L’efficacia della legge penale al tempo del Covid-19
Sommario: 1. Introduzione – 2. La disciplina generale della successione della legge penale nel tempo – 3. L’efficacia delle leggi penali al tempo del Coronavirus – 4. Riflessioni conclusive
1. Introduzione
Il Governo Italiano, per fare fronte alla grave emergenza sanitaria provocata dal Coronavirus, ha fatto recentemente un ampio ricorso alla decretazione d’urgenza (D.P.C.M. e Decreto-Legge) contribuendo a creare una stratificazione legislativa complessa e frammentaria. Lo scopo dell’elaborato è dunque quello di approfondire la disciplina in materia di successione delle leggi penali nel tempo al fine di individuare alcuni criteri e linee guida per orientarsi fra i numerosi provvedimenti governativi che sono stati emanati in questi ultimi mesi per fronteggiare l’emergenza sanitaria Covid-19. La trattazione, per uno schema più ordinato e logico, sarà suddivida in due differenti parti.
La parte c.d. statica ha ad oggetto la disciplina generale e teorica dell’efficacia della legge penale nel tempo e prenderà in esame tutti i commi dell’art. 2 c.p. nonché l’approfondimento di alcune principali criticità come la verifica della sussistenza del rapporto di continuità fra leggi penali, la distinzione fra i casi di abolitio e quelli di abrogatio e l’individuazione dei criteri per stabilire quale sia la norma penale più favorevole. All’esito della prima parte dello scritto il fine che ci si propone sarà quello di fornire al lettore gli strumenti di parte generale per un’agevole comprensione del testo e delle problematiche che si affronteranno nella seconda parte dell’elaborato.
Nella parte c.d. dinamica ci si propone, invece, di applicare la normativa prevista per la successione delle leggi penali ai provvedimenti emanati dal legislatore delegato in questi ultimi mesi. In particolare saranno oggetto di approfondimento: il rapporto fra legge ordinaria e fonte subordinata; la successione di leggi penali temporanee o eccezionali; infine la disciplina in materia di successione tra illecito penale ed illecito amministrativo.
Nella manifesta impossibilità di addivenire ad una soluzione finale e cristallizzata dal momento che l’emergenza sanitaria è ancora in essere, l’obiettivo dello scritto sarà quello di proporre alcuni spunti di riflessione a partire proprio dall’applicazione delle disposizioni generali del codice penale alla decretazione d’urgenza.
2. La disciplina generale della successione della legge penale nel tempo
L’efficacia delle norme nel tempo conosce, in materia penale, alcune eccezioni rispetto alla disciplina della legge in generale. La disciplina comune della successione di leggi, infatti, è regolata dal principio del tempus regit actum secondo il quale, da una parte, la norma introdotta successivamente non può applicarsi ai casi precedenti alla sua entrata in vigore (c.d. principio di irretroattività) e, dall’altra, non può produrre i suoi effetti nei confronti dei fatti successivi al venir meno dell’efficacia della norma stessa (c.d. principio di non ultra-attività della norma). Il principio di irretroattività della norma sfavorevole trova il suo fondamento normativo nella Costituzione ai sensi dell’art. 25 co. 2 e nella CEDU all’art. 7 ed è dunque un principio inderogabile. In materia penale, il principio del tempus regit actum viene recepito dall’art. 2 co. 1 c.p.: “ nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso non costituiva reato”; la norma disciplina il c.d. fenomeno della nuova incriminazione che ricorre quando una legge introduce una figura di reato prima inesistente[1]. La ratio dell’art. 2 co. 1 c.p. è, da una parte, quella di impedire abusi da parte del legislatore e vincolare il giudice alla legge e, dall’altra, garantire a tutti i consociati di conoscere preventivamente la sanzione penale corrispondente ad un determinato fatto o comportamento. Il diritto penale, tuttavia, in materia di successione delle leggi nel tempo, conosce una serie di deroghe rispetto alla disciplina generale, in quanto è previsto anche il principio di retroattività della norma favorevole. Quest’ultimo principio, tuttavia, a differenza dell’irretroattività della norma sfavorevole, non trova alcun fondamento normativo nella Costituzione. Inizialmente, autorevole dottrina attribuiva rilevanza costituzionale al principio di retroattività della norma penale favorevole sulla base dell’art. 3 Cost. in nome di un’effettiva parità formale e sostanziale dal punto di vista del trattamento sanzionatorio; recentemente, invece, il dibattito sembra essere stato superato mediante una lettura convenzionalmente orientata dell’art. 7 CEDU in combinato disposto con l’art. 117 Cost.[2]. In assenza di un espresso riferimento costituzionale, tuttavia, essendo la CEDU un mero parametro interposto di legittimità costituzionale assurgendo a fonte di rango sub-costituzionale, la retroattività della norma favorevole rimane un principio derogabile nel rispetto dei criteri di ragionevolezza e di tutela di beni o interressi parimenti garantiti dalla Carta Costituzionale.
