Legge n.156 del 2016 contro il negazionismo dell’olocausto ebraico e dei crimini di genocidio
La legge di cui si tratta è stata promulgata al fine di reprimere penalmente la negazione dell’olocausto ebraico, meglio nota come “Shoa”, nonché dei crimini di genocidio, contro l’umanità e di quelli di guerra.
Specificamente, il dettato normativo approvato l’8 giugno 2016 si prefigge l’obiettivo di porre fine al dibattito sul c.d. “Negazionismo”, ossia una corrente pseudo-storica e pseudoscientifica del revisionismo, avente ad oggetto un evento storico come il genocidio o una pulizia etnica o un crimine contro l’umanità, che consiste in un atteggiamento storico-politico che, utilizzando a fini ideologici-politici modalità di negazione di fenomeni storici accertati, nega contro ogni evidenza il fatto storico stesso.
Inoltre, la legge numero 115 del 2016 ha come scopo quello di attuare nell’ordinamento giuridico italiano la decisione quadro dell’Unione Europea 2008/913/Gai, sulla lotta avverso determinate forme di razzismo e xenofobia con l’utilizzo dello strumento penale.
In particolare, detto atto comunitario, longa manus del programma dell’Aja del 4-5 dicembre 2003, si proponeva di ravvivare le difformi normative degli Stati membri dell’Unione urea in materia, perseguendo penalmente gli atteggiamenti c.d. “negazionisti” con una comune impostazione, che prevedesse pene proporzionate e dissuasive per le persone, fisiche o giuridiche, che pongano in essere atti di tale genia.
A tal uopo, la direttiva quadro imponeva ai Paesi comunitari di punire “l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”.
Il medesimo obbligo è previsto dalla decisione 2008/913/Gai per gli stessi comportamenti quando abbiano ad oggetto i crimini definiti dall’art. 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945.
L’obbligo di criminalizzazione è poi esteso anche all’istigazione a questi comportamenti ed alla complicità nel porli in essere.
Ciò posto, al momento di dare attuazione alle disposizioni della decisione quadro più volte menzionata, il legislatore italiano era agevolato dal fatto che vi fosse una legge, antecedente alla decisione poiché vigente dal 1975, la numero 654, modificata dalla legge n.205 del 1993 di autorizzazione alla ratifica ed all’esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.
La legge numero 654 del 1975 dispone che commette reato “chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o all’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” e “ chi in qualunque modo incita a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza.
L’esistenza di queste disposizioni legislative ha implicato che il legislatore non modificasse il quadro normativo esistente, ma si limitasse ad aggiungere un’aggravante nel caso in cui l’incitamento avvenga mediante la negazione di crimini di cui agli strumenti convenzionali menzionati nella decisione europea.
Ergo, la legge numero 115 del 2016 consta di un unico articolo, che aggiunge all’art. 3, comma tre, della legge numero 654 del 1975 il comma tre-bis, il quale sancisce che si applichi la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della “Shoa” o dei crimini di genocidio, di quelli contro l’umanità, nonché di quelli di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 ed 8 dello statuto della Corte penale internazionale.
Dall’analisi comparativa del disposto normativo della decisione quadro e di quello del novellato testo della legge numero 654 del 1975, si ha agio di inferire come nella prima vi sia la distinzione tra istigazione pubblica alla violenza ed allodio contro un gruppo di persone dall’apologia, oltre a quella tra la negazione o la minimizzazoine grossolana dei crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità previsti dagli strumenti internazionali citati e richiedere che queste ultime fattispecie formino oggetto di crimini specifici.
Nondimeno, ritenuto che la decisione richiede che tali fattispecie siano criminalizzate solo quando i comportamenti dalle stesse previsti siano posti in essere in modo atto ad istigare alla violenza ed all’odio, è consequenziale addivenire ad un’interpretazione che le considera nel contesto dei crimini di istigazione alla violenza ed all’odio, come avviene nel testo dell’art. 3-bis della legge numero 654 del 1975, aggiungendole quali circostanze aggravanti rispetto ai reati di incitamento già previsti dalla legge del 1975.
Invece, nel testo legislativo manca un riferimento, pur richiesto dalla decisione quadro, ai crimini di cui all’art. 6 della Carta di Londra istitutiva del tribunale di Norimberga, il quale prevede anche il crimine di aggressione, quantunque non lo definisca.
La decisione quadro comunitaria, richiamando l’accordo di Londra del 1945, intende fuor di dubbio riferirsi ai crimini ivi previsti.
Tuttavia, stante che la medesima ha istituito anche il tribunale di Norimberga, la cui competenza ha involto principalmente la disamina dell’operato dei gerarchi e dei militari nazisti, implicitamente il riferimento alla Carta di Londra comporta un riferimento alla c.d. “Shoa”.
Il legislatore italiano, ex adverso, ha posto in essere un richiamo esplicito alla negazione del genocidio della razza ebraica quale motivazione dell’incitamento alla violenza o all’odio razziale, facendone oggetto di circostanza aggravante a questo crimine, così rispettando la previsione della decisione quadro 2008/913/Gai.
Il nodo gordiano afferente all’interpretazione del disposto normativo in esame inerisce il fatto che il richiamo al solo statuto della Corte penale internazionale potrebbe indurre a ritenere che solo la negazione di crimini commessi in data successiva all’entrata in vigore dello statuto, occorsa l’1 luglio 2002, possa costituire aggravante ai crimini di istigazione al genocidio.
Pertanto, resterebbero esclusi dal novero applicativo taluni casi di genocidio, come quello del Ruanda del 1994.
Nondimeno, a ben vedere, l’ordinamento giuridico italiano punisce il crimine di genocidio sin dal 1952, in seguito alla ratifica della convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, conclusa a New York il 9 dicembre 1948, ma la mancanza di un esplicito riferimento non consente di ritenere fugato ogni dubbio in merito, ad eccezione della c.d. “Shoa”, precipuamente menzionata.
Da ultimo, in merito all’applicazione dell’aggravante di negazionismo di cui alla legge numero 115 del 2016, permane un duplice ordine di problemi: uno concernente il fatto se si applichi solo a crimini accertati e l’altro l’autorità competente all’accertamento degli stessi.
Quanto a quest’ultimo aspetto, la competenza è concorrente tra i giudici nazionali e la Corte penale internazionale, nel rispetto del principio di sussidiarietà dei secondi rispetto alla prima, nella misura in cui la Corte penale internazionale ha giurisdizione solo quando lo Stato cui spetta, che di solito è quello in cui è stato commesso il crimine o di cui il soggetto agente è cittadino, non eserciti la giurisdizione.
Nondimeno, siffatta affermazione pone delle evidenti criticità sia sotto il profilo probatorio che per il rispetto del principio di legalità.
In sintesi, la legge numero 115 del 2016 limita la rilevanza penale alla negazione del genocidio ed agli altri crimini internazionali effettuata in occasione dell’istigazione e dell’incitamento alla violenza o all’odio razziale, ossia qualificandola quale circostanza aggravante di tali crimini.
Invero, il legislatore italiano ha provato a stabilire un equilibrio tra la punizione penale della negazione ed il diritto alla libertà di espressione, offrendo parimenti l’applicazione del patto internazionale sui diritti civili e politici concluso a New York il 16 dicembre 1966, i cui artt. 19 e 20 allo stesso modo bilanciano i due fattori testé menzionati.
Tuttavia, la soluzione compromissoria non consente di individuare una linea di demarcazione netta, stante che la definizione degli stessi palesa un quid di discrezionalità per ciascun legislatore nazionale e per quello comunitario.
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