Le vicissitudini dell’impresa pubblica italiana nel secondo dopoguerra
1. Gli anni del “miracolo economico”
L’evoluzione delle istituzioni politico-amministrative si era bruscamente interrotto con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, evento che per l’Italia si rivelò una vera e propria sciagura nazionale.
Caduto il Regime e superata la terribile fase di guerra civile, il Paese che il Fascismo, oramai sconfitto anche dal punto di vista politico, lasciò in eredità alle nuove forze democratiche era ben diverso da quello del 1922.
Scelta la Repubblica come forma istituzionale in occasione del referendum del 2 Giugno 1946, prendeva ufficialmente il via la stagione della Costituente, la quale condusse ad approvare un «documento di compromesso alto fra forze politiche diverse»[1] entrato poi in vigore il 1 Gennaio del 1948.
Ancorata al fronte occidentale, e solo dopo aver profittato delle risorse americane per la ricostruzione del Paese, «tra gli ultimi anni Quaranta e la fine del decennio successivo l’Italia uscì dal dopoguerra per affrontare con ottimismo una nuova fase di sviluppo economico e sociale»[2].
Se da un lato l’amministrazione ministeriale provvedeva a ricreare la sua struttura d’anteguerra senza notevoli innovazioni, dall’altro quegli stessi enti pubblici e quelle stesse società per azioni a partecipazione statale che nel frattempo avevano già occupato ampi settori dell’economia, si accingevano ad intraprendere invece una nuova fase della loro esistenza[3].
Le attività di ricostruzione furono affidate ad amministrazioni costituite ad hoc: in tale contesto, l’istituzione più importante fu la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, plasmata dalla L. 10 agosto 1950, n. 646 proprio sul modello degli enti pubblici economici[4].
Invero, benché vincolata all’indirizzo di Governo elaborato da un Comitato di ministri per il Mezzogiorno e compendiato in un piano decennale di intervento, la Cassa per il Mezzogiorno era inserita in una realtà fortemente manageriale: ai vertici vi erano un presidente ed un direttore generale incaricati di controllare l’attività amministrativa nel suo complesso, mentre la gestione era affidata ad un consiglio d’amministrazione di nomina governativa.
In più, negli anni seguenti questo organismo generò a sua volta una fitta rete di enti pubblici e privati ad esso collegati quali istituti di credito speciale e società finanziarie, non sempre di facile governabilità[5].
Sempre in un’ottica di modernizzazione e sviluppo nonché in perfetta continuità con il passato, l’intervento dello Stato proseguiva anche nel campo schiettamente imprenditoriale: la gestione della ricerca e della coltivazione dei giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi da poco scoperti nella Valle Padana venne affidata in regime di monopolio all’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), costituito per l’occasione dalla L. 10 febbraio 1953, n. 163.
In qualità di ente pubblico economico con partecipazioni in società per azioni, ben presto entrò in possesso non solo delle partecipazioni azionarie che lo Stato già possedeva nell’AGIP, ma anche dell’intero compendio patrimoniale dell’Ente Nazionale Metano.
Sebbene il potere gestionale fosse nelle mani del consiglio d’amministrazione, all’interno del quale vi era una giunta esecutiva nominata direttamente dal Consiglio dei Ministri, concretamente fu l’operato del primo presidente, Enrico Mattei, a rendere l’ENI una delle principali potenze mondiali nel settore petrolifero nonché la seconda grande holding pubblica dopo l’IRI[6].
Eppure in pochi anni la questione dell’azionariato di Stato divenne quasi un problema: sviluppatosi con impeto nel dopoguerra in perfetta linea con il periodo fascista, venne incrementato con vigore negli anni del “miracolo economico”: a metà degli anni Cinquanta si contavano un numero spropositato di partecipazioni statali suddivise tra IRI, ENI e diversi ministeri[7].
Allora, in virtù del principio di responsabilità ministeriale, si decise di dare vita piuttosto ad un centro di imputazione degli interessi pubblici distinto, in modo da imputare ad un unico soggetto giuridico tanto le partecipazioni azionarie dello Stato dirette quanto quelle indirette.
Con la L. 22 dicembre 1956, n. 1589 venne creato il Ministero delle partecipazioni statali, organo sotto il cui controllo finirono, per l’appunto, rilevanti enti pubblici economici di gestione quali l’IRI e l’ENI; in questo modo l’operato di ciascuno di essi era comunque sempre riconducibile alla responsabilità di un ministro.