Ciò premesso, occorre di seguito volgere lo sguardo alla disciplina della successione della legge penale nel tempo approfondendo i restanti commi dell’art. 2 c.p. che regola il duplice meccanismo dell’irretroattività della norma penale sfavorevole e della retroattività della norma penale favorevole.
Il primo comma dell’art. 2 c.p., come detto in premessa, disciplinando l’ipotesi di introduzione di una nuova norma incriminatrice, recepisce di fatto il generale divieto di retroattività della norma penale sfavorevole.
I commi successivi dell’art. 2 c.p. regolano, invece, le modalità operative del principio di retroattività della norma penale favorevole.
Il secondo comma dell’art. 2 c.p. stabilisce che l’abrogazione di una norma penale produce il suo effetto favorevole in modo retroattivo impedendo che taluno possa essere punito per un reato che era in vigore al momento della commissione del fatto tipico ma che, a seguito di un intervento legislativo, è stato abrogato. L’abolitio criminis, che si verifica quando un fatto cessa di essere reato, può essere totale nel caso di abolizione dell’intera preesistente fattispecie penale, ovvero parziale allorquando la nuova norma restringe l’ambito applicativo della fattispecie penale, escludendo taluni fatti o taluni soggetti prima ricompresi (c.d. abolitio sine abrogatio).
Il terzo comma della medesima norma recepisce, invece, il principio di retroattività della norma favorevole per quanto concerne il profilo sanzionatorio della norma penale e stabilisce che nel caso in cui la legge posteriore preveda solamente la pena pecuniaria, la pena detentiva debba essere convertita in pena pecuniaria ai sensi dell’art.135 c.p.; in questo caso non vale il limite giudicato.
L’art. 2 co. 4 c.p. regola l’ipotesi di una modifica legislativa e dunque postula l’esistenza di due norme penali con differenti trattamenti sanzionatori. È di primaria importanza stabilire se la modifica abbia natura peggiorativa o migliorativa: nel primo caso si applica il generale principio di irretroattività della norma penale; mentre nel caso di modifica in melius trova applicazione il principio di retroattività della norma favorevole. La disposizione, tuttavia, a differenza dei commi precedenti, ha come limite quello del giudicato, nel senso che non si applicherà la norma successiva modificativa in melius nel caso in cui vi sia stata già una sentenza di condanna passata in giudicato.
Il comma 5 dell’art. 2 c.p. esclude, invece, l’applicazione dei principi di irretroattività sfavorevole e di retroattività favorevole nel caso in cui la legge abbia carattere eccezionale o temporaneo. Per legge temporanea s’intendono tutte quelle norme destinate a durare solo per un tempo circoscritto e determinato dalla stessa legge; mentre per legge eccezionale si fa riferimento a quelle norme emanate per far fronte ad una emergenza o ad un fatto manifestamente imprevedibile. Il legislatore stabilisce che non si applica il principio di retroattività della norma favorevole per due ordini di ragioni: le finalità che si vogliono perseguire a seguito dell’emanazione di leggi eccezionali e/o temporanee sarebbero frustate dall’applicazione del regime di favore dell’originaria previsione normativa, inoltre i consociati sarebbero indotti a violarle nell’imminenza della loro estinzione[3].
Infine, il sesto comma estende tutti i principi dell’art. 2 c.p. ai casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto legge e nei casi di decreto legge convertito in legge con emendamenti. L’art. 77 Cost. stabilisce che in caso di mancata conversione del decreto legge gli effetti cessano in modo retroattivo come se il decreto legge non fosse mai entrato in vigore. La questione problematica è dunque quella di stabilire quale disciplina normativa possa trovare applicazione nel caso in cui un fatto-reato sia stato commesso durante la vigenza di un decreto legge che poi non venga convertito nei termini di legge.
Occorre, dapprima, distinguere a seconda che il decreto legge introduca una disciplina più favorevole ovvero sfavorevole rispetto alla normativa previgente e, successivamente, individuare il c.d. tempus commissi delicti[4].
