Le Sezioni Unite affermano la natura di reato complesso dell’omicidio aggravato per essere stato commesso dall’autore di atti persecutori
Le Sezioni Unite affermano la natura di reato complesso dell’omicidio aggravato per essere stato commesso dall’autore di atti persecutori (Sezioni Unite, udienza pubblica 15 luglio 2021).
Sommario: 1. Il quesito e la soluzione affermata dalle Sezioni Unite – 2. La vicenda processuale – 3. L’ordinanza di rimessione – 4. Il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite – 5. Conclusioni
1. Con ordinanza n. 14196 del 20.4.2021 la Quinta sezione penale della Corte di Cassazione, ravvisando un contrasto giurisprudenziale, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione: «Se, in caso di omicidio commesso dopo la esecuzione di condotte persecutorie poste in essere dall’agente nei confronti della medesima persona offesa, i reati di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., concorrano tra loro o sia invece ravvisabile un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma primo, cod. pen.».
All’esito dell’udienza del 15 luglio scorso, le Sezioni Unite hanno dato al quesito la soluzione che segue: «La fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi degli artt. 575 e 576, comma primo, n. 5.1., cod. pen. – punito con la pena edittale dell’ergastolo – integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma primo, cod. pen., in ragione della unitarietà del fatto».
2. La Quinta sezione della Suprema Corte era stata investita del ricorso avverso la sentenza con cui la Corte di Assise di Appello di Roma, in sede di giudizio di rinvio disposto all’esito dell’annullamento pronunciato dalla Corte di Cassazione, aveva affermato la penale responsabilità dell’imputata per il reato di omicidio doloso aggravato (artt. 575, 576 co. 1 n. 5.1. c.p.) e per il reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) e, riconosciuto il vincolo della continuazione e le attenuanti generiche equivalenti alla residua aggravante, e con la diminuente per il rito, aveva determinato la pena in 15 anni e 4 mesi di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado del GUP del Tribunale di Latina.
Il GUP del Tribunale di Latina aveva ritenuto, sulla base delle consulenze e delle prove testimoniali, l’imputata responsabile del reato di omicidio doloso aggravato per aver prima colpito con un violento pugno e poi spinto con forza l’avversaria verso il basso, provocandone la morte in conseguenza delle lesioni gravissime riportate a seguito dell’impatto. Aveva ritenuto sussistente il dolo eventuale di omicidio, accompagnato al dolo d’impeto.
Oltre all’omicidio, oggetto d’imputazione (e di condanna) erano state anche le ripetute condotte di atti persecutori commesse dall’imputata nel corso del rapporto lavorativo, estrinsecatesi in plurime molestie, minacce e ingiurie che avevano ridotto la vittima in uno stato d’ansia e di timore tali da renderle insopportabile la presenza sul luogo di lavoro e da indurla a programmare la cessazione anticipata del rapporto[1].
La Corte di Assise di appello di Roma, in sede di gravame, era giunta ad un diverso convincimento.
Invero, aveva riqualificato la condotta da omicidio volontario aggravato in omicidio preterintenzionale ed assolto l’imputata dal delitto di atti persecutori per insussistenza del fatto. La Corte non aveva condiviso la ricostruzione della dinamica dell’aggressione operata dai giudici di primo grado, ritenendo che si fosse trattato in realtà di un litigio sfociato in una colluttazione, nel corso della quale l’imputata aveva spinto giù per le scale la vittima, che aveva così battuto la testa procurandosi le lesioni craniche mortali. Tale ricostruzione e la conformazione dei luoghi non consentivano, a detta dei giudici di appello, di ritenere provato il dolo eventuale di omicidio.
Con riferimento al delitto di cui all’art. 612 bis c.p., la Corte aveva ritenuto che dalle testimonianze emergesse una ostilità reciproca tra le due donne, ostilità che tuttavia non era mai sfociata in atteggiamenti che vedevano prevalere l’imputata sulla vittima ed in ordine alla quale non vi era la prova del nesso eziologico rispetto all’evento dannoso, rimasto anch’esso sfornito di prova.
Tale pronuncia veniva parzialmente annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione per nuovo esame, limitatamente ai profili della qualificazione del fatto in omicidio preterintenzionale e dell’esclusione del reato di atti persecutori, ritenuti dalla Corte sorretti da una motivazione “carente, superficiale e non sempre del tutto comprensibile”.
In sede di rinvio, la Corte territoriale ha qualificato il fatto come omicidio volontario, connotato da dolo d’impeto, ritenendo che la caduta della vittima fosse stata provocata e voluta dall’imputata e che l’evento morte fosse stato quantomeno accettato, ed ha altresì affermato la sussistenza del delitto di atti persecutori.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputata.
Tra i vari motivi di ricorso assumeva rilevanza, ai fini dell’ordinanza di rimessione del contrasto alle Sezioni Unite, la dedotta violazione di legge in ragione dell’erroneità del riconoscimento del concorso formale tra i reati di omicidio aggravato e di atti persecutori. Invero, la sentenza impugnata, nell’affermare la responsabilità penale dell’imputata in relazione ai delitti di omicidio aggravato e di atti persecutori, aveva calcolato l’aumento di pena per il concorso di reati, richiamando espressamente l’orientamento giurisprudenziale che ne esclude il rapporto di specialità.
3. Tanto premesso in punto di fatto, la Quinta Sezione della Cassazione rintraccia due orientamenti giurisprudenziali contrapposti in relazione a due questioni interpretative di fondo:
a) il problema del rapporto astratto tra le fattispecie in esame, e dunque dell’applicabilità o meno della disciplina di cui all’art. 84 c.p.;
b) il problema dell’interpretazione dell’aggravante di cui all’art. 576 c. 1 n. 5.1. c.p.
Per un primo orientamento[2], fatto proprio dalla sentenza impugnata, il delitto di atti persecutori non è assorbito da quello di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p. non sussistendo una relazione di specialità tra tali fattispecie di reato.
In tal senso depone, innanzitutto, la formulazione letterale della disposizione. L’elemento aggravatore di cui all’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p. è di natura soggettiva, in quanto è incentrato sulla mera identità del soggetto autore sia degli atti persecutori sia dell’omicidio e non sul fatto. Il legislatore ha inteso calibrare l’offensività dell’evento aggravatore sulla componente soggettiva, sull’autore del delitto, prescindendo da indici di collegamento fattuale – temporale o finalistico – con il delitto di atti persecutori. Se rileva una relazione soggettiva tra l’accadimento ed il suo autore, questa relazione è estranea al rapporto tra fattispecie proprio del rapporto di specialità, per cui è da escludersi un rapporto di interferenza tra i due reati di omicidio aggravato e atti persecutori, i quali pertanto concorrono.
Inoltre, sotto il profilo strutturale la clausola di riserva di cui all’art. 612 bis c.p. non può “aver riguardo al rapporto con il delitto di omicidio, la cui natura istantanea lo pone al di fuori dell’area di interferenza con il reato abituale di atti persecutori”. Essendo l’omicidio un delitto di natura istantanea e causalmente orientato e gli atti persecutori un delitto abituale ed a condotta tipizzata , non può esservi interferenza tra le due fattispecie.
Tale soluzione trova conferma, a livello sistematico, nella diversa formulazione di cui al n. 5, concernente il delitto di omicidio compiuto “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572, 600-bis, 600-ter, 609-bis, 609-quater e 609-octies”, che allude ad una occasionalità esistente tra i fatti commessi. Se il legislatore avesse voluto porre l’attenzione sui profili oggettivi, avrebbe costruito l’aggravante di cui al n. 5.1 in maniera analoga all’aggravante di cui al numero precedente.
Un secondo orientamento, condiviso dalla Corte rimettente, afferma il principio secondo cui sussiste concorso apparente di norme tra il delitto di atti persecutori e quello di omicidio aggravato ex art. 576 , co. 1 n. 5.1 c.p., che deve considerarsi reato complesso ai sensi dell’art. 84 co. 1 c.p., assorbendo integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa[3].
A sostegno di questa impostazione vi sono diversi argomenti, ben messi in evidenza e sviluppati dai giudici di legittimità nell’ordinanza di rimessione.
In primo luogo, la formulazione letterale della norma non può indurre ad operarne una interpretazione soggettivistica che porti ad escludere il concorso apparente di norme, in quanto ciò che aggrava l’omicidio non è il fatto che esso sia commesso dallo stalker in quanto tale, ma che sia stato preceduto da condotte persecutorie che siano culminate con la soppressione della vita della persona offesa. Contrariamente a quanto affermato dall’orientamento che esclude il reato complesso, la fattispecie sembra richiedere un rapporto di connessione, finalistica e/o temporale, tra il fatto di omicidio ed il fatto di atti persecutori. Trattasi, dunque, di una pluralità di fatti rispetto alla quale non viene in rilievo l’art. 15 c.p. (criterio di specialità), bensì l’art. 84 c.p. che disciplina il reato complesso; inoltre, essendo in presenza di più fatti, assume valore neutro la clausola di riserva dell’art. 612 bis c.p., in quanto essa concerne la diversa ipotesi in cui un unico fatto sia suscettibile di qualificazione giuridica multipla.
Ciò vale a confutare l’argomento della differenza strutturale tra le due fattispecie. È pacifico che i due reati, se non vi fosse la previsione di cui all’art. 576 co. 1 n. 5.1, possano concorrere materialmente, essendo astrattamente diversi; tuttavia, ciò che rileva è la formulazione, a livello di fattispecie astratta di un aggravante del delitto di omicidio che racchiude la tipizzazione del delitto di atti persecutori, prevedendo, tra l’altro, un trattamento sanzionatorio (l’ergastolo) più rigoroso di quello che sarebbe applicabile in caso di concorso di reati (trent’anni di reclusione)[4].
A livello sistematico, inoltre, l’aggravante di cui all’art. 576 co. 1 n. 5 c.p. ha una diversa formulazione perché collegata alla commissione non soltanto di un delitto abituale (come i maltrattamenti in famiglia), ma anche (e in misura prevalente) di delitti non abituali (come la prostituzione minorile, la pornografia minorile ed i delitti di violenza sessuale). L’omicidio commesso dallo stalker ai danni della propria vittima, piuttosto che essere commesso “in occasione” o “contestualmente” agli atti persecutori, è di solito preceduto e “preparato” da questi ultimi, secondo una logica di progressione.
A ciò si aggiunge il rilievo per cui tale impostazione si pone in linea con la volontà del legislatore, espressa nei lavori parlamentari, di “reprimere un allarmante fenomeno sociale che vedeva in costante aumento il numero di omicidi consumati ai danni delle vittime di atti persecutori, obiettivo che è stato perseguito con l’introduzione di una specifica aggravante che comporta la pena dell’ergastolo”.
Del resto, una diversa conclusione si tradurrebbe in una interpretatio abrogans dell’art. 84 c. 1 c.p., con contestuale violazione del principio del ne bis in idem sostanziale alla base della disciplina del reato complesso, il quale vieta di addossare uno stesso fatto due volte alla medesima persona.
Ed, inoltre, si porrebbe in contrasto con l’impostazione oggettivistica del diritto penale e, più precisamente, con i principi costituzionali di materialità e offensività; come invero riconosciuto anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 249 del 2010 (nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della c.d. aggravante della clandestinità introdotta all’art. 61 n. 11-bis c.p.), l’art. 25 c. 2 Cost., ponendo il fatto alla base della responsabilità penale, «prescrive (…), in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali»[5].
Aderendo a questa impostazione risulterebbe, infine, rispettato anche il principio di proporzionalità della risposta sanzionatoria.
Alla luce di queste argomentazioni, la Sezione rimettente ritiene di risolvere le questioni sopra menzionate, alla base dei due contrapposti orientamenti, nel senso di ritenere che:
a) la disciplina di riferimento vada individuata nell’art. 84 c.p., in quanto la formulazione dell’aggravante di cui all’art. 576 co. 1 n. 5.1 racchiude la tipizzazione del delitto di atti persecutori;
b) l’aggravante in parola vada ancorata ad un rapporto di connessione finalistica e/o temporale tra il fatto di omicidio e il fatto di atti persecutori e non interpretata in senso soggettivistico.
La Corte precisa, in conclusione, che la rilevanza della questione si pone anche nel caso, ancor più frequente nella prassi giudiziaria, del concorso tra il delitto di atti persecutori ed il delitto di lesioni: l’art. 585 c.p., infatti, prevede tra le circostanze aggravanti del reato di lesioni personali il concorso di “alcuna delle circostanze previste dall’art. 576”.
4. Come già anticipato all’inizio del presente contributo, all’udienza pubblica del 15 luglio 2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dato al quesito la soluzione che segue: «La fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi degli artt. 575 e 576, comma primo, n. 5.1., cod. pen. – punito con la pena edittale dell’ergastolo – integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma primo, cod. pen., in ragione della unitarietà del fatto».
5. In attesa di leggere le motivazioni alla base della soluzione di cui sopra, può in prima battuta affermarsi che il Supremo Consesso sembra condividere le argomentazioni spese dalla Sezione rimettente, evidenziando in particolare il carattere di unitarietà del fatto, secondo la logica della progressione. In altri termini, i fatti di reato di omicidio e di atti persecutori, anche se separati sul piano cronologico, rispondono ad una peculiare dinamica criminologica posta a fondamento della scelta politico-criminale del legislatore, ossia costituiscono espressione della medesima volontà persecutoria che spinge l’autore del reato prima a commettere le reiterate condotte di minaccia o molestia e poi, da ultimo, alla condotta omicida.
Quanto detto condivisibilmente induce le Sezioni Unite a considerare l’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p. quale reato complesso c.d. del secondo tipo, derivante dall’unificazione normativa di due reati in una forma aggravata di uno solo di essi.