Le sentenze non definitive: caratteristiche ed evoluzione normativa/giurisprudenziale
L’istituto delle sentenze non definitive è stato da sempre fonte di accesi dibattiti tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. A conferma di ciò basti pensare che il più importante intervento normativo in materia si ebbe con la L. 14 luglio 1950, n. 581, con cui si ebbe lo storico passaggio dalla c.d. riserva obbligatoria al sistema della riserva facoltativa di impugnazione, tutt’ora vigente. In base a tale sistema, la parte soccombente avverso una sentenza non definitiva può scegliere se impugnare tale provvedimento in via immediata oppure in via differita al termine del giudizio ed unitamente all’impugnazione della sentenza definitiva, previa formulazione della riserva di impugnazione.
Tra le questioni più dibattute e tormentate in materia figura quella relativa alla delimitazione della nozione di sentenza non definitiva. Il peculiare meccanismo delineato dall’art. 340 c.p.c., per l’appello, nonché dall’art. 361 c.p.c., per il ricorso per cassazione, pone il problema di individuare un criterio che ci consenta di distinguere correttamente la nozione di sentenza non definitiva da quella di sentenza definitiva. Nello specifico, la questione si è posta con riferimento ai provvedimenti che decidono una delle più domande giudiziali cumulate all’interno dello stesso processo.
Per molto tempo, stessa Corte di Cassazione si è divisa tra due orientamenti opposti.
Secondo un primo orientamento, doveva darsi prevalenza al criterio sostanziale, c.d. ontologico, ai fini della corretta distinzione tra sentenze definitive e non definitive: la sentenza deve ritenersi definitiva allorquando decida sull’intero rapporto giuridico che forma oggetto di una delle domande cumulate nel medesimo procedimento. Tale decisione, qualora presenti i caratteri dell’autonomia e dell’autosufficienza rispetto alle altre decisioni da adottare nel prosieguo del giudizio, sarà senz’altro definitiva, a prescindere dalla qualificazione operata dal giudice a quo in merito a tale pronuncia. In altre parole, tale orientamento finisce col negare la configurabilità di una sentenza non definitiva su domanda.
Il secondo orientamento, invece, si fonda su un criterio formale, secondo cui, ai fini della distinzione tra sentenze definitive e sentenze non definitive, occorre assumere come parametri di riferimento i due elementi rappresentati dalla eventuale pronuncia di un provvedimento di separazione e dalla pronuncia sulle spese di lite. In caso di cumulo di domande nel medesimo processo, la sentenza che decida una o più delle stesse, rinviando al prosieguo del giudizio per la definizione delle altre, ha sicuramente carattere non definitivo e potrà formare oggetto di riserva di impugnazione differita. Solo allorché il giudice pronunci espressamente la separazione delle cause, ovvero emetta un provvedimento di ripartizione delle spese di lite, è segno che la sentenza dovrà essere considerata definitiva. Tale orientamento ha trovato l’avallo delle Sezioni unite della Corte di cassazione in diverse pronunce.
Nel presente elaborato ho avuto modo di esaminare una recente vicenda processuale che ha portato la Suprema corte a doversi pronunciare nuovamente sul tema. Tale vicenda, del tutto peculiare, verte essenzialmente sulla qualificazione giuridica da attribuire ad una sentenza. Le incertezze che hanno indotto la sezione semplice a rimettere la causa alle Sezioni unite risiedono nel fatto che tale sentenza da un lato, si qualifica come non definitiva, vista l’espressione contenuta nel dispositivo (“non definitivamente pronunciando”), dall’altro, contiene un’espressa pronuncia sulle spese di lite. In presenza di indici formali tra loro contrastanti, che non consentono di qualificare in maniera univoca il provvedimento in esame, le Sezioni unite sono chiamate a fornire una soluzione alla problematica indicando quale dei due indici formali si debba ritenere prevalente, ai fini dell’applicabilità o meno del sistema della riserva di impugnazione. Impostata in questi termini, la questione approda alle Sezioni unite, le quali, rilevando anzitutto che il denunciato contrasto tra indici formali è “irriducibile”, in quanto non v’è alcuna ragione che giustifichi la prevalenza di un indice formale sull’altro. In secondo luogo, la Suprema corte ha affermato che in presenza di una tale ambiguità occorre adottare la soluzione che consenta alla parte l’esercizio nel caso concreto del potere di impugnare, altrimenti irrimediabilmente compromesso. Nella fattispecie concreta, dunque, ha ritenuto prevalente la qualificazione contenuta nel dispositivo della sentenza, la quale, va considerata non definitiva e suscettibile di riserva di impugnazione.
A mio modesto parere, mi sento di condividere l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità. Invero, il criterio formale garantisce un maggior grado di tutela alle parti, collegando il carattere definitivo o non definitivo della sentenza a un elemento obiettivo e controllabile dalle parti come il provvedimento di separazione delle cause cumulate. Dal canto suo, il criterio sostanziale genera un elevata incertezza in ordine alla natura della sentenza, con il risultato di spingere la parte a impugnare in via immediata per timore di perdere il proprio potere di impugnazione, andando, così, contro le finalità della riserva di impugnazione: ossia quella di garantire l’unità del processo anche in fase di impugnazione.
La tecnica delle sentenze non definitive trova applicazione in diversi riti speciali, quali il rito del lavoro, il rito sommario di cognizione e i giudizi di separazione e di divorzio.
Con particolare riferimento al rito del lavoro, ad esempio, si è osservato come l’art. 420, 4° comma, se da un lato prevede espressamente la possibilità per il giudice di pronunciare sentenza non definitiva, dall’altro si riferisce espressamente alle sole questioni pregiudiziali di rito (come la competenza o la giurisdizione) apparentemente trascurando la possibilità che venga emessa una sentenza non definitiva sul merito della controversia. Tuttavia, la giurisprudenza non si è mai fermata ad un’interpretazione strettamente letterale della norma, facendo ricorso nella prassi alla pronuncia di sentenze non definitive anche al di fuori dei casi strettamente delineati dall’art. 420 c.p.c.. (sia su questioni preliminari di merito, come la prescrizione, che su domanda) prediligendo, così, un’interpretazione estensiva della norma.
L’ultimo profilo meritevole di attenzione attiene al sistema di impugnazione delle sentenze non definitive. Come detto, la parte soccombente può decidere se impugnare immediatamente il provvedimento ovvero impugnare lo stesso al termine del giudizio unitamente alla sentenza che lo definisce.
Questo sistema è chiaramente ispirato ad esigenze di economia processuale: la ratio dell’istituto, infatti, è stata correttamente individuata nella sua idoneità a consentire alla parte, soccombente in relazione alla sentenza non definitiva, di attendere la definizione del processo in quel grado, al fine di poter valutare in termini complessivi la convenienza e quindi il suo interesse all’impugnazione, ossia alla celebrazione di un nuovo grado del processo.
Accanto alla facoltà di esperire riserva, tuttavia, la parte può anche impugnare in via immediata: in questa seconda ipotesi, però, si rendono necessarie alcune riflessioni circa il rapporto tra il processo di appello avente ad oggetto l’impugnazione immediata della sentenza non definitiva e il processo di primo grado frattanto proseguito.
Nell’ipotesi in cui la sentenza non definitiva venga riformata in appello, ci si chiede quali siano gli effetti e le conseguenze rispetto alla esecuzione o alla prosecuzione del giudizio in primo grado, posto che il giudice istruttore di tale causa non è obbligato a sospendere il giudizio in attesa della definizione di quello di impugnazione della non definitiva. La giurisprudenza afferma che il c.d. “effetto espansivo esterno” derivante dalla eventuale riforma della sentenza non definitiva risulta applicabile ai provvedimenti decisori e, quindi, alla sentenza definitiva emessa nel corso del processo di primo grado, con la conseguenza della caducazione delle statuizioni con essa pronunciate, anche se passata in giudicato, in quanto dipendenti dalla sentenza riformata.
Lo stesso dicasi con riferimento agli atti esecutivi. Se è certo che dopo la pronuncia della sentenza di riforma non sarà possibile avviare o proseguire l’esecuzione forzata sulla base del titolo esecutivo rappresentato dalla sentenza non definitiva; altrettanto pacifico in giurisprudenza è l’indirizzo secondo cui anche gli atti esecutivi già compiuti restino definitivamente travolti, con diritto della parte che abbia ottenuto la sentenza di riforma in sede di impugnazione di ripetere le somme corrisposte in esecuzione della sentenza riformata.
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