Nel caso in cui il fatto sia stato compiuto sotto la vigenza della legge anteriore, nonostante il decreto legge abbia introdotto una disciplina sfavorevole, continua ad applicarsi la norma originaria in quanto comunque, anche in caso di conversione, si sarebbe applicato il principio di retroattività della norma più favorevole ex art. 2 co. 4 c.p.; mentre nell’ipotesi in cui il fatto sia stato commesso nel corso della vigenza di un decreto legge che abbia introdotto una modifica in peius si applicherà la legge favorevole che succede. Nell’ipotesi in cui il fatto è compiuto sotto la vigenza di un decreto legge che introduce una modifica in melius è invece necessario un bilanciamento fra l’art. 25 co. 2 Cost. e l’art. 77 Cost. L’interpretazione prevalente ritiene non possa verificarsi un’ipotesi di successione di leggi penali in quanto la mancata conversione del decreto legge determinerebbe la regressione alla norma originaria. Una simile conclusione, tuttavia, appare poco accettabile in quanto finirebbe per derogare al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole ex art. 25 co. 2 Cost. Un’interpretazione più coerente, infatti, imporrebbe di ritenere l’art. 25 co. 2 Cost. prevalente rispetto all’applicazione dell’art. 77 Cost. pertanto, anche nel caso di mancata conversione in legge, dovrebbe comunque essere applicata la norma più favorevole al reo che ha commesso il fatto durante la vigenza del decreto legge che aveva introdotto una modifica più favorevole rispetto alla norma originaria[5]. Infine, nell’ipotesi in cui il fatto sia stato compiuto sotto la vigenza della legge anteriore nonostante il decreto legge avesse introdotto una disciplina più favorevole, continua ad applicarsi la norma precedente[6].
Una rapida disamina della disciplina ai sensi dell’art. 2 c.p. era necessaria e funzionale per inquadrare i plurimi aspetti di problematicità che di seguito saranno presi in esame da un punto di vista teorico-dottrinale ma che, nel paragrafo successivo, acquisteranno un’importante valenza pratico-operativo in quanto, in un momento storico di copiosa produzione legislativa, permette all’operatore del diritto di orientarsi ed individuare la norma applicabile al fatto concreto.
a) La prima valutazione che deve essere svolta attiene alla verifica circa la sussistenza o meno di un rapporto di continuità fra norme penali. Nel caso in sui si verifichi effettivamente una continuità fra leggi penali, la disciplina applicabile sarà quella ai sensi dell’art. 2 co. 4 c.p. mentre, nella differente ipotesi si ricadrebbe nel primo comma dell’art. 2 c.p. che disciplina il fenomeno della nuova incriminazione. Nella prassi questa prima valutazione appare agevole in quanto non deve essere esperito alcun confronto comparativo fra norme, anzi sarà proprio l’accertamento dell’insussistenza di una precedente norma penale in relazione ad un determinato fatto tipico che permetterà all’operatore del diritto di comprendere di essere in presenza ad una nuova fattispecie incriminatrice ai sensi del primo comma dell’art. 2 c.p.
b) Nel differente caso in cui sussistano due norme penali che disciplinano un medesimo fatto tipico l’interpretare, invece, ha il difficile compito di individuare la norma applicabile al caso di specie. In caso di continuità fra norme penale (rectius: successione di leggi penali nel tempo) il problema, nel silenzio della legge, consiste nello stabilire se vi sia una vera e propria abolitio criminis ex art. 2 co. 2 c.p. che prevede l’applicazione retroattiva della nuova norma senza il limite del giudicato, oppure se si ha un caso di continuità di illecito penale in quanto la norma successiva apporta delle mere modifiche alla norma esistente ai sensi dell’art. 2 co. 4 c.p. Per distinguere i casi di abolitio da quelli di abrogatio la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato tre criteri: il primo è il c.d. criterio della doppia punibilità in concreto secondo il quale vi è una mera modificazione nel caso in cui il fatto concretamente commesso sotto la vigenza della prima norma risulti punibile anche sotto la vigenza di quella successiva (si richiama la formula “prima punibile – dopo punibile – sempre punibile”)[7]; il secondo è il c.d. criterio valutativo il quale stabilisce che vi sia una semplice modificazione quando fra la norma successiva e quella precedente vi sia un’omogeneità rispetto al bene giuridico tutelato[8]; infine il c.d. criterio strutturale o anche criterio della continenza che fa leva sulla sussistenza di un rapporto di genere a specie fra la norma precedente e quella successiva[9]. La giurisprudenza di legittimità ha adottato principalmente il criterio della continenza che si presta meglio ad identificare il fenomeno della successione modificativa fra norme penale che si verifica allorquando la norma successiva è speciale e dunque ricompresa in quella precedente che ha carattere generale.
c) Dopo essersi accertarti trattasi di successione della legge penale ai sensi dell’art. 2 co. 4 c.p., la questione problematica concerne l’individuazione dei criteri per stabilire quale sia la norma penale più favorevole. Per stabilire quando ci si trovi di fronte ad una disposizione più favorevole occorre operare un raffronto in concreto tra la disciplina prevista dalla vecchia norma e quella introdotta dalla nuova. Dovrà essere svolto un giudizio comparativo complessivo fra le due norme che tenga conto non solo dei massimi e dei minimi edittali di pena, ma anche delle pene accessorie, delle circostanze aggravanti o attenuanti, delle cause di esclusione della pena o del reato, degli eventuali benefici di leggi. Un giudizio approfondito, dunque, che prenda in esame tutti gli aspetti dei differenti trattamenti sanzionati delle norme in esame, non essendo invece possibile la cosiddetta applicazione “a scacchiera”, prendere parte del trattamento sanzionatorio di un reato e parte di un’altra norma penale, dovendosi, al contrario, individuare un’unica norma penale.
