerazione.

Se così è, allora, emergono connessioni più profonde tra oggetto e forma, nel momento in cui, proprio nell’ottica del menzionato neoformalismo comunitario, si discorre di “forma contenuto”, di quella forma, cioè, intesa quale esplicitazione di contenuti essenziali del contratto, che devono essere palesati al fine di riequilibrare posizioni che, formalmente o sostanzialmente, nascano squilibrate.

Tuttavia, la circostanza che tale squilibrio possa o meno essere anche formale rende opportuna una distinzione preliminare di disciplina, in ragione della cd. “frammentazione del contratto”, tra contratti fra pari, contratti conclusi tra imprenditore forte ed imprenditore debole (business to business) e contratti con il consumatore (business to consumer), ciascuno generale nell’ambito della propria categoria.

Ed infatti, nel codice civile, che, come noto, si occupa della regolamentazione della contrattazione tra pari, la tematica della forma contenuto pare assumere particolare rilevanza innanzitutto con riguardo alla disciplina delle clausole vessatorie ex art. 1341, c.c., che devono necessariamente essere redatte per iscritto e specificamente approvate dal contraente da esse svantaggiato, pena la nullità parziale delle stesse, con il conseguente meccanismo di sostituzione automatica, di cui all’art. 1339, c.c.

Peraltro, un altro importante esempio di connessione tra forma ed oggetto emerge in ambito precontrattuale, dove l’art. 1338, c.c., in nome del generale principio di buona fede che deve informare tutta la fase delle trattative (art. 1337, c.c.), prevede il risarcimento del danno da parte del contraente che, conoscendo o dovendo conoscere la sussistenza di una causa di invalidità, non ne abbia dato notizia alla controparte. La tematica, evidentemente, si collega con la teoria dei vizi incompleti del contratto, che passa attraverso l’avallo normativo del dolo incidente ex art. 1440, per cui la dolosa omissione di obblighi informativi conduce al risarcimento del danno quando il contratto sarebbe stato concluso a condizioni diverse, salvo, poi, tramutarsi in vizio della volontà, causa di annullamento del contratto.

Peraltro, evidentemente, in questo settore la forma non può che essere intesa come semplice esteriorizzazione, giacché non possono configurarsi generici oneri formali nella fase precontrattuale delle trattative.

Del resto, l’impostazione sembra coerente con la tradizionale visione degli obblighi informativi – e, più in generale, della buona fede da cui essi discendono – come espressione di norme di comportamento, che non inficiano la validità dell’atto, se non diversamente (ed espressamente) previsto (cfr. SS.UU. 19/12/07 n. 26724).

Differente è la situazione quando, invece, si abbia riguardo alla contrattazione tra imprenditore forte ed imprenditore debole, la cui disciplina generale si rinviene nella l. n. 192/98 (in materia di subfornitura). L’art. 2 dalla legge citata, infatti, che già dalla rubrica evidenzia una stretta correlazione tra forma e contenuto del contratto, sancisce la forma scritta del contratto di subfornitura, che, a pena di nullità, deve contenere determinati requisiti, puntualmente elencati dal comma 5.

Peraltro, il settore dove maggiormente rileva la cd. forma contenuto è, senz’altro, quello dei contratti conclusi dal consumatore, in cui lo squilibrio ontologico tra contraenti ha indotto il legislatore ad interventi mirati, contenuti, come noto, nel codice del consumo (d.lgs. n. 206/05).

Più in particolare, già l’art. 2, 2, lett. e) del codice, inserendo tra i diritti fondamentali del consumatore quello alla trasparenza, ben si inserisce nel filone del neoformalismo comunitario, nell’esaltazione di un vero e proprio diritto all’informazione che entra formalmente nel contenuto del contratto. Ed infatti, il successivo art. 5, 2 e 3, in materia di obblighi informativi, conferma la tendenza facendo esplicito riferimento alla forma contenuto, stabilendo che l’esplicitazione di tali obblighi, non soltanto rientra nel contenuto essenziale del contratto, ma deve, altresì, essere adempiuta con particolari modalità, di tal che, per il consumatore, non ne risulti gravosa la comprensione.

