Con la recente pronuncia del 5 dicembre 2023, n. 33954, la Suprema Corte a Sezioni Unite è tornata, precisandola e perimetrandola, sulla portata del carattere di sussidiarietà, di cui all’art. 2042 c.c., dell’azione di ingiustificato arricchimento
di Luigi Zito
Sommario: 1. Premessa – 2. Controversia – 3. Orientamenti e filoni interpretativi – 4. Decisione delle Sezioni Unite – 5. Conclusioni
1. Premessa
Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale (art. 2041, comma 1, c.c.).
La ratio juris dalla norma fonda sul principio, di equità e buon senso, per il quale non è ammissibile un vantaggio (iniusta locupletatio) a favore di un soggetto, in danno ad altri, se non sia giustificato da una causa giuridicamente meritevole.
Affonda le sue radici nell’actio de in re verso, di matrice romanistica. Prevista ove venisse stipulato un contratto da una persona alieni juris (servus o filius familias) e da questi riversato il ricavo dell’affare nel patrimonio del suo dominus o pater familias, consentiva al creditore di agire contro il dominus o il pater familias in ordine al ricavo da lui introitato e nei limiti dello stesso (Antonio Guarino, Diritto privato romano, Ed. Jovene Napoli, 1993, pagg. 426-427).
Nel tempo, tale tipo di azione si estese ad ogni caso di indebito arricchimento e pertanto ove non sussistesse una specifica obbligazione ex contractu o ex lege, e con essa perciò un rimedio specifico per conseguire la restituzione della res o l’indennizzo corrispondente al depauperamento patito.
Nell’odierno, l’istituto declina il principio generale in base al quale l’ordinamento giuridico vieta gli spostamenti non sorretti da una giustificazione obiettiva in termini di meritevolezza ed equilibrio contrattuale che, coniugati in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2 della Costituzione, forniscono una visione di più ampio respiro per sottolineare come l’istituto in esame rappresenti una forma di giustizia commutativa di tipo residuale atta a costituire, per l’effetto, un rimedio restitutorio di chiusura del sistema legislativo (Gazzoni, Obbligazioni e contratti, Ed. Scientifica Italiana, Napoli, 1993, pagg. 668-670).
2. Controversia
Con ordinanza interlocutoria del 29 febbraio 2023, n. 5222, della Terza sezione civile della Corte di Cassazione, veniva rimessa al Primo Presidente una questione di notevole rilievo, specificamente sulla preclusione dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., nell’ipotesi di declaratoria di infondatezza della domanda, proposta in via principale, inerente la responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c.
La prefata questione trae origine dalla controversia pendente tra una Società finanziaria immobiliare e l’Amministrazione di un Ente locale.
Breviter, la Società allegava di essere proprietaria di un terreno che, al momento dell’acquisto, aveva natura edificabile e di aver quindi presentato un piano di lottizzazione finalizzato al rilascio della concessione edilizia. Frattanto, la nuova amministrazione comunale aveva deciso di modificare il piano regolatore ed il regolamento edilizio, con conseguente variazione della destinazione del terreno, da residenziale ad agricolo, e inevitabile perdita di valore dello stesso.
Stanti le rassicurazioni ricevute dal Sindaco pro tempore circa il ripristino della destinazione edificatoria del terreno, la Società aveva rinunciato a muovere contestazioni in sede amministrativa, sostenendo anche le cospicue spese per l’interramento dei cavi di alta tensione. Tuttavia, l’Ente locale disattendeva la promessa del cambio di destinazione urbanistica.
La Società pertanto si vedeva costretta ad agire in giudizio per far valere la responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. del Comune e, in subordine, per far riconoscere l’arricchimento ingiustificato del medesimo per le spese da essa sostenute.
Il Tribunale, in primo grado, dichiarava infondata la domanda relativa alla responsabilità precontrattuale per difetto di prova, mentre riteneva ammissibile la domanda relativa all’ingiustificato arricchimento.
La Corte d’Appello riformava la Sentenza di prime cure, dichiarando inammissibile la domanda di ingiustificato arricchimento per difetto di sussistenza del presupposto della sussidiarietà ai sensi dell’art. 2042 c.c., tenuto conto del rigetto della domanda principale.
La questione giungeva infine dinanzi alla cognizione delle Sezioni Unite della Suprema Corte.
3. Orientamenti e filoni interpretativi
L’azione di ingiustificato arricchimento è un rimedio restitutorio mirante a neutralizzare lo squilibrio determinatosi, in conseguenza di diversi atti o fatti giuridici, tra le sfere patrimoniali di due soggetti, nei limiti – per l’appunto – dell’arricchimento che non sia sorretto da una “giusta causa”.
A differenza di quanto previsto nel diritto romano, la scelta del legislatore denota come si sia voluto introdurre un rimedio di carattere generale, avente però natura sussidiaria alla stregua di norma di chiusura dell’ordinamento, attivabile in tutti quei casi in cui l’arricchimento di un soggetto in danno di altro soggetto non sia “corretto” da specifiche disposizioni di legge.
Diverse sono le tesi formulate per offrire la giustificazione del carattere residuale dell’azione in parola.
Parte della dottrina ha, infatti, reputato che il fondamento della clausola di sussidiarietà vada ravvisato nel principio di certezza del diritto, in quanto l’esperimento dell’azione di arricchimento, anche nel caso in cui l’attore sia titolare di azioni alternative, porrebbe in pericolo la generale tenuta del sistema sotto diversi profili.
In primo luogo, si paventa il pericolo di un’indebita locupletazione dell’impoverito, che potrebbe esperire in maniera cumulativa – accanto all’azione di ingiustificato arricchimento – gli altri rimedi, rivolti al ristoro della sua posizione, violando il divieto di cumulo delle azioni. Ancora, si è evidenziato il rischio di elusione della disciplina delle azioni alternative, in quanto sarebbe dato il ricorso al rimedio generale, anche nel caso in cui siano maturate preclusioni o decadenze relativamente alle azioni principali.
Non è poi mancata la tesi che sottolinea il rischio di attentato al principio di economia dei mezzi processuali, poiché consentire al depauperato di poter esperire più rimedi concorrenti, implicherebbe l’abuso di una risorsa limitata, quale quella della “giustizia’’.
Ad avviso di altri studiosi, la ratio della clausola di sussidiarietà andrebbe individuata nella natura equitativa del rimedio di cui all’art. 2041 cod. civ. Pertanto, trattandosi di una norma di chiusura, ha inevitabilmente portata generale e residuale, di modo che il suo ambito applicativo si comprime o espande a seconda della sussistenza o insussistenza di rimedi speciali alternativamente azionabili.
È stato evidenziato che, ovviamente, la ratio, siccome individuata, avrebbe riflessi in ordine all’applicazione della regola di sussidiarietà, in quanto l’adesione al principio della salvaguardia della certezza del diritto, sorreggerebbe un’applicazione della clausola de qua “in astratto”, risultando quindi preclusa l’azione di ingiustificato arricchimento ove l’impoverito abbia a disposizione altri rimedi, a prescindere dalla loro concreta azionabilità (Cass. n. 12242/2016; Cass. n. 20528/2017; Cass. n. 8694/2018; Cass. n. 29988/2018; Cass. n. 4909/2023).
Se invece si ritenga prevalente la ratio basata sull’equità, si dovrebbe optare per un’operatività della clausola “in concreto”, così che sarebbe possibile agire ex art. 2041 c.c. anche quando, pur essendo in astratto azionabili altri rimedi, essi siano – per qualsiasi ragione – concretamente preclusi. In tal senso, valorizzando l’esigenza equitativa e ancorando la regola di sussidiarietà solo alla finalità di impedire che l’impoverito possa conseguire più volte il ristoro del medesimo pregiudizio, ove tale eventualità sia scongiurata, anche per l’inerzia colpevole dello stesso impoverito (prescrizione o decadenza), vi sarebbe spazio per l’azione in esame.
Entrambe le prospettive non sono esenti da attenuazioni.
Nella tesi “in astratto”, il riferimento alla superfluità circa l’accertamento della fondatezza nel merito della domanda appare temperato nella concreta applicazione giurisprudenziale, essendosi in più occasioni ribadito che torna ad essere esperibile l’azione di arricchimento nel caso in cui la diversa azione principale sia stata disattesa “perché a priori insussistente”, così che la regola della sussidiarietà trova piena applicazione allorché il rigetto consegua all’accertamento della relativa infondatezza nel merito (Cass. n. 4398/1979; Cass. n. 3228/1995; Cass. n. 29988/2018).
Sempre al fine di mitigare il rigore della sussidiarietà “in astratto”, si è fatta strada la tesi secondo cui il presupposto per proporre l’azione di ingiustificato arricchimento è la mancanza – accertabile anche d’ufficio – di un’azione tipica, tale dovendo intendersi non ogni iniziativa processuale ipoteticamente esperibile, ma esclusivamente quella derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata.
Ciò comporta che la tutela residuale sarebbe ammissibile anche quando l’azione, teoricamente spettante all’impoverito, sia prevista da clausole generali (responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. e responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c.) (Cass. n. 4620/2012; Cass. n. 4765/2014; Cass. n. 27827/2017; Cass. n. 843/2020). In pratica, l’azione di arricchimento sarebbe residuale solo rispetto ad azioni basate sul contratto o sulla legge (azioni tipiche), mentre se l’azione alternativa è basata su una clausola generale, allora la sua disponibilità non preclude di agire con l’azione di arricchimento (Cass. n. 4620/2012). Difatti, però, per poter affermare che esiste un’azione alternativa a quella di arricchimento e che dunque quest’ultima è preclusa, occorre verificare il titolo, ossia occorre verificare se l’interessato abbia un titolo da far valere, in via principale e dunque in alternativa all’arricchimento. Tuttavia, nei casi in cui l’azione principale è fondata su clausola generale, per stabilire se c’è un titolo che legittima quell’azione, e che di conseguenza impedisce l’alternativa di arricchimento, occorre valutare nel merito la domanda principale, e non limitarsi alla sua astratta disponibilità, tramutando di fatto l’accertamento sulla esistenza del titolo nell’accertamento sulla fondatezza della domanda, il che rende invisa a buona parte della dottrina e della giurisprudenza tale soluzione.
Così come si contesta ancora chi sostiene la tesi secondo cui l’azione di arricchimento sarebbe residuale solo rispetto alle azioni derivanti da contratto o da legge (tipiche), in quanto se l’esigenza che giustifica la residualità dell’azione di arricchimento è di impedire aggiramenti, allora non si comprende perché questa esigenza non la si debba avvertire anche quando il danneggiato ha un’azione alternativa basata su clausola generale (da illecito aquiliano o da responsabilità precontrattuale).
Infine, per mitigare invece la tesi della sussidiarietà “in concreto”, si ritiene che non possa accedersi all’orientamento che reputa sempre ammissibile l’azione di arricchimento, ove la diversa azione proponibile sia fondata su clausole di carattere generale. Ciò vale soprattutto al fine di scongiurare la sua declinazione in termini estremi, ossia laddove il potenziale concorso tra azione principale (risarcitoria aquiliana ovvero ex art. 1337) ed azione di arricchimento possa dare vita a fenomeni non solo di concorso integrativo (potendosi con la seconda integrare quanto spettante all’impoverito e non recuperato con l’azione principale), ma anche cumulativo.
4. Decisione della Suprema Corte
Le Sezioni Unite hanno risposto al quesito formulato dalla sezione rimettente muovendo dal dato normativo dal quale non si può prescindere: l’art. 2042 c.c., infatti, “pone la regola della sussidiarietà in termini generali, senza quindi distinzione tra le diverse azioni suscettibili di essere dedotte in via principale”.
L’accezione evocata identifica l’azione di ingiustificato arricchimento come rimedio restitutorio per eccellenza che mira ad evitare lo squilibrio patrimoniale tra i soggetti coinvolti, nei limiti dell’arricchimento.
Viene perimetrato il disposto di cui all’art. 2042 c.c., chiarendo che l’azione de qua va dichiarata preclusa ove l’esperibilità della domanda principale non sia ammissibile a causa del comportamento negligente del depauperato (prescrizione o decadenza di un diritto); nell’ipotesi della nullità del titolo contrattuale derivante da illiceità del contratto per contrasto alle norme di ordine pubblico o alle norme imperative e infine per rigetto nel merito della domanda principale per mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’attore.
La Suprema Corte ha precisato come non possa accedersi alla soluzione, sostenuta da parte della giurisprudenza, che reputa sempre ammissibile l’azione di ingiustificato arricchimento ove la diversa azione proponibile (l’azione principale) sia fondata su clausole di carattere generale (come le azioni ex artt. 2043 e 1337 c.c.), al fine di evitare non solo fenomeni di concorso integrativo o addirittura alternativo tra le azioni esperibili ma anche elusioni del dettato normativo.
Nel caso di azione fondata su titolo contrattuale, ancorché il riscontro della nullità del titolo porti ad una pronuncia di rigetto nel merito della domanda fondata sullo stesso, occorre distinguere tra le ipotesi in cui il rigetto della domanda principale derivi dal riconoscimento della carenza ab origine dei presupposti fondanti la stessa, da quelli in cui derivi dall’inerzia dell’impoverito ovvero dal mancato assolvimento di qualche onere cui la legge subordina la difesa di un suo interesse.
Nella prima ipotesi, il rigetto per accertamento della carenza ab origine del titolo fondante la domanda principale comporta che quello che appariva essere un concorso da risolvere ex art. 2042 c.c. in favore della domanda principale sia, invece, un concorso solo apparente, con conseguente proponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento. Qualora, invece, il rigetto sia derivato dalla mancata prova da parte del contraente del danno derivante dall’altrui condotta inadempiente, la domanda di arricchimento resta preclusa in ragione della clausola di sussidiarietà contenuta nell’art. 2042 c.c..
In definitiva, la Corte di Cassazione, ripercorrendo lucidamente l’excursus delle varie tesi dottrinali e giurisprudenziali, in esito ad elaborata argomentazione logico-giuridica, perviene ad affermare il seguente principio di diritto: “Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà, posto dall’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico”.
5. Conclusioni
Pertanto, in relazione al caso di specie, atteso che la domanda di responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. era stata respinta per mancanza ab origine del titolo fondante, la Corte di Cassazione, alla luce dei principi esposti, ritenendo proponibile l’azione di ingiustificato arricchimento ha cassato con rinvio alla Corte d’Appello, in diversa composizione.
Il principio di diritto sopra esposto, precisando e perimetrando la portata del carattere della sussidiarietà ex art. 2042 c.c., pone fine ad una serie di dubbi interpretativi che, nel tempo, avevano condotto a pronunzie di merito e di legittimità spesso contraddittorie che, come tutte quelle che ineriscono preclusioni di natura sostanziale, pesavano non poco sul rispetto dei principi di certezza del diritto, equità e uguaglianza sostanziale.
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