3. L’efficacia delle leggi penali al tempo del Coronavirus
Il seguente paragrafo si pone l’obiettivo di applicare i principi, le norme e gli istituiti sopra analizzati ai provvedimenti di emanazione governativa adottati per far fronte all’emergenza sanitaria da Covid-19. In particolare, sarà oggetto di approfondimento: il rapporto fra legge ordinaria e fonte subordinata; la successione di leggi penali temporanee o eccezionali; infine la disciplina in materia di successione tra illecito penale ed illecito amministrativo.
a) Il rapporto fra legge ordinaria e fonte subordinata.
Il primo provvedimento avente forza di legge adottato dal Governo è stato il Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6, Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, il cui art. 3 co. 4 stabiliva che: “salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto e’ punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale”. In via del tutto preliminare occorre verificare se vi sia stata una possibile violazione del principio di legalità e del principio di tassatività ai sensi dell’art. 25 co. 2 Cost. In materia penale la riserva di legge deve essere intesa come riserva assoluta con riferimento alla legge in senso formale ex art. 70-74 Cost. Invero, l’interpretazione assolutamente dominante annovera fra le fonti del diritto penale anche le leggi in senso materiale, ovvero decreti legge e leggi delegate[10]. La tensione con il principio di legalità si avverte soprattutto con riferimento all’art. 2 del Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6: “le Autorita’ competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all’articolo 1, comma 1”. Emerge dunque un problema di rapporto fra legge ordinaria e fonti subordinate. Il carattere assoluto della riserva di legge, infatti, ha un contenuto “elastico” in quanto non implica ex ante l’esclusione del concorso del potere normativo secondario nella configurazione del reato. Nella disciplina che regola i modelli di integrazione tra legge e fonte normativa subordinata una menzione particolare deve essere svolta in ordine alle norme penali in bianco. Il legislatore delegato infatti, previa clausola residuale “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, individua la norma sanzionatrice per la violazione delle prescrizioni finalizzate al contenimento della diffusione del coronavirus, nell’art. 650 c.p. “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”, che è l’esempio per eccellenza di una norma penale in bianco. L’art. 650 c.p., infatti, si limita a stabilire un quantum di pena senza tuttavia specificare alcun fatto tipico, ma rinviando per la sua individuazione ad un provvedimento dell’autorità competente determinando un deficit di legalità rispetto ai principi di cui agli art. 25 co. 2 Cost. e art. 7 CEDU. Tuttavia, già in diverse occasioni, la Corte Costituzionale ha avuto modo di dichiarare la legittimità costituzionale dell’art. 650 c.p. motivando che non vi è alcuna violazione del principio di legalità quando sia lo Stato a indicare i caratteri, i presupposti e il contenuto dei provvedimenti amministrativi[11]. In linea di principio, dunque, l’art. 650 c.p. non comporta una violazione del principio di legalità, tuttavia il problema che si pone è quello di stabilire il grado di incidenza della normativa secondaria rispetto alla cornice legale della fattispecie incriminatrice. Nel caso in cui l’apporto della normativa secondaria non si limiti a specificare elementi di un precetto posto dalla legge, ma si estenda sino al punto da prescrivere vere e proprie regole di comportamento, infatti, si ricadrebbe nella violazione dell’art. 25 co. 2 Cost.. Volgendo lo sguardo al caso in esame, il legislatore con l’articolo 1, comma 1 del decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020 prescriveva specifiche regole di condotta la cui violazione sarebbe stata sanzionata con l’art. 650 c.p. ma, al contempo, con l’art. 2 riconosceva in capo alle Autorità competenti il potere di apportare con fonti normative di rango inferiore ulteriori misure e prescrizioni comportamentali rispetto a quelle individuate dal legislatore delegato. Nel caso di violazione delle prescrizioni di cui all’art. 1 del Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6 (poi convertito con Legge 5 marzo 2020, n. 13) il trattamento sanzionatorio applicabile sarebbe quello di cui all’art. 650 c.p., salvo che il fatto non costituisca più grave reato; mentre nell’ipotesi di una violazione di una prescrizione stabilita da un’Autorità ai sensi dell’art. 2 del medesimo decreto legge, occorre stabilire il grado in incidenza delle modifiche normative rispetto al contenuto della norma penale per individuare il trattamento sanzionatorio applicabile alla violazione della regola di condotta. Ci si