Legge e scarcerazione ai tempi del COVID-19

Legge e scarcerazione ai tempi del COVID-19

Alla stregua dell’emergenza sanitaria nazionale dovuta al COVID-19 abbiamo assistito all’emanazione di diversi provvedimenti di scarcerazione all’interno di determinati istituti penitenziari.

Per quel che attiene al sistema giuridico italiano sappiamo che il legislatore ha sancito il principio della finalità rieducativa della pena, verosimilmente con il conseguente reinserimento del reo all’interno della società, grazie all’articolo 27 della Costituzione.  Sostanzialmente, quindi, la ratio legis ci mostra come un soggetto che abbia commesso un determinato reato possa redimersi e avere la possibilità di “reinserirsi socialmente”.

In merito alle scarcerazioni di boss del calibro di Filippone, Bonura, ossia colui che per Buscetta era un “mafioso valoroso”, Zagaria et similia, tutti sottoposti al regime duro del 41-bis, ed in relazione alle dimissioni del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Basentini F., abbiamo assistito ad un movimentato dibattito politico proveniente soprattutto dai maggiori esponenti della Lega i quali ritengono, alquanto “imprecisamente”, che la responsabilità di queste scarcerazioni sia attribuibile all’ormai noto Decreto Cura Italia. Si badi bene, però, che in realtà il “rilascio anticipato” non è stato attuato per via delle norme speciali messe a punto dal Governo attuale bensì delle leggi ordinarie.

A pronunciarsi in merito alla situazione appena indicata sono stati anche molteplici avvocati penalisti, i quali si sono soffermati principalmente sulla situazione dei detenuti gravemente malati con specifico riferimento all’articolo 32 della Costituzione (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […]”).

Premesso quanto detto sinora, nonostante le accuse mosse principalmente dalla Lega, tutti i riferimenti normativi posti in essere dall’attuale Governo hanno chiaramente previsto “l’esclusione dei condannati per mafia da tutti i cosiddetti benefici penitenziari”.

In merito al caso specifico di Bonura, tramite una nota del Tribunale di Sorveglianza, si è dovuto prontamente chiarire come il rilascio anticipato del soggetto fosse dovuto, in realtà, alla “normativa ordinaria applicabile a tutti i detenuti, anche condannati per reati gravissimi, a tutela dei diritti costituzionali alla salute e all’umanità della pena”. Difatti tale soggetto risultava chiaramente “affetto da gravissime patologie” ed inoltre la pena residuale da scontare ammontava a mesi 11 di cui 8 con la liberazione anticipata.

Dunque, il diritto di cui all’articolo 32 della Costituzione, all’interno di un contesto democratico, domina anche qualora siano presenti condanne relative a determinate categorie di reati ritenuti ostativi.

Prendendo in considerazione la recente ordinanza del 31 Marzo 2020 (n. 2206/2020) del Tribunale di Sorveglianza di Milano possiamo notare un ribaltamento della situazione, successivamente al rigetto da parte di un Magistrato di Sorveglianza di Pavia della richiesta di applicare il trattamento detentivo domiciliare in quanto il regime carcerario sarebbe risultato chiaramente contrastante con il quadro clinico del soggetto in questione (cfr Magistrato di Sorveglianza di Pavia, decreto 20 marzo 2020, n.949/2020). Il suddetto Tribunale di Sorveglianza di Milano, infatti, prendendo in considerazione le gravissime malattie dell’istante, ha addotto che “non si possa escludere che il soggetto sia a rischio, in relazione al fattore età, alle pluripatologie, con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete”. Il Tribunale, inoltre, ha “rilevato che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio; ritenuto dunque che tali patologie possano considerarsi gravi, ai sensi dell’art. 147 c. 1 n. 2) c.p., con specifico riguardo al correlato rischio di contagio attualmente in corso per COVID-19, che appare più elevato in ambiente carcerario e che non consente l’isolamento preventivo”.

È dunque assodato che Bonura et similia siano stati rilasciati anticipatamente, seppur sottoposti ad arresto domiciliare, per via di quanto previsto da norme ordinarie e non per effetto del Decreto Cura Italia, varato dal Governo onde evitare “epidemie carcerarie”.

A destare elevata confusione è stata una circolare inviata dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) il 21 marzo 2020, all’interno della quale si richiedeva a tutti gli istituti penitenziari di comunicare, “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”, un elenco di tutti i detenuti ultrasettantenni affetti da determinate patologie. Ebbene, la circolare del Dap ha creato un allarme di elevato impatto sociale poiché la richiesta non precludeva di inserire all’interno della lista gli over 70 in regime di 41-bis o coloro i quali siano sottoposti al carcere duro nei reparti di Alta sicurezza.

A chiarire la situazione, però, è intervenuto immediatamente il Dipartimento stesso, chiarendo come quella note fosse “un semplice monitoraggio con informazioni per i magistrati sul numero di detenuti in determinate condizioni di salute e di età, comprensivo delle eventuali relazioni inerenti alla pericolosità dei soggetti, che non ha, né mai potrebbe avere, alcun automatismo in termini di scarcerazioni”. Dal Dap è stato inoltre sottolineato che “le valutazioni della magistratura sullo stato di salute di quei detenuti e la loro compatibilità con la detenzione avviene ovviamente in totale autonomia e indipendenza rispetto al lavoro dell’amministrazione penitenziaria”.

Inutile, quindi, “incolpare” il Governo per mere scelte attribuibili ai magistrati che hanno previsto la scarcerazione anticipata per taluni boss mafiosi al fine, si badi, di contemperare però precise esigenze di salute in grado di divenire ulteriormente delicate per via del COVID-19.

In realtà, andando contro le accuse mosse a carico del magistrato di sorveglianza milanese, bisognerebbe giustamente analizzare se il livello di dolore psicofisico del detenuto costituisca un trattamento inumano e degradante; in tal caso, difatti, risulterebbe incontrovertibile la scelta di differire la pena prevedendo quindi la detenzione domiciliare anziché quella all’interno dell’istituto detentivo.  Altresì, volendo citare anche la novella giurisprudenza della Corte Suprema notiamo come “affinché la pena non si risolva in un trattamento degradante e contrario al senso di umanità, lo stato di salute non compatibile con il regime carcerario, tale da giustificare il differimento dell’esecuzione della pena, non deve essere limitato alla presenza di una patologia implicante un pericolo per la vita del detenuto, dovendosi tenere in considerazione, alla luce dei principi di cui all’art. 3 Cedu e art. 27 Cost., comma 3, Cost., ogni stato morboso o scadimento fisico che possa determinare un’esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana, che deve essere assicurato anche nella condizione di restrizione carceraria” (Sezione I, n. 1033/2019; Sez. I, n. 27766 del 22/3/2017).

Infine, la coraggiosa mossa attuata dai giudici italiani “rientra” anche nei parametri, previsti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, all’interno dei quali si ritiene che “La circostanza che un detenuto soffra di gravi e molteplici patologie, attestate da un’adeguata documentazione medica sottoposta alle autorità competenti, comporta che la detenzione in carcere è incompatibile con il suo stato di salute. Il mantenimento dello stato detentivo comporta, in presenza di uno stato di salute precario, un trattamento disumano e degradante” (Sez. II, n.7509/2014).

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