Le scelte del legislatore italiano per il controllo del terrorismo

Le scelte del legislatore italiano per il controllo del terrorismo

La legislazione penale dell’emergenza, tra diritto penale ‘del nemico’ e diritto penale ‘di lotta’

 

La sfida del terrorismo globale ha costretto gli Stati occidentali a reagire, nel più breve tempo possibile, dinanzi ad una forma di criminalità nuova, subdola e inafferrabile. Ciò ha determinato l’adozione di scelte di politica del diritto che hanno duramente messo in discussione i principi e le garanzie da tempo riconosciuti in tali Stati, i quali hanno adottato approcci politico-criminali molto diversi tra loro.

Da un lato, infatti, i Paesi anglosassoni – Stati Uniti in testa – hanno predisposto un modello dichiaratamente ispirato ad una logica di tipo bellico, accentrando il potere di contrasto nelle mani dell’esecutivo e identificando il terrorista come combattente nemico illegale (unlawful enemy combatant), con conseguente sottrazione di costui alle garanzie operanti non solo nel diritto penale, ma anche nel diritto internazionale umanitario.[1]

Dall’altro, invece, la maggior parte delle nazioni dell’Europa continentale ha scelto di non adottare metodi e risposte tanto radicali, bensì di considerare il terrorismo internazionale di matrice islamica come un crimine comune, con la conseguenza di sottoporlo alle regole del diritto e del processo penale[2]. Tuttavia, gli strumenti normativi adottati dai Paesi europei, seppur rientranti nell’alveo del diritto penale, risultano piegati da logiche emergenziali e, dunque, sono in grado di incidere fortemente sulle garanzie e sui diritti fondamentali dell’individuo. Infatti, gli ordinamenti europei sono intervenuti «mediante il reimpiego, ed eventualmente l’adeguamento o il potenziamento di fattispecie, per lo più associative, introdotte per contrastare altre, talvolta perduranti, emergenze criminali (come fenomeni di criminalità organizzata o di terrorismo nazionale)»[3], con il risultato di proporre un modello «ibrido» di contrasto al terrorismo islamico, in quanto «non allineato sul modello ‘bellico’ americano, ma al tempo stesso caratterizzato da vistose deviazioni – in un’ottica di ‘doppio binario’ o, se si preferisce, di ‘sottosistema’ o ‘sottosistemi’ – rispetto alle ordinarie modalità di contrasto contro la criminalità ‘comune’»[4].

Per quanto concerne l’ordinamento italiano, i primi interventi ispirati a logiche emergenziali, risalenti agli anni Settanta e Ottanta (i famosi “anni di piombo”), vedono come causa scatenante il terrorismo interno che sconvolse il Paese in quegli anni[5]. In questo contesto, la prima comparsa nell’ordinamento italiano della finalità terroristica è avvenuta con l’introduzione dell’art. 289-bis c.p., «sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione», ad opera della l. n. 191/1978, che ha convertito il d.l. n. 59/1978.  Successivamente, il d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella l. 6 febbraio 1980, n. 15 ha introdotto: il delitto di «associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis c.p.), il delitto di «attentato per finalità terroristiche o di eversione» (art. 280 c.p.) e la finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico come circostanza aggravante ad effetto speciale applicabile a tutti i reati, esclusi quelli punibili con l’ergastolo (art. 1 del d.l.)[6].

Decenni dopo, i tragici fatti verificatisi a partire dal settembre 2001 hanno determinato in Italia un’intensa ripresa dell’attività normativa di contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamica. Per colmare il vuoto di tutela avvertito rispetto ad esso, si è provveduto, da un lato, a rendere esecutive le convenzioni internazionali antiterrorismo sottoscritte ma non ancora ratificate; dall’altro, a introdurre nuove norme, sostanziali o processuali, o a modificarne altre preesistenti (per lo più attraverso decreti-legge), per far fronte alle caratteristiche del ‘nuovo’ terrorismo. In tale contesto assumono rilievo i seguenti interventi normativi:

  • Il d.l. 28 settembre 2001, n. 353, convertito nella l. 27 novembre 2001, n. 415, contenente «disposizioni sanzionatorie per le violazioni delle misure adottate nei confronti della fazione afghana dei Talebani»[7];

  • Il d.l. 12 ottobre 2001, n. 369, contenente «misure urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale», convertito nella l. 14 dicembre 2001, n. 431 e, poi, parzialmente abrogato dal d. lgs. 22 giugno 2007, n. 109;

  • Il d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, diretto ad introdurre «disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale», convertito nella l. 15 dicembre 2001, n. 438, con il quale è stato riformata la fattispecie associativa di cui all’art. 270-bisp. ed introdotto il reato di «assistenza agli associati» di cui al nuovo art. 270-ter c.p.

  • La l. 14 gennaio 2003, n. 7, di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo del 1999.

  • La l. 14 febbraio 2003, n. 34, di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale per la repressione di attentati terroristici mediante utilizzo di esplosivo del 1997.

  • Il d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito in l. 31 luglio, n. 155, d’immediata reazione agli attentati di Londra del luglio 2005, che ha inserito nel codice penale, in attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo del 2005, le fattispecie di «arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale» (art. 270-quaterp.), di «addestramento ed attività con finalità di terrorismo anche internazionale» (270-quinquies c.p.) e di «condotte con finalità di terrorismo» (270-sexies c.p.).

  • Il d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito in l. 17 aprile 2015, n. 43, adottato sulla scia d’allarme suscitato dagli attentati di Parigi del 7 gennaio 2015, che ha adeguato la normativa interna alla minaccia rappresentata dai foreign fighters e dai lone wolves. Esso aggiunge un secondo comma all’art. 270-quaterp., che prevede la punibilità della «persona arruolata»; introduce un nuovo art. 270-quater.1 c.p., che incrimina l’«organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo»; estende la previsione dell’art. 270-quinquies c.p., rendendo punibile la condotta «della persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’art. 270-sexies»; introduce una circostanza aggravante per il reato di addestramento, per l’istigazione privata di cui all’art. 302 c.p. e per quella pubblica di cui all’art. 414 c.p.; introduce i reati contravvenzionali di «detenzione abusiva di precursori di esplosivi» (art. 678-bis c.p.) e le «omissioni in materia di precursori di esplosivi» (art. 679-bis c.p.).

  • La l. n. 153/2016, che ratifica una serie di trattati internazionali antiterrorismo, tra cui la Convenzione europea del 2005 e il relativo protocollo addizionale del 2005. La legge introduce i reati di «finanziamento di condotte con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.1 c.p.), di «sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro» (art. 170-quinquies.2 c.p.) e di «atti di terrorismo nucleare» (art. 280-ter).[8]

La legislazione dell’emergenza si caratterizza per l’impiego del diritto penale in un’accentuata funzione specialpreventiva e generalpreventiva di segno negativo: l’allarme sociale generato dai fatti terroristici fa sì che gli intenti di neutralizzazione del reo prevalgano sulle esigenze di tutela dei diritti e delle garanzie individuali, i quali vengono utilitaristicamente aggirati in ragione di una maggiore (pretesa) efficienza del potere punitivo[9].

Caratteristica principale del diritto penale dell’emergenza[10] è il ricorso a forme di anticipazione della tutela, cioè si arretra la soglia di punibilità a momenti prodromici rispetto alla lesione del bene giuridico. In altri termini, è un diritto penale «basato sulla commissione di fatti di reato, ma fortemente anticipato, volto a reprimere comportamenti che sono qualificati come reato, ma che tuttavia sono molto lontani dalla realizzazione di un reato offensivo quanto meno nella forma tentata»[11]: delitti di associazione, delitti di attentato, reati di pericolo presunto, reati d’opinione, reati a dolo specifico, etc. Altre caratteristiche del diritto penale dell’emergenza, secondo la ricostruzione della dottrina, sono:

  • Il ricorso a logiche d’autore, con la tendenza a perseguire i soggetti per la loro appartenenza alla categoria d’autori individuata attraverso la costruzione di fattispecie descritte in termini marcatamente soggettive (ad esempio attribuendo valore determinante alla finalità di terrorismo perseguita dall’autore)[12];

  • La creazione di “binari” paralleli di indagine e di giudizio, con la previsione di regole particolari di competenza giurisdizionale per materia, tali da attribuire a magistrati inquirenti e, talvolta, giudicanti la competenza esclusiva in relazione ai reati di terrorismo;

  • L’aumento dei poteri d’intervento della magistratura inquirente e delle forze di polizia, con particolare ampliamento degli strumenti di indagine;

  • Lo snellimento e la semplificazione delle procedure di irrogazione delle misure di prevenzione e delle procedure di espulsione, con maggior efficacia dell’azione degli organi amministrativi;

  • La previsione di pene esemplari per determinate categorie di reati considerati di particolare allarme sociale;

  • L’irrigidimento dei regimi penitenziari per indagati e condannati “qualificati”, creando “doppi binari” nell’esecuzione della pena;

  • L’accentuazione della funzione di ‘neutralizzazione’ della pena, piuttosto che di rieducazione e di risocializzazione. [13]

L’effetto complessivo è quello di un notevole irrigidimento dell’intervento penale, frutto di un approccio “bellicistico”, in cui l’ordinamento sfrutta ogni strumento disponibile con l’obiettivo di sconfiggere un fenomeno pericoloso. E lo fa anche a patto di sacrificare una parte cospicua dei diritti e delle garanzie abitualmente riconosciuti, come il rispetto dei principi di materialità, offensività, tassatività e determinatezza delle fattispecie. Pertanto, è possibile affermare che il diritto penale antiterrorismo costituisce, da un lato, un rovesciamento dei tratti del garantismo, e, dall’altro, un corpo giuridico autonomo, orientato alla neutralizzazione, che oscilla tra il diritto penale di lotta e il diritto penale del nemico[14].

Con la locuzione ‘diritto penale del nemico’ si intende la costruzione di «una sorta di sottosistema giuridico ideato per colpire determinate categoria di soggetti, anziché la generalità dei consociati»[15]. L’artefice dell’elaborazione di una compiuta teoria del diritto penale del nemico nell’ambito del dibattito in materia di terrorismo è Gunther Jakobs[16], secondo il quale soggetti di diritto sono solo coloro che sono capaci di valutare la struttura della società ed il diritto, rispetto ai quali le norme possono dispiegare validità ed efficacia, nel senso di orientarne, tendenzialmente, i comportamenti: essi, se violano una norma, non la negano radicalmente, per cui possono essere reintegrati nel patto sociale attraverso l’esecuzione della pena. Tutti gli altri (cioè coloro che risultano non motivabili dalle norme giuridiche, poiché antagonisti per scelta o per principio) si pongono nei confronti della società in una posizione di contrasto insanabile al punto tale da essere qualificati come nemici, come ‘non-persone’ nei cui riguardi la pena svolge una mera funzione di neutralizzazione, e non di rieducazione o risocializzazione. In questa prospettiva, «lo Stato dovrebbe distinguere tra norme applicabili al solo nemico, sia esso un terrorista o altro pericoloso dissenziente ostinatamente attivo, e norme applicabili al cittadino, perché altrimenti il diritto penale del nemico finirebbe col contaminare il diritto penale dei cittadini comuni»[17]: dunque, Jakobs avverte come necessaria la creazione di un doppio binario puro. Ebbene, tale prospettiva è assolutamente da respingere, poiché il diritto penale del nemico è «per definitionem non diritto o diritto illegittimo»[18]: esso è «aberrante», in quanto «si caratterizza per la totale assenza di riferimenti ai principi valutativi di garanzia posti nella gerarchia delle fonti al di sopra della legge»[19], ovvero risulta assolutamente indifferente alle garanzie costituzionali ed internazionali ed ai vincoli di legittimità che esse pongono (in particolare, il rispetto dei diritti umani fondamentali) alla teorizzazione della figura del nemico come una «non persona»[20].  Infatti, qualificando il terrorista-nemico come una non-persona, costui viene escluso dal godimento finanche dei diritti fondamentali, il che potrebbe portare all’estrema conseguenza di ritenere ammissibile nei suoi confronti anche l’uso della tortura[21]. Tale prospettiva è inaccettabile in quanto, se lo Stato trattasse i nemici come non-persone, «lo Stato di diritto in quanto tale sarebbe già morto e si ridurrebbe ad un’organizzazione sociale la cui legittimazione rispetto ad altre riposerebbe solo sulla nuda forza»[22]. La funzione dei diritti fondamentali è, appunto, quella di «individuare dei limiti insuperabili oltre i quali gli Stati non possano esercitare, attraverso lo strumento della legge ordinaria, un potere definitorio e discriminatorio nei confronti delle persone»[23].