interroga dunque rispetto a quali tipologie di modifiche normative possano essere applicate alla disciplina della successione delle leggi penali nel tempo, in particolare distinguendo a seconda di una modifica c.d. indiretta o mediata ovvero una modifica che incida direttamente sugli elementi costituitivi della fattispecie incriminatrice. Sul punto si registra un accesso dibattito dottrinale fra coloro che ritengono sempre applicabile la disciplina ex art. 2 c.p. in quanto l’elemento integrativo contribuisce a disciplinare i presupposti normativi stessi e dunque incide sulla rilevanza penale della norma stessa, e coloro che invece ritengono del tutto inapplicabile l’art. 2 c.p., in quanto il provvedimento integrativo è un mero elemento normativo accessorio alla norma, infine coloro che ritengono che detta valutazione debba essere svolta caso per caso. Nel caso in esame, per l’appunto, dovrà essere accertata se l’integrazione di fonte subordinata incida direttamente sugli elementi essenziali del reato ex art. 650 c.p. ovvero vi sia stata una mera integrazione della fattispecie incriminatrice. A ben vedere, essendo particolarmente difficile stabilire con certezza in quali casi la modifica/integrazione normativa incida realmente sulla fattispecie incriminatrice astratta appare preferibile la tesi estensiva che riporta all’applicazione dell’art. 2 c.p. anche all’ipotesi di norma penale in bianco. Per addivenire a questa prospettazione, autorevole dottrina ricorre alla tesi dell’incorporazione della disposizione integratrice dell’elemento normativo (o della norma penale in bianco) nella stessa norma incriminatrice. In altri termini, la norma integratrice delle Autorità competenti contribuisce a disciplinare i presupposti normativi della rilevanza penale del fatto, finendo per essere un tutt’uno con la norma incriminatrice stessa di fatto determinando l’applicazione della disciplina della successione della legge penale nel tempo.
b) Problemi di diritto intertemporale. Le leggi eccezionali e i decreti legge non ancora convertiti.
Il primo provvedimento che il legislatore delegato ha adottato per quanto concerne il profilo sanzionatorio delle prescrizioni finalizzate al contenimento del contagio del virus è stato il Decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6; l’art. 1 co. 1 lett h) che prescriveva la regola di condotta dell’“applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva” e disponeva che, ai sensi dell’art. 3 co. 4 del medesimo decreto legge, la violazione della misura di contenimento venisse punita ai sensi dell’articolo 650 c.p., salvo che il fatto non costituisca più grave reato. Il Decreto legge sopra indicato veniva convertito con Legge 5 marzo 2020, n. 13 recante “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”. Sorge dunque un problema di qualificazione della natura stessa della legge sopra citata al fine di risolvere un eventuale conflitto di diritto intertemporale fra norme penali. La formulazione stessa induce a qualificare la legge come “eccezionale” il cui ambito di operatività temporale è circoscritto alla persistenza di una situazione del tutto imprevedibile e fuori dall’ordinario. Il caso dell’epidemia (rectius: pandemia) rientra perfettamente nel genus delle leggi eccezionali. L’art. 2, co. 5 c.p. disciplina il caso di successione delle leggi eccezionali e stabilisce che non si applica la regola di cui ai commi 2 e 4 dello stesso articolo, dunque non trova applicazione il principio della retroattività della norma più favorevole. La ratio è quella di introdurre per l’appunto una normativa in deroga rispetto a quella ordinaria al fine di far fronte ad un evento imprevedibile ed eccezionale che di fatto sarebbe vanificato qualora si acconsentisse l’applicazione del principio del favor rei in quanto non solo si vanificherebbe il rispetto delle norme eccezionali vigenti ma si incentiverebbe la criminalità nella certezza di una futura impunità derivante dall’applicazione retroattiva della norma più favorevole. Successivamente entrava in vigore il Decreto legge 9 marzo 2020, n. 14, ove all’art. 15 il legislatore delegato stabiliva una depenalizzazione di alcune violazioni solo per alcuni soggetti, quali i gestori di pubblici esercizi o di attività commerciali. La violazione della quarantena domiciliare dunque rimaneva nell’area del penalmente rilevante ai sensi degli artt. 650 e 452 c.p. Infine entrava in vigore il Decreto legge 25 marzo 2020, n. 19 con il quale, all’art. 1 co. 1 lett. e), il legislatore disciplinava espressamente l’ipotesi di allontanamento dalla propria abitazione o dimora da parte di persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus. La regola di condotta che precedentemente era sanzionata penalmente ai sensi dell’art. 650 c.p. ovvero, nelle ipotesi