Gli artt. 48 ss., poi, fanno riferimento a tutta una serie di obblighi informativi che gravano sul professionista, differenziati anche in base alla tipologia di contratto, tra cui peculiare rilievo viene conferito alla comunicazione del diritto di recesso (cd. recesso di pentimento, la cui mancata comunicazione comporta una notevole dilatazione del termine).

Peraltro, in questo quadro, di assoluta centralità è l’art. 67 septiesdecies, che, al comma 4, espressamente sancisce la nullità relativa del contratto, che solo il consumatore può far valere, qualora il professionista violi i menzionati obblighi informativi, in modo da alterare significativamente la rappresentazione del contenuto del contratto.

Tuttavia, per quanto la sanzione sia, indubbiamente, forte, appare, comunque, pienamente coerente con la citata visione tradizionale, per cui nell’ambito del codice del consumo, gli obblighi informativi assurgono a norme di validità, la cui violazione è sanzionata da una nullità a legittimazione relativa, perché a protezione del soggetto debole, tassativamente prevista.

Peraltro, la recente giurisprudenza sembra, almeno in parte, aver disatteso tale impostazione, tanto da spingere a chiedersi se sia possibile immaginare una più pregnante rilevanza della forma contenuto, oltre i limiti sinora delineati.

E’ vero, infatti, che le Sezioni Unite, nel 2015, con sent. del 17/09/15 n. 18214, in materia di contratto di locazione registrato per una somma inferiore rispetto a quella pattuita, hanno aperto la strada ad una differente visione della forma come assiologicamente orientata, per cui, in un’ottica valoriale, la determinazione della valenza della forma va effettuata in concreto, a seconda della finalità per cui la prescrizione formale è dettata. Di conseguenza, la Suprema Corte ritiene di dover differenziare tra la nullità (assoluta) di cui all’art. 1, 4, l. n. 431/98, che prescrive espressamente la forma scritta per i contratti di locazione ad validitatem, e la nullità relativa, di cui all’art. 13, 1 e 4. Quest’ultima, infatti, per come strutturata, non può che essere tale, sebbene non sia così espressamente denominata, in quanto a protezione del conduttore, parte debole del rapporto, sebbene non formalmente, ma solo sostanzialmente, realizzando una sorta di disconoscimento di tutela nei riguardi del locatore, per il suo comportamento abusivo.

Ci si è chiesti, allora, se tale impostazione possa influire sui confini entro cui ha rilievo la forma contenuto, fino a ritenere che, qualora sussistano particolari obblighi informativi, non espressamente sanciti dalla legge, ma che, in base al generale principio di buona fede, devono essere esplicitati, la relazione tra forma ed oggetto ne imponga l’esternazione, a protezione della parte che, per il concerto dipanarsi del rapporto, sia “sostanzialmente” debole, a pena di invalidità.

Certamente, le tendenze volte al neoformalismo comunitario, nel configurare un vero e proprio diritto ad essere informati sul contenuto del contratto irrigidisce enormemente il requisito formale e, con il condivisibile fine di riequilibrare posizioni squilibrate, potrebbe aprire la strada ad una generica invalidità, sub specie di nullità, evidentemente relativa, per carenza della forma contenuto.

Tuttavia, non possono non rilevarsi delle perplessità, essenzialmente date dalla necessità di conferire una coerenza sistematica alla tematica, che, nel rispetto dei principi codicistici, non può, forse, essere eccessivamente dilatata.

Sicuramente, dunque, la rilevanza della relazione tra oggetto e forma può condurre ai rimedi derivanti, in generale, dalla violazione della buona fede, come in precedenza elencati (risarcimento del danno, abuso del diritto), potendo, al più, comportare un annullamento del contratto per dolo (o per errore), al sussistere dei relativi requisiti.

Tuttavia, ritenere possibile la configurabilità di una nullità, sia essa assoluta o, a fortiori, relativa sembra azzardato, in ragione, innanzitutto, della libertà delle forme, che, per quanto ridimensionata, non può ritenersi del tutto abolita, ma, anzi, mantiene viva la sua forza; in secondo luogo, in considerazione della valenza degli obblighi informativi quali norme di comportamento; infine, in ragione della necessaria tassatività della nullità, che può essere interpretata come assoluta o relativa, ma deve, comunque, essere espressamente prevista.


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