Ebbene, secondo parte della dottrina, la logica del nemico, oltre a costituire un tratto saliente della normativa emergenziale, risulta penetrata nel nostro ordinamento in tutte le fasi del processo: «all’atto della formulazione delle accuse, quando il nemico è identificato, con l’ausilio di figure di reato indeterminate come sono i delitti associativi, non già in base a fatti ma direttamente con riguardo alla sua personalità sovversiva, secondo il modello autoritario del tipo d’autore che contraddice il principio liberale che si delinque in quanto si opera e non in quanto si è; nel corso del processo, quando ‘amici’ e ‘nemici’ si definiscono in forza del loro schierarsi dalla parte dell’accusa anziché dalla parte della difesa, che pure è la parte che l’imputato avrebbe normalmente il diritto di impersonare; nel momento della condanna, quando pene e ricompense vengono distribuite non già in base alle responsabilità accertate, ma al contributo arrecato alla verità accusatoria»[24].

Il diritto penale ‘di lotta’, invece, è un concetto normativo divenuto ormai una costante nel diritto dell’Unione europea: esso è presente, infatti, in varie disposizioni del TFUE, nei principali documenti fondamentali e in storiche sentenze della Corte di giustizia dell’UE. Il diritto penale di lotta è espressione di un approccio in cui «il diritto stesso, nella sua “progettualità” prima ancora che nella sua “funzione”», è concepito «come il mezzo per uno scopo diverso dalla semplice tutela di beni o dalla “giusta” regolazione di rapporti. Il mezzo giuridico non si limita a rinviare ad una mera teleologia ad esso interna, o ad un orientamento della sua applicazione alle rationes che sorreggono il contenuto delle norme, oppure al raggiungimento di risultati che la norma stessa impone di guadagnare attraverso il suo rispetto. È piuttosto la norma stessa a funzionare come strumento per scopi ad essa esterni. La norma minaccia un male e questo male è un’arma per raggiungere uno scopo. Lo scopo, però, oltre a quello specifico della singola incriminazione (per esempio, prevenire e reprimere le singole condotte riconducibili a fattispecie di associazioni criminali, di traffico di esseri umani ecc.), è nello stesso tempo la vittoria contro un fenomeno dannoso o pericoloso. Il destinatario finale del diritto penale di lotta non è solo l’autore dei fatti di reato coinvolti, ma è innanzitutto l’organo pubblico deputato ad applicare le norme: polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice. L’autore dei fatti, il trasgressore, è l’avversario che esprime o rappresenta in modo contingente il fenomeno contro il quale gli organi pubblici useranno le armi del diritto. Il “diritto” è dunque per gli organi pubblici, mentre i trasgressori sono destinatari di un’azione di contrasto. Lo scopo è vincere (non solo combattere) quel fenomeno, e tanto il diritto penale sostanziale quanto il processo ne sono direttamente coinvolti»[25]. Dal momento che esso non si presenta più come un diritto eccezionale, ma come il diritto penale normale della politica criminale europea, essendosi ormai esteso a tutti i campi d’intervento della “giustizia penale” dell’Unione Europea[26], si può affermare che oggi si assiste ad una normalizzazione del diritto penale di lotta[27]. Ebbene, siffatta normalizzazione «rappresenta oggi l’attacco istituzionale più diretto al garantismo penale quale prodotto maturo dell’orientamento costituzionalistico», poiché «utilizzare il diritto come un’arma contro un fenomeno significa che la regola è uno strumento di politica criminale, non la definizione vincolante della premessa di un giudizio di responsabilità individuale»[28]. Tutt’al più, perché gli interventi normativi ‘di lotta’ risultino dotati di una forma di legittimazione, occorre che le situazioni in rapporto alle quali essi sono destinati ad operare non diano luogo ad esigenze di controllo permanente, che finiscano per istituzionalizzare l’eccezione alla regola, per ragioni di lotta e di difesa sociale, con il risultato di alterare la fisionomia del diritto penale. In altri termini, occorre che la logica emergenziale sia solo ed esclusivamente temporanea.[29]