più gravi, ai sensi dell’art. 452 c.p., con l’entrata in vigore dell’art. 4 co. 6 del Decreto legge 25 marzo 2020, n. 19 veniva punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7. Il comma 7, infatti, del medesimo Decreto legge stabilisce che: “le parole «con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da lire 40.000 a lire 800.000» sono sostituite dalle seguenti: «con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000». Ai sensi del combinato disposto dell’art. 4 comma sesto Decreto Legge 25 marzo 2020 n. 19 e dell’art. 1 comma 2 lett. e) dello stesso decreto, il legislatore delegato “creava” il nuovo reato di violazione all’obbligo di quarantena, punito con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da € 500 ad € 5.000. In attesa della conversione dei sopra indicati Decreti legge, si evidenzia che nei prossimi mesi sorgeranno frequenti e complessi problemi di diritto intertemporale che, obtorto collo, dovranno essere risolti con gli strumenti dell’art. 2 c.p. che regola la disciplina della successione delle leggi penali. L’operatore del diritto dovrà essere in grado di districarsi fra reati già esistenti come l’art. 650 c.p., leggi eccezionali, decreti legge non convertiti, depenalizzazioni e anche nuove fattispecie incriminatrici come il reato di violazione all’obbligo di quarantena disciplinato dal combinato disposto dell’art. 4 comma sesto Decreto legge 25 marzo 2020 n. 19 e dell’art. 1 comma 2 lett. e) dello stesso decreto.
c) La successione tra illecito penale ed illecito amministrativo.
Il legislatore delegato, a seguito di un esponenziale aumento dei contagi e al fine di applicare misure ancora più rigorose e stringenti, dopo appena una settimana dalla conversione del Decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, con l’art. 15 del Decreto legge 9 marzo 2020, n. 14, “Disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza COVID-19”, precisava che: “salva l’applicazione delle sanzioni penali ove il fatto costituisca reato, la violazione degli obblighi imposti dalle misure di cui al comma 1 a carico dei gestori di pubblici esercizi o di attivita’ commerciali e’ sanzionata altresi’ con la chiusura dell’esercizio o dell’attivita’ da 5 a 30 giorni. La violazione e’ accertata ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e la sanzione e’ irrogata dal Prefetto”. L’art. 1 della L. 689/1981 stabilisce che: “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”; di fatto sancisce il principio di irretroattività sfavorevole con riferimento alle sanzioni amministrative, ovvero la sanzione amministrativa prevista per la prima volta non può essere applicata ai fatti precedenti. Occorre però stabilire che cosa accada nel caso di depenalizzazione di un fatto in precedenza sanzionato penalmente. Senza una disciplina transitoria, infatti, al fatto commesso anteriormente alla legge di depenalizzazione non potrà essere applicato dopo l’entrata in vigore di tale legge né la norma penale in applicazione del principio di retroattività favorevole ex art. 2 co. 2 c.p. verificandosi un’ipotesi di abolitio criminis, né la sanzione amministrativa in forza del principio di irretroattività sfavorevole ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 2 co. 1 c.p. e art. 1 L. 689/1981. Per far fronte a questo problema il legislatore ha previsto un’apposita disciplina transitoria agli artt. 40 e 41 della stessa Legge 689/1981, stabilendo che per i fatti pregressi depenalizzati, non ancora definiti con sentenza passata in giudicato, si sarebbero comunque applicate le nuove sanzioni amministrative, con conseguente applicazione retroattiva della norma (sfavorevole) che ha stabilito la sanzione amministrativa[12]. Le Sezioni Unite della Suprema Corte con la Sentenza n. 15629 del 2009 hanno ritenuto, in via preliminare, che l’art. 40 della L.689/1981 sancisca un principio generale applicabile a tutti i successivi interventi legislativi di depenalizzazione in assenza di una disciplina transitoria e, in via principale, hanno stabilito che non si verificasse alcuna violazione dell’art. 25 co. 2 Cost. in quanto, senza l’art. 40 della L.689/1981, si sarebbe creata una “zona grigia” di totale impunità per coloro che avessero commesso un fatto prima della depenalizzazione previsto come reato, determinando così un’indebita violazione dell’art. 3 Cost. rispetto a coloro che, invece, avrebbero commesso quello stesso fatto dopo l’intervento della depenalizzazione in quanto sarebbero stati soggetti alla sanzione amministrativa. Di avviso contrario, invece, la giurisprudenza di legittimità più recente che con la Cass. Sez. Un. Sent. n. 25457 del 2012 ha stabilito che la L. 689/1981 ha carattere meramente eccezionale e vale per i soli casi di depenalizzazione previsti dalla medesima legge non potendo