D’altra parte, però, fu proprio in questa occasione che venne sancito il principio secondo cui lo Stato di per sé non può assumere la qualità di azionista diretto in una società per azioni di diritto privato[8]: di conseguenza, tutte le azioni di proprietà diretta dello Stato vennero trasferite agli enti pubblici di gestione, per quanto a loro volta pur sempre sottoposti al controllo del Ministero e pertanto dello Stato[9].
Questa disposizione ad ogni modo non fece altro che incentivare ulteriormente l’interventismo statale, cosicché agli inizi degli anni Sessanta gli enti pubblici e le società a partecipazione pubblica risultavano i modelli di impresa pubblica più diffusi.
Allo scopo di assicurare una distribuzione di energia elettrica sufficiente alle esigenze dello sviluppo economico italiano, nel 1962 fu la volta della “nazionalizzazione[10]” dell’industria elettrica.
Tra l’altro questo fu l’unico caso in cui venne concretamente esercitato il potere previsto dall’art. 43 della Costituzione[11]: qualora previsto da un provvedimento legislativo, in determinati settori, tra cui quello delle fonti di energia, era dunque consentita l’espropriazione, previo indennizzo[12], e la riserva originaria di imprese o di categorie d’imprese.
Perciò, sulla base della L. 6 dicembre 1962, n. 1643 vennero accorpate oltre 1200 aziende elettriche[13] in un unico soggetto, l’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (ENEL)[14], in favore del quale venne conseguentemente disposta la riserva originaria per la produzione e la distribuzione di energia elettrica.
Pur configurandosi formalmente come ente pubblico economico dotato di personalità giuridica e sottoposto al controllo contabile della Corte dei conti, venne sostanzialmente predisposto dal Governo come impresa pubblica che agisse secondo le direttive di un comitato di ministri e ad ogni modo sotto la vigilanza del Ministero per l’industria[15].
In definitiva, l’Italia negli anni Sessanta stava attraversando il primo grande processo di sviluppo economico della sua storia, al punto da spostare gran parte della forza lavoro dal settore agricolo a quello industriale e renderla quindi una delle principali potenze industriali dell’Occidente.
2. La crisi degli anni Settanta
Tuttavia, mentre da un lato «si diffondeva il benessere e crescevano i rendimenti delle imprese, […] da più parti si iniziavano a segnalare le distorsioni, le inefficienze, i guasti che con quella crescita andavano di pari passo aumentando»[16].
La politica tentò di dare una risposta a questa serie di osservazioni mediante una politica di programmazione che orientasse l’iniziativa economica privata verso una maggiore razionalità e ne supplisse eventuali carenze.
Effettivamente, dopo un intenso dibattito sul significato dell’art. 41, comma 3 della Costituzione[17] e sulla conseguenziale ammissibilità di pianificazione e programmazione, per un’economia di tipo misto come quella italiana si era concordemente giunti ad ammettere quantomeno la seconda.
Così, nonostante le incertezze, la L. 27 luglio 1967, n. 685 approvò l’unico piano quinquennale (1966-1970) che l’economia italiana abbia mai conosciuto, predisposto sulla base delle linee guida elaborate in prima battuta dal Ministro delle finanze Vanoni nel 1954 e poi aggiornate con la nota aggiuntiva alla relazione sulla situazione economica del paese per il 1961 dal Ministro del bilancio La Malfa nel 1962.
Ciò nonostante, «gli anni del “boom” erano ormai passati e con esso anche gli entusiasmi per la pianificazione, che appariva giusto un “disegno sovrastrutturale”»[18] tanto da rivelarsi un totale fallimento.
Viceversa, ebbe decisamente più successo la politica di sovvenzioni pubbliche e sostegni mirati che lo Stato intraprese in quegli stessi anni al fine di assecondare la crescita del Paese in determinati settori dell’impresa; si inaugurava dunque un nuovo tipo di intervento pubblico, in base al quale esso, oltre a perseverare nel mercato come produttore, assumeva pure il ruolo di finanziatore[19].
Con l’inizio degli anni Settanta del XX secolo, per la società italiana si aprì una stagione tanto nuova quanto diversa dalla precedente: il passaggio fu assolutamente repentino e veemente, al punto da far precipitare l’Italia in quel periodo di crisi generale che prese poi il nome di “anni di piombo”.
Con tutto ciò, per la Pubblica Amministrazione la vicissitudine della solidarietà nazionale che caratterizzò quegli anni così difficili non rappresentò altro che l’ennesima opportunità per incrementare il proprio raggio di azione.
Infatti, considerato che l’apparato burocratico nel suo complesso aveva appena subito un forte scombussolamento con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, ed era ancora in fase di assestamento, con questa ulteriore espansione il sistema amministrativo “parallelo” andò definitivamente fuori controllo.
Risultando questo completamente deficitario in quanto a metodo e razionalità, nel giro di breve si rese necessaria la promulgazione della L. 20 marzo 1975, n. 70, provvedimento che mirava se non altro a riordinare e rendere più funzionale l’intero assetto degli enti pubblici, quantomeno a livello istituzionale.
Malgrado la maggior parte di disposizioni dedicate al personale, venne disposta la soppressione di un cospicuo numero di enti[20]; ma nel complesso la normativa non ebbe che esiti sconfortanti, considerato soprattutto che lo strumento organizzativo dell’ente ne uscì sostanzialmente indebolito a fronte di una società e di un’economia, invece, sempre più complesse.
Di conseguenza, divenne necessario dotare il panorama amministrativo italiano di ulteriori figure organizzative, idonee ad affrontare la sempre maggiore concorrenza nel settore terziario così come le crescenti aspettative degli utenti.
Ebbene, intanto che “la polverizzazione dell’arcipelago degli enti[21]”, inevitabilmente, si protraeva senza sosta, nell’ordinamento italiano comparvero per la prima volta tanto amministrazioni autonome dotate di personalità giuridica[22], quanto “società per azioni di diritto speciale[23]” provviste di capitale pubblico e privato.
Ma la figura intermedia che senz’altro rivoluzionò da più punti di vista il nostro sistema amministrativo fu quella delle autorità amministrative indipendenti: una novità assoluta mutuata dal diritto anglosassone; di carattere prettamente tecnico ed addirittura indipendenti dal Governo, nei settori strategici dell’ordinamento ben presto di authorities ne venne costituito un numero cospicuo[24].
Ai fatti, fu la L. 7 giugno 1974, n. 216 ad istituire la Commissione Nazionale per le società e la borsa (CONSOB), prima autorità indipendente italiana della storia.
Nondimeno, quelli furono pure anni di grandi riforme per l’ordinamento italiano: sistema tributario, scuola e sanità, solo per citarne alcune.
Peraltro, la creazione del Servizio Sanitario Nazionale[25] nel 1978 segnò, al tempo stesso, il punto di massima espansione della sfera pubblica come pure l’inizio di quel inarrestabile processo di arretramento che, per gradi, condusse in seguito lo Stato ad uscire dalla gestione diretta dei principali servizi pubblici.
Nell’insieme, all’inizio degli anni Ottanta l’impianto organizzativo dello Stato non risultava razionalizzato bensì più complesso e più frammentato di prima: nuovi modelli gestionali si erano aggiunti ai precedenti ma senza sostituirli, tanto che il carattere pluralistico delle realtà amministrative intermedie aveva fatto perdere alla burocrazia statale persino quel minimo di unità che le era rimasta[26].
3. Conclusioni
Orbene, tenuto conto di come il rapporto tra pubblico e privato ed il suo svolgimento in chiave storica rappresentino una perfetta descrizione del rapporto tra Stato e cittadini, ciò che emerge, innanzitutto, dall’analisi delle diverse modalità con cui autorità pubblica e privati hanno interagito dall’Unità d’Italia ad oggi, è come nei vari decenni l’interventismo statale si sia espanso e contratto – con un movimento simile a quello del mantice di una fisarmonica –proporzionalmente all’andamento dell’economia italiana.
Più approfonditamente, sono state le grandi crisi economiche di livello globale a tracciarne il percorso: nel 1929 furono le conseguenze del crollo della borsa di Wall Street a causare l’avvio di quel processo di entificazione che non avrebbe conosciuto soluzione di continuità sino agli anni Ottanta del Novecento; oggi è alla crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2008 che si deve il rientro deciso dello Stato nell’economia dopo oltre tre decenni di tendenza regressiva.
A differenza di allora, però, la Pubblica Amministrazione ora si trova a fare i conti con scarsità di risorse e vincoli di spesa che ne influenzano pesantemente l’azione: pertanto questa volta si è trovata a dover intervenire non solo per sostenere le imprese, ma anche per coinvolgere quelle imprese stesse nell’adempimento di quei compiti che essa stessa è tenuta ad assolvere.
Ecco che così la crisi economica si è trasformata nella prima vera occasione di collaborazione paritaria tra pubblico e privato.
Note:
[1] S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2006), Roma, 2007, 123.
[3] «L’amministrazione statale (o ministeriale), dunque, rimase sostanzialmente immutata nel periodo del dopoguerra, fino agli anni Sessanta. Si sviluppò invece il parastato». S. CASSESE, Stato e parastato nell’Italia del dopoguerra (1945-1963), Storia Contemporanea, 1990, 3, 565.
[5] Sulla Cassa del Mezzogiorno, si veda: V. GIOVANNELLI, L’organizzazione amministrativa dell’intervento straordinario nel mezzogiorno, Milano, 1971; S. CAFIERO, La nascita della “Cassa”, in Scritti in onore di Pasquale Saraceno, Milano, 1975.
[6] Per una panoramica complessiva sulle vicende dell’ENI e sulla figura del suo storico presidente Enrico Mattei, si veda: D. VOTAW, Il cane a sei zampe. Mattei e l’ENI. Saggio sul potere, Milano, 1965; M. COLITTI, Energia e sviluppo in Italia. La vicenda di Enrico Mattei, Bari, 1979.
[7] Si parla di circa 135 partecipazioni azionarie detenute dalla sola IRI, delle quali 35 gestite dall’ENI. Sul punto: F. BONINI, op. cit., 133.
[9] Il numero degli enti pubblici di gestione venne difatti gradualmente aumentato. Sul punto: S. CASSESE, La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 2012, 21.
[10] Secondo S. Cassese, il termine “nazionalizzazione” viene adottato impropriamente da buona parte della dottrina; infatti, appare più corretto definirla “pubblicizzazione”, considerato che produsse il trasferimento di imprese elettriche private ad un ente pubblico appositamente costituito.
[11] Costituzione italiana, art. 43: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
[12] Quella degli indennizzi, determinati sulla base del valore di mercato delle azioni di cui ciascuna società proprietaria era in possesso, all’epoca fu una delle questioni più dibattute intorno alla “nazionalizzazione” dell’energia elettrica. Per un approfondimento, si veda: G. CARLI, Pensieri di un ex governatore, Pordenone, 1988.
[13] Nonostante l’esistenza di diverse realtà, gli imprenditori elettrici finivano spesso per accordarsi in un unico trust, di fatto pregiudicando gli utenti.
[14] Per una panoramica complessiva sulle vicende dell’ENEL, si veda: G. ZANETTI, G. FRAQUELLI, Una nazionalizzazione al buio. L’ENEL dal 1963 al 1978, Bologna, 1979.
[17] Costituzione italiana, art. 43, c. 3: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
[19] «Le nuove politiche economico sociali degli anni Sessanta, accrescendo il campo di intervento dello Stato, paradossalmente favorirono invece allocazioni delle funzioni vere e proprie dall’amministrazione tradizionale, che per sé mantenne piuttosto la responsabilità del trasferimento delle relative risorse». G. MELIS, op. cit., 490.
[22] «Più nettamente separate dal ministro di riferimento rispetto al tipo di fine anni Venti e più simili agli enti nel disegno organizzativo e nei poteri». S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 175. Su tutte, l’Azienda autonoma assistenza al volo e per il traffico aereo generale (AAAVTAG) istituita dalla L. 23 maggio 1980, n. 242.
[23] «Dalla forma giuridica privatistica ma dotata di personalità giuridica di diritto pubblico». S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 175. Ne è un chiaro esempio l’Agenzia per i controlli e le azioni comunitarie nel quadro del regime di aiuto alla produzione dell’olio di oliva (AGECONTROL), creata nel 1985 con capitale fornito dal Ministero dell’agricoltura e da varie associazioni di produttori agricoli.