Secondo una terza impostazione, la disciplina italiana di contrasto al terrorismo può essere più adeguatamente definita con la locuzione di diritto penale al limite: si tratta, cioè, di «scelte di politica penale nelle quali principi e garanzie proprie del diritto penale subiscono flessibilizzazioni che si muovono comunque in un’area limitrofa ad un confine pericoloso, quello al di là del quale si vanificano, in nome della ragion di Stato, garanzie e diritti individuali sui quali si fonda l’ordinamento democratico»[30]. La legittimazione del diritto penale al limite si muove entro i limiti tracciati dai principi di proporzione e di ragionevolezza, i quali presentano confini incerti che, in relazione alle norme antiterrorismo, rilevano per due aspetti: a) l’ampliamento per via normativa dell’intervento penale, spesso attraverso l’incriminazione di condotte preparatorie che, ad una prima lettura, si presentano del tutto ragionevoli; b) la rimessione alla magistratura dell’opera di non sconfinamento del limite[31]. Si tratta di un diritto penale legittimo, ma in cui è sempre alto il rischio che la ragionevolezza delle scelte di carattere sostanziale e processuale si traduca in violazioni di diritti e libertà fondamentali.

In conclusione, è possibile affermare che la legislazione antiterrorismo nel nostro ordinamento è il frutto del susseguirsi di interventi ispirate a logiche emergenziali, con il tempo consolidatisi in leggi definitive, che hanno finito per delineare un vero e proprio sottosistema speciale di diritto sostanziale, processuale e penitenziario, applicabile ai sospetti terroristi, in alternativa a quello vigente per la criminalità comune[32]. In relazione ad una simile impostazione, ispirata alla logica del doppio binario, è necessario vigilare affinché essa non degeneri sconvolgendo il tradizionale assetto dei profili dogmatici dell’illecito penale[33]. In particolare, preme sottolineare che la lotta al fenomeno terroristico non può accompagnarsi alla negazione delle garanzie e dei principi il cui superamento rappresenta la concretizzazione stessa di quegli abusi che il diritto penale si propone di evitare.

 

 

 

 

 


[1]Sul modello ‘bellico’ statunitense di contrasto al terrorismo, v., nell’ambito di una vasta letteratura, Fasani, Terrorismo islamico e diritto penale, Padova 2016, p. 111 ss.; Masarone, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale, Napoli 2013, p. 177 ss.; Di Stasio, La lotta multilivello al terrorismo internazionale. Garanzia di sicurezza versus tutela dei diritti fondamentali, Milano 2010, p. 493 ss.; Vervaele, La legislazione antiterrorismo negli Stati Uniti: inter arma silent leges?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 739 ss.; ID., La legislazione anti-terrorismo negli Stati Uniti: un diritto penale del nemico?, in Aa. Vv., Terrorismo internazionale e diritto penale, Padova 2007, p. 237 ss.; Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in bello del criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino 2008, p. 67 ss.; Fanchiotti, Il dopo 11 settembre e l’USA Patrioct Act: lotta al terrorismo e “effetti collaterali”, in Quest. Giust., n. 2/3, 2004, p. 283 ss.
[2] Per un’indagine di tipo comparatistico tra le misure antiterrorismo adottate nei principali Paesi europei (e non solo) dopo l’11 settembre 2001, v. Bauccio, L’accertamento del fatto reato di terrorismo internazionale. Aspetti teorici e pratici, Milano 2005, p. 177 ss.
[3] Masarone, Politica criminale e diritto penale, op. cit., pag. 186.
[4] Viganò, Terrorismo islamico e art. 270 bis c.p., in Aa. Vv., Terrorismo e legislazione penale (incontro di formazione CSM, 14 aprile 2005), in www.csm.it, p. 4.
[5] Per un quadro più ampio degli interventi normativi di quegli anni, v. Masarone, Politica criminale e diritto penale, cit., p. 35 ss.
[6] La disposizione citata è stata abrogata e sostituita dal d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21, che ha introdotto l’art. 270-bis.1 c.p. («Circostanze aggravanti ed attenuanti»), sul quale si tornerà più avanti.
[7] Tale decreto era volto a dare esecuzione al regolamento CE 467/2001 (poi abrogato e sostituito dal regolamento CE 881/2002), adottato dal Consiglio dell’Unione europea in attuazione della Risoluzione n. 1333 del 2000 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per tali atti, europei ed internazionali, v. supra, Capitolo III, § 3; Capitolo II, § 7.
[8] La legge citata va inoltre ad incrementare il novero di ipotesi di confisca presenti nel nostro ordinamento prevedendo, nel nuovo art. 270-septies c.p., che «nel caso di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti commessi con finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies è sempre disposta la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo, prodotto o profitto».
[9] Masarone, ult. op. cit., pag 188.  Sull’antitesi tra garanzia ed efficienza, v. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli 1997, p. 1 ss.
[10] Sul punto Bartoli, Legislazione e prassi in tema di contrasto al terrorismo internazionale. Un nuovo paradigma emergenziale?, in Diritto penale contemporaneo, 3/2017, pag. 236, distingue tra due tipi di diritto penale dell’emergenza: uno “espresso” e uno “implicito”. Il diritto penale dell’emergenza espresso «è quello che, in presenza di situazioni particolarmente gravi che minacciano la stessa vita di una nazione (spesso in ragione della reiterazione di fatti gravissimi, viene attivato attraverso dichiarazioni per l’appunto espresse che sospendono alcune garanzie fondamentali, lasciando tuttavia operanti alcuni diritti umani e principi assolutamente inderogabili: si tratta, in buona sostanza, del diritto penale che scaturisce dalla dichiarazione del vero e proprio stato di emergenza previsto dall’art. 15 CEDU». Il diritto penale dell’emergenza implicito, invece «è quello che è “normalmente” presente all’interno di un sistema per prevenire fatti criminosi dotati di un’offensività del tutto peculiare, per cui si introducono strumenti specifici che si distinguono da quelli ordinari, anche se non si raggiungono livelli così consistenti come quelli che legittimano l’emergenza espressa», ed è quello a cui ha fatto ricorso il nostro ordinamento per contrastare il terrorismo.
[11] Bartoli, Legislazione e prassi, cit., pag. 237.
[12] V. sul punto Masarone, ult. op. cit, pag 188.
[13] Le caratteristiche appena elencate sono quelle esposte da Fasani, Terrorismo islamico e diritto penale, cit., pp. 149-150.
[14] Donini, Mafia e terrorismo come «parte generale» del diritto penale, in Meridiana. N. 97, 2020, pag. 215.
[15] Fasani, Terrorismo islamico e diritto penale, cit., pag. 151.
[16] V. in particolare Jakobs, Derecho penale del ciudadano y derecho penal del enemigo, in Jakobs, Cancio Meliá, Derecho penal del enemigo, Madrid 2003, p. 26 ss., trad. it. Diritto penale del nemico, in Donini, Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano 2007, p. 5 ss.; ID., I terroristi non hanno diritti, in Kostoris, Orlandi (a cura di), Contrasto al terrorismo interno e internazionale, Torino 2006, p. 3 ss.
[17] Jakobs, I terroristi non hanno diritti, cit., p. 16. Per una critica all’impostazione di Jakobs, v. Zaffaroni, El enemigo en el derecho penal, Buenos Aires, 2006, il quale afferma che il moderno stato di diritto e la sua legislazione penale non tollerano la figura del nemico, che risponde soltanto ad una logica di guerra ed è, dunque, radicalmente incompatibile con lo stato di pace.
[18] Donini, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi ad esorcizzare, in Studi sulla questione criminale, 2007, vol. 2, pag. 56.
[19] Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in bello del criminale ed annientamento del nemico assoluto, Torino 2008, pag. 16.
[20] V. anche Masarone, Politica criminale, cit., pag. 200; Donini, Il diritto penale di fronte al «nemico», in Cass. Pen., 2006, vol. 2, pag. 754.
[21] Jakobs, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, in Gamberini, Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna 2007, pag. 129, afferma: «in diritto sussiste un assoluto divieto di tortura, quale puro e semplice contenuto concettuale del diritto, ma il problema si pone in modo diverso, vale a dire nei seguenti termini: se lo Stato possa rimanere nel diritto sempre e nei confronti di chiunque».
[22]Cavaliere, Diritto penale «del nemico» e «di lotta»: due insostenibili legittimazioni per una differenziazione, secondo tipi d’autore, della vigenza dei principi costituzionali, in Gamberini, Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, cit., p. 279.
[23] Masarone, Politica criminale, cit., pp. 200-201.
[24] Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari 1989, p. 857 ss.
[25]Donini, Mafia e terrorismo come «parte generale» del diritto penale, cit., pp. 216-217; ID., Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi ad esorcizzare, in Studi sulla questione criminale, 2007, vol. 2, p. 57 ss. Amplius, ID., Il terrorista-straniero come nemico e le contraddizioni di una giurisdizione penale di lotta, in Quaderni fiorentini, 38, 2009, II, p. 1699 ss.; ID, Lotta al terrorismo e ruolo della giurisdizione. Dal codice penale delle indagini preliminari a quello postdibattimentale, in Questione giustizia, 2016, quaderno su Terrorismo internazionale, politiche della sicurezza, diritti fondamentali, pp. 113-144.
[26] Dalle frodi comunitarie alla pedopornografia, dal riciclaggio al razzismo, dalla tratta di esseri umani al traffico di stupefacenti e alla criminalità economica, dai reati di immigrazione al terrorismo internazionale.
[27] Donini, Diritto penale di lotta, cit., pag. 60. Per un focus sui pericoli insiti nel concepire lo strumento penale come leva per il conseguimento di un obiettivo diverso dalla tutela di beni giuridici ed esterno alla stessa legalità della fattispecie, v. ancora Donini, Diritto penale di lotta VS. diritto penale del nemico, 2007, pp. 131-178 (intervento presentato al convegno ‘Delitto politico e diritto penale del nemico’ tenutosi a Trento il 10 e 11 marzo 2006).
[28] Donini, Mafia e terrorismo come «parte generale» del diritto penale, cit., pag. 218.
[29] Masarone, Politica criminale e diritto penale, cit., pp. 190-191. V. sul punto anche Insolera, Reati associativi, delitto politico e terrorismo globale, in Dir. Pen. Proc., 2004, p. 1325 ss. Sul concetto di emergenza perenne v. soprattutto Moccia, La perenne emergenza, cit., passim.
[30] Pelissero, Contrasto al terrorismo internazionale e diritto penale al limite, in Questione giustizia, settembre 2016, pp. 100-101.
[31] Ibidem.
[32] V. Donini, Mafia e terrorismo come «parte generale» del diritto penale, in Meridiana. N. 97, 2020, p. 206 ss.
[33] V. sul punto Cavaliere, Diritto penale «del nemico» e «di lotta», cit., p. 288 ss.

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