assurgere a norma generale dell’ordinamento. Le Sezioni Unite, con un’applicazione più rigorosa dei principi che regolano la successione delle leggi penali nel tempo, hanno ritenuto non potersi applicare in via analogica la normativa della L. 689/1981 a tutte le ipotesi di depenalizzazioni, affermando peraltro che la persistenza dell’illecito, seppur solo come illecito amministrativo, non sia ammissibile in quanto si permetterebbe surrettiziamente di applicare una norma penale sfavorevole in via retroattiva. In definitiva è compito del legislatore prevedere un’espressa normativa transitoria altrimenti, in caso di depenalizzazione, prevale in via generale la disciplina ai sensi dell’art. 2 c.p. Nel caso in esame, il legislatore delegato, all’art. 15 del Decreto Legge 9 marzo 2020, depenalizzava la violazione degli obblighi imposti dalle misure di cui al comma 1 a carico dei gestori di pubblici esercizi o di attività commerciali che con il Decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6 erano sanzionate penalmente ai sensi dell’art. 650 c.p., prescrivendo la sola sanzione amministrativa della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. Il legislatore, facendo espresso richiamo alla disciplina transitoria di cui alla Legge 24 novembre 1981, n. 689, stabiliva che, nonostante la violazione delle condotte di cui al Decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6 fossero anteriori alla depenalizzazione, comunque si sarebbe applicata in modo retroattivo (e sfavorevole) la sanzione amministrativa. Nel caso contrario, infatti, nell’ipotesi cioè in cui non vi fosse stato un espresso richiamo alla disciplina transitoria, si sarebbe dovuta applicare la disciplina della successione della legge nel tempo ai sensi dell’art. 2 co. 2 c.p. (abolitio criminis) per tutte quelle condotte che sono state depenalizzate. L’opera di progressiva depenalizzazione ad opera del legislatore delegato proseguiva con il Decreto Legge 25 marzo 2020, n. 19, Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, ove all’art. 4, Sanzioni e controlli, si stabiliva che il mancato rispetto delle misure di contenimento e di tutte quelle regole di condotta prescritte con i precedenti Decreti legge, qualora la loro violazione non costituisca reato, sia punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da Euro 400 a Euro 3.000 e non si applichino le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale, ovvero la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. Come accaduto per il precedente decreto legge, vi è un espresso richiamo all’art. 40 della Legge 24 novembre 1981, n. 689 che garantisce l’applicazione della sanzione amministrativa anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del Decreto legge che le aveva depenalizzate.
4. Riflessioni conclusive
L’elaborato si è posto l’obiettivo di integrare un approccio teorico-dottrinale ad uno studio pratico-applicativo prendendo in esame la complessa disciplina dell’efficacia delle leggi penali nel tempo. La copiosa e frammentaria decretazione d’urgenza in materia di contenimento dei contagi da Covid-19 rappresenta un ottimo banco di prova per applicare le norme in materia di successione di leggi penali. Lo scritto si è limitato ad evidenziare alcune criticità proponendo alcuni spunti di riflessione e cercando di fornire al lettore alcuni strumenti di risoluzione di eventuali e prossimi conflitti fra norme. Una trattazione completa attualmente non è possibile data la costante proliferazione di provvedimenti da parte del Governo data l’emergenza sanitaria ancora in essere (formalmente fino al 30 luglio). Solamente all’esito della fase emergenziale si potrà dunque fare un bilancio dei provvedimenti adottati ed individuare per il singolo fatto concreto la norma penale applicabile. L’operatore del diritto avrà un ruolo tanto complicato quanto di primaria importanza e per questo dovrà farsi trovare pronto al fine di districarsi fra norme penali in vigore già prima della decretazione d’urgenza, leggi eccezionali, decreti legge non convertiti, depenalizzazioni e anche nuove fattispecie incriminatrici come il reato di violazione all’obbligo di quarantena. L’art. 2 c.p., con le sue molteplici peculiarità, rappresenterà la bussola al fine di addivenire a soluzioni coerenti e conformi con i principi costituzionali e sovranazionali.
[1] G. Fiandaca –E. Musco, Diritto penale – parte generale, Cap. 2, pag. 66, Zanichelli Editore, edizione VII.
[2] La Corte EDU con la Sentenza Scoppola c. Italia del 2009 è giunta a riconoscere in via interpretativa che il principio di retroattività della legge più favorevole è implicitamente contenuto nell’art. 7 Cedu con l’effetto di elevare il diritto ad essere condannato alla norma penale più favorevole a diritto fondamentale dell’uomo.
[3] Cass. Pen. sentenza n. 26316, 1 luglio 2008, precisa che in caso di continuità (successione) di leggi ugualmente temporanee o eccezionali si applica la disciplina di cui all’art. 2 co. 4 c.p.
[4] In assenza di un’espressa previsione legislativa la dottrina ha prospettato tre criteri per individuare il tempus commissi delicti: la teoria della condotta considera il reato commesso nel momento in cui si è realizzata l’azione o l’omissione; la teoria dell’evento secondo cui il reato è commesso quando si verifica l’evento lesivo causalmente riconducibile alla condotta e necessario ai fini della configurazione dell’illecito; la teoria c.d. mista che guarda tanto alla condotta quanto all’evento. La dottrina maggioritaria e anche la giurisprudenza adotta come criterio generale quello c.d. della condotta con alcune importanti eccezioni per alcuni reati quali ad esempio quelli permanenti, quelli abituali, i rati continuati e i reati omissivi.
[5] G. Fiandaca –E. Musco, Diritto penale – parte generale, Cap. 2, pag. 111, Zanichelli Editore, edizione VII.
[6] La Corte Costituzionale con la sentenza n. 51 del 1985 ha dichiarato illegittimo per violazione dell’art. 77 co. 3 Cost. il comma 6 dell’art. 2 c.p. nella parte in cui rendeva applicabili le disposizioni dei commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p. ai casi di mancata conversione di un decreto-legge recante norma penale più favorevole. La sentenza dunque sembra vanificare la tesi qui proposta in caso di mancata applicazione del decreto-legge non convertito nel caso in cui prevedesse una norma più favorevole rispetto a quella previgente.
[7] Cass. Sez. Un. Sent. n. 33539 del 2001 ha criticato il criterio della doppia punibilità in quanto non da rilevanza alla relazione tra fattispecie astratte che potrebbero essere in un rapporto di assoluta eterogeneità determinando un’inammissibile applicazione retroattiva della norma successiva in quanto assegna per la prima volta rilevanza penale a taluni aspetti del fatto non penalmente rilevanti al momento della sua commissione.
[8] Cass. Sez. Un. Sent. n. 29023 del 2001 in relazione al reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ha criticato aspramente il criterio valutati in quanto non ancorato ad un solido dato oggettivo in quanto una sua applicazione estensiva determinerebbe inevitabili incertezze interpretative, mentre una sua applicazione restrittiva comporterebbe una sovrapposizione di norme penali identiche accumunate per il solo bene giuridico tutelato. Il criterio, dunque, rimane applicato in giurisprudenza ma solo come criterio aggiuntivo e sussidiario a quello della continenza.
[9] È opportuna una specificazione in quanto si possono configurare due ipotesi di specialità: l’una definita specialità per specificazione secondo cui la norma speciale restringe l’ambito applicativo della norma generale; l’altra c.d. specialità per aggiunta invece contiene tutti gli elementi della norma generale, ma con l’aggiunta di un ulteriore elemento specializzante. In ordine a quest’ultima ipotesi si registra un contrasto giurisprudenziale in ordine alle modalità dell’accertamento da parte del giudice: secondo un primo orientamento non vi è continuità se l’elemento specializzante assegna alla fattispecie un significato lesivo del tutto diverso; mentre l’altro orientamento afferma che debbano essere applicate le stesse verifiche per il caso di specialità per specializzazione, ovvero il giudice deve preliminarmente accertare la sussistenza del rapporto di specialità e, successivamente verificare in concreto la doppia punibilità del fatto.
[10] Corte Cost. sentenza n. 362, 24 luglio1995 e Corte Cost. ordinanza del 24 aprile 2003.
[11] Corte Cost. sentenza n. 168 del 1971.
[12] L. 689/1981, art. 40, Violazioni commesse anteriormente alla legge di depenalizzazione: “Le disposizioni di questo Capo si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito”. L. 689/1981, art. 41, Norme processuali transitorie: “l’autorita’ giudiziaria, in relazione ai procedimenti penali per le violazioni non costituenti piu’ reato, pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, se non deve pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di proscioglimento, dispone la trasmissione degli atti all’autorita’ competente. Da tale momento decorre il termine di cui al secondo comma dell’articolo 14 per la notifica delle violazioni, quando essa non e’ prevista dalle leggi vigenti”.
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Luca Bertoldi
Appassionato di politica e di diritti, nel 2018 mi sono laureato presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Trento; a partire da gennaio 2019 ho svolto la pratica forense presso un noto studio legale di Verona e, attualmente, con grande passione e impegno, sono un tirocinante ex art. 73 Dl 69/2013 presso la Sez. penale-dibattimento del Tribunale